A
Ulmar – sul pianeta Gedeon III, nell'immensa galassia di Krongiar
– si può trovare un po’ di piacere e di passatempo da Larken.
Gestisce
un locale di infima categoria, frequentato da tutta la feccia
dell’Universo: aureliani,
kròtici, sinkìli,
punkaniani, bèrbesi,
nervelliani, domonèi,
e altra gentaglia di cui si ignora la provenienza e a quale razza
appartenga.
Esseri
con gambe sottili e viscide come tentacoli, con un occhio solo alla
base del naso, con mani dotate ciascuna di dodici dita, con creste o
squame al posto dei capelli, con gobbe adipose sul petto o sulla
schiena, con denti aguzzi e ricurvi, con labbra nere, cascanti, e
altre mostruosità le quali, a guardarle per lungo tempo, fanno
venire il voltastomaco.
Sono
questi i frequentatori abituali del locale di Larken, denominato
L’alcova delle
meraviglie.
*
* *
«In
questo lurido buco dovevi portarmi?» dissi al mio amico e socio in
affari – praticamente ladri ambedue –, un dannato thelliano
del pianeta Loton.
«Non
fare lo schifiltoso come il solito, maledizione!» imprecò. «Vedrai!
Questa volta gli acquisti di Larken non sono disprezzabili.»
«Li
conosco assai bene!... Cosa mai potrebbe acquistare uno sporco
taccagno come lui?» Crollai leggermente la testa. «La sua Alcova
è piena di vecchie baldracche, per di più sdentate, grasse e
puzzolenti.»
«Per
quell’orbo di Squàith, il dio degli stupidi, vuoi ascoltarmi,
dannazione?» insistette l'amico (tale per modo di dire). «Questa
volta è diverso. Te l’assicuro... Attrazioni straordinarie da
togliere il fiato, da fare uscire gli occhi letteralmente fuori dalle
orbite.»
«Povero
illuso!» replicai. «Soltanto i mentecatti come te credono a tutte
le fanfaronate di Larken.»
Non
rispose.
Si
limitò con un dito a indicarmi una specie di palcoscenico in fondo
al locale.
Due
formose ragazze seminude vi si muovevano in modo sensuale, sulle note
di una canzone appena percettibile, per via del continuo vociare e
delle risate sguaiate dei molti avventori.
Nell'Alcova
nessuno mostrava interesse per loro, come invece per le bevande
alcoliche – severamente proibite dalla legge – che Larken
comprava da contrabbandieri merquìsi.
«Be’?»
fece il mio amico, dandomi un colpo di gomito nel fianco. «Vecchie
baldracche dicevi? Sdentate, grasse e puzzolenti? Ne sei ancora
convinto?»
Rimasi
per un momento a bocca aperta, immobile, il respiro quasi sospeso.
Non credevo ai miei occhi.
Scossi
la testa.
«Per
quello schifoso di Larken!» imprecai. «Ma dove ha potuto trovarle?
Non è facile, sai?... È merce rarissima.»
«Eh,
eh!» sogghignò il thelliano.
«Che cosa ti dicevo?»
«Ma
sono… sono…»
«Urdelliane,
amico. Il meglio della galassia di Krongiar. Non troveresti donne più
belle, più procaci, nel giro di parecchie zèrk.»
Rimase un istante in silenzio, poi,
ammiccando: «Una di
quelle sulle ginocchia e scordi tutti i problemi che ti tormentano,
perfino quelli di Gedeon III, per quanto te ne possa importare. Sei
d’accordo?... Credo che tu le conosca assai bene, le urdelliane,
per apprezzarne le qualità.»
Accidenti
se le conoscevo!
Per
più di un mese ero vissuto, con poca acqua e scarsissimo cibo, nel
luogo più aspro e selvaggio del pianeta Hamos: il deserto di Khalem.
Mi ci ero nascosto per sfuggire ad alcuni mercanti hevrenìti
– da me truffati e alleggeriti di molto
denaro –, che volevano farmi la pelle.
Ancor
oggi mi chiedo come ho potuto, quella volta, scampare agli stenti ed
eludere quanti, tenacemente, mi davano la caccia.
Avevo
con me una giovane, affascinante urdelliana,
acquistata per poche kopèkke – una vera miseria, devo dire! – da
un vecchio berkusso intenzionato
a disfarsene.
Ne
feci la mia schiava. Non che la cosa le dispiacesse. Tutt’altro!
Pare,
infatti, che per natura le urdelliane
siano portate a dipendere dagli altri, a sottostare completamente
all’altrui volontà.
Inoltre,
bisogna sapere che la libidine è prerogativa della loro razza, come
di altre, la rettitudine, l’onestà, la verecondia.
Quando
la fame e la sete mi tormentavano atrocemente, per pensare ad altro
(anzi, per cancellare qualsiasi assillo dalla mia mente) mi stendevo
accanto a D’merth – così si chiamava la mia urdelliana
–, disposta a soddisfare qualsiasi mio desiderio, anche il più
inconfessabile.
Grazie
alla sua sfrenata concupiscenza, vivevo per ore uno stato di
indicibile ebbrezza, dimentico di tutto, perfino della mia esistenza.
Non
avrei desiderato di meglio, in quei caldi momenti di passione, che
morire beato tra le sue braccia, o perfino inabissarmi, assieme a
lei, nel più fondo baratro dell’universo.
*
* *
«Allora,»
mi scosse dai miei ricordi l’amico thelliano,
dandomi un altro colpo di gomito nel fianco (l’avrei ammazzato per
questo!), «che cosa ne pensi? Sono o non sono di tuo gradimento?»
Non
risposi.
Respirando
con molta lentezza, osservavo le due urdelliane
al centro del palcoscenico, illuminato a dovere per metterle bene in
risalto.
Con
movimenti e gesti lascivi continuavano allegramente a esibirsi nel
loro numero.
Deglutii
più volte, come davanti a una pietanza squisita, appetitosa, quando
si ha fame.
«Dopo che avranno danzato per questi mostriciattoli,»
riprese il mio socio in affari, volgendo la mano nel locale, «ci
prenderemo ciascuno una di quelle urdelliane.
Ce la spasseremo, vecchio mio! Soltanto due misere kopèkke per
un’ora di ebbrezza. Sei d’accordo?»
Accidenti
se lo ero!... Lo ero eccome, per Squàith!
Divertente racconto di fantascienza nel quale si nota l'influsso del filone ludico (gladiatorio e affini)tanto caro all'autore. E' pervaso da un sottile umorismo che accentua l'aspetto visionario della storia. Bello!
RispondiEliminaGiuseppe Novellino
Un racconto fantascientifico alternativo.
RispondiEliminaMolto bella l'esposizione.
Antonio Ognibene