In
estate, giocavamo a pallone sulle aiuole davanti agli edifici
INA-CASA di Napoli est. La scuola era finita e liberi dai compiti,
potevamo giocare a pallone dalla mattina alla sera con l’unica
interruzione del pranzo a mezzogiorno, quando le nostre madri ci
chiamavano dai balconi. A furia di giocare, l’erba del prato era
scomparsa, lasciando il posto alla polvere che si attaccava alle
nostre magliette sudate. Coi passi, contavamo quanti metri dovesse
essere larga ogni porta che per paletti aveva una bassa pila di
pietre tufacee. Allestite le porte, nessuno si abbassava a fare il
portiere. Di solito, erano i più piccoli ad essere piazzati in
porta, oppure disposti a cerchio, si faceva il
tocco. Si passava al
conteggio: uno, due, tre…L’ultimo ad essere toccato
restava per il primo tempo in porta. Nel secondo tempo, subentrava un
altro, o restava lo stesso con la promessa che nella prossima partita
avrebbe giocato all’attacco.
Tutti
volevano fare il centravanti di sfondamento, od in alternativa l’ala
destra come Garrincha del Brasile. L’ala sinistra era meno ambita
fino a che non cominciarono ad apparire in tivù grossi bomber che
dalla sinistra del campo facevano favolosi gol, come Gigi Riva. Negli
anni Settanta, eravamo più grandi e giocavamo in un vero campo
sportivo, con le linee a bordo campo, quelle per l’off side, gli
angoli per il corner e la chiazza rotonda per i rigori. Agli estremi,
c’erano vere porte con le reti. Giocavamo nel campo sportivo dietro
la vicina chiesa, partecipando ai tornei rionali con la coppa
placcata d’oro per la squadra vincente. C’era un arbitro col
fischietto, oltre ai due portieri titolari con la divisa nera ed il
numero uno, stampato sulla schiena. C’era la foto dell’intera
squadra prima del fischietto d’inizio e quelle scattate in azione,
durante la partita. A volte, c’era uno sparuto pubblico o un gruppo
di ammiratrici a bordo campo.
Invece
negli anni Sessanta, eravamo alunni delle medie. Giocavamo nelle
aiuole davanti al palazzo e nessuno voleva stare in porta. Difficile
era anche affidare a qualcuno il ruolo dei terzini. Ognuno era
convinto di essere un centravanti di sfondamento come in una squadra
di serie A. Pensavamo a Sivori, Pelé do Nascimento, Mazzola (che
spesso faceva la mezz’ala destra), Eusebio, Luis Vinicio, o uno più
alla portata come Traspedini…Volevamo essere come loro: dei veri
centravanti di sfondamento. Chi aveva la palla al piede non la
passava e se l’azione sfumava, i compagni di squadra gli gridavano
ch’era troppo individualista ed avrebbero fatto anche loro così,
non passandogli più il pallone.
Angelino
abitava al terzo piano, scala B ed aveva il pallone di proprietà. Se
non lo vedevamo scendere in cortile, andavamo a bussare a casa sua.
Rispondeva al citofono una voce femminile: “Chi è?”
A
gara, impetravamo: “Può scendere per favore Angelino?”
Spesso,
era la sorellina a troncare le querule richieste con un secco no. Di
conseguenza, gridavamo da giù: “Angelinooo, scendi. Porta il
pallone…”
Accadeva
che si facesse la questua per il pallone che correvamo ad acquistare
alla merceria di don Michele, nel vicino Rione Santa Rosa. Erano
palloni color arancione e costavano sulle 50 lire. Se si bucavano su
una scaglia di vetro, si potevano gonfiare con la siringa, occludendo
la bucatura col mastice: la colla filante per le gomme delle bici.
Giocando
tutti nel ruolo di centravanti, accadevano le ammucchiate presso una
delle due porte, come nel rugby. Il pallone rimbalzava qua e là tra
la selva delle scarpe scalcagnate.
All’improvviso, qualcuno riusciva a sferrare contro la porta
avversaria il tiro risolutivo che quasi mai il portiere parava.
Esplodeva il grido trionfante: GOL! Nell’accanita baruffa, non si
capiva chi fosse stato l’autore del tiro. Qualcuno chiedeva: “Chi
ha segnato?”
L’autore
del gol levava le mani al cielo, dicendo con orgoglio: “Io… Io ho
segnato.”
Qualcuno
contestava: “E’ stato autogol…”
Un
altro tagliava corto: “E’ gol lo stesso.”
Uno
portava il conteggio e gridava: “Due a zero. Palla a centro.”
Qualcun
altro cercava di contestare il gol perché in fuorigioco ed allora
quello che aveva segnato di forza s’impadroniva del pallone,
minacciando di sospendere la partita.
Per
la squadra perdente, la colpa rimbalzava sul portiere, rimasto
impalato come un babbeo e senza tuffarsi nella polvere, intercettando
a volo il tiro. Qualcuno gridava stronzo
al compagno di squadra perché non manteneva le marcature strette.
L’altro si riteneva un incompreso e rispondeva: “Stronzo sei tu.”
Ci si spintonava, mentre la
squadra che stava vincendo se la rideva e faceva sberleffi. I
perdenti si convincevano a mettere la palla
al centro col
desiderio della riscossa, mentre l’altra squadra si disponeva alla
difesa, ma attenta al contrattacco. Le ali e le mezz’ali
ansimavano, piegate con le mani sulle ginocchia., aspettando
d’intercettare i passaggi di palla. Si disponevano le marcature
strette che poco dopo nessuno rispettava. Ripreso il gioco,
cominciavano i passaggi veloci, fino a portarsi davanti ad una delle
due porte. Avveniva una nuova baruffa di cosce e gambe impolverate.
Il pallone gironzolante frenetico tra le scarpette dei molti
centravanti di sfondamento. Dal CHAOS, usciva il tiro in porta,
imparabile, secondo il portiere. Seguiva il grido trionfante:
“Gol.
Tre a zero. Palla a centro.”
I
perdenti sbottavano: “Figli di zoccola.”
Correvano
le parolacce contro le schiappe per aver fatto segnare agli avversari
il terzo gol. Il povero portiere non ne poteva più. Tre gol subiti
erano troppi. Mandava affanculo
i suoi ed abbandonava il polveroso campo.
Non è propriamente un racconto fantastico, ma sicuramente un bel racconto.
RispondiEliminaInfatti mentre leggevo, aspettavo con ansia il finale fuori dal comune. Chissà, magari atterra un ufo e l'alieno mangia il pallone.
RispondiEliminaUn bel racconto comunque. Tra l'altro mi piaccioni i racconti calcistici d'annata.
Molto bello.
Antonio Ognibene