(È con grande piacere che pubblichiamo, sulle pagine di Pegasus Sf, la
prima parte di un minuzioso, interessante saggio sulla fantascienza di Fabio
Calabrese.)
La maggior parte dei lavori di saggistica sulla fantascienza, ma non
solo sulla fantascienza, i lavori di saggistica letteraria praticamente di ogni
tipo, si pongono davanti al genere ed alle opere che sono l’oggetto delle loro
esercitazioni dal punto di vista del lettore, ossia davanti all’opera come
finita e conclusa, da fruire e da analizzare. Per una volta, vorrei provarmi a
capovolgere l’ottica consueta e cercare di esaminare le cose dal punto di vista
dell’autore.
Cosa c’è alla base dello scrivere fantascienza, a quali motivazioni risponde? Quali
strategie occorre mettere in atto per produrre un’opera fantascientifica? Quali
sono le strutture concettuali sottostanti? Si può dire qualcosa circa il tipo
di fantasia occorrente a tal bisogna?
Ancora prima di ciò, a quali motivazioni risponde la scelta della fantascienza,
piuttosto che di un qualsiasi altro genere narrativo come campo delle proprie
esercitazioni letterarie? In fondo, la fantascienza è, inutile nasconderselo,
un genere ed una passione “di nicchia” che interessa solo un settore minoritario
fra quanti scrivono e leggono.
I meccanismi sottintesi al fatto di scrivere una certa storia in un certo modo,
ci possono aiutare in definitiva a capire cosa significa scrivere (e leggere)
fantascienza?
Molto spesso noi supponiamo che la letteratura nasca da esperienze
effettivamente vissute da coloro che scrivono; così ci aspettiamo che chi
scrive narrativa avventurosa debba aver girato mezzo mondo ed essersi andato a
cacciare in luoghi esotici e lontani dalla civiltà, che chi scrive gialli debba
avere familiarità con le indagini di polizia, che gli autori di narrativa
erotica siano dei grandi viveur, che gli autori di romanzi storici si siano
trovati vicini a vicende cruciali od a grandi personaggi, che chi scrive hard
boiled sia come minimo cresciuto in un quartiere degradato di una grande città
americana.
In parte, ciò è vero, ed io credo che si potrebbero fare molti esempi di
narrativa tratta dalla vita: da Mario Tobino che ha raccontato nei suoi romanzi
l’esperienza come direttore del manicomio di Magliano, fino a Primo Levi che ha
rievocato narrativamente la tremenda esperienza dei campi di concentramento.
Certamente, un discorso simile vale per Ernst Hemingway che somigliava molto ai
suoi protagonisti ed ha vissuto esperienze al di fuori della portata dell’uomo
comune, come la celeberrima avventura sul Kilimangiaro.
Ma lo scrittore di fantascienza come si colloca rispetto a ciò?
Alcuni lettori sono effettivamente convinti che per scrivere fantascienza sia
necessario essere “addentro alle secrete cose”, avere accesso a fonti
d’informazione che per l’ordinario sono tenute segrete, aver visitato la
presunta base segreta “Area 51” nel Nevada, aver letto i dossier riservati del
presunto naufragio alieno di Roswell e cose di questo genere, se non addirittura
essere stato protagonista/vittima di un’abduction, un rapimento da parte di
extraterrestri.
Che degli autori del fantastico abbiano potuto servirsi della loro competenza
professionale nella loro opera narrativa, questo è innegabile, si pensi ad esempio
a Tolkien, docente di filologia germanica ad Oxford, che certamente ha trasfuso
nel Silmarillion e nel Signore degli Anelli la sua
competenza in fatto di antiche saghe e di poemi epici medievali, e fra gli
autori di fantascienza che sono scienziati (che però sono una ristretta
minoranza, Isaac Asimov, Fred Hoyle e pochi altri) qualcuno possa aver tratto
ispirazione per la sua opera dai risultati più avanzati della ricerca, è cosa
che non si può certo escludere.
Molti anni fa, un autore italiano, l’udinese Luigi Rapuzzi, più noto con lo
pseudonimo di L. R. Johannis, fu protagonista di un – discusso e poco credibile
– caso di abduction, ma rapportando quest’unico caso alla generalità degli
autori di fantascienza italiani, anglosassoni, di altra lingua/nazionalità, si
deve per forza arrivare alla conclusione che gli autori di fantascienza non
sono/sono stati soggetti a sequestri alieni con maggiore frequenza della
popolazione generale, e di sicuro, quando uno scrittore descrive gli astroporti
di Aldebaran, questo non significa di certo che li abbia visitati.
Perlopiù, con non più eccezioni di quante se ne riscontrino in qualsiasi gruppo
di persone comunque scelto, gli scrittori di fantascienza sono persone
normalissime, possono essere il vostro vicino di casa o il collega di lavoro,
ed i fatti esterni della loro vita non si distinguono molto da quelli di
chiunque altro, ed allora come si spiega l’apparente scollamento fra narrativa
ed esperienza di vita?
In effetti, il mistero non c’è. In termini molto semplici, è possibile leggere
la realtà del mondo che ci circonda al contrario, usare lo strumento letterario
non per raccontare la propria esperienza di vita ma per distaccarsi da essa.
Ciò avviene, a mio parere, sulla base di due molle precise: l’insoddisfazione e
la curiosità.
Insoddisfazione, che può essere intesa in due sensi, entrambi validi, e che
contribuiscono entrambi a portare ad esprimersi in quel particolare settore
letterario o paraletterario che è la fantascienza una persona che abbia
l’attitudine necessaria per lo scrivere:
Insoddisfazione in primo luogo per quelli che sono i limiti imposti a ciascuno
di noi dal fatto di essere un essere umano, vivente su questo pianeta, entro
una precisa fascia temporale, un’area geografica definita, appartenente ad una
determinata cultura, parlante una certa lingua, e così via.
Possiamo fare riferimento ad H. P. Lovecraft, agli “Irritanti limiti di spazio
e di tempo” che ci impediscono di conoscere il brulicare di forme di vita e di
civiltà che con ogni probabilità esistono sparse in gran numero nell’universo,
ed alla fantasia come strumento razionalmente disciplinato che ci consente di
aggirare, almeno in una certa misura, questi limiti (1).
Ancora meglio possiamo fare riferimento ad uno scritto del nostro Vittorio
Catani che, parecchi anni fa, presentò sotto l’apparentemente dimessa forma di
un editoriale della sua fanzine “THX 1138” quella che a mio parere rimane una
delle più penetranti analisi della fantascienza. Io credo che si possa dire che
Vittorio Catani abbia avuto un destino speculare al mio, nel senso che la sua
riconosciuta ed indiscutibilmente elevata qualità come autore di narrativa ha
finito per mettere in ombra le sue pur eccellenti doti di saggista:
“Se proviamo a partire dall'inizio (ovvero dai moventi che inducono una
persona, lo scrittore in genere, a fissare sulla carta le sue fantasie)
dobbiamo ricordare, col buon Freud, che "l'uomo felice non fantastica;
solo l'insoddisfatto lo fa (...) e ogni singola fantasia è un appagamento d'un
desiderio, una correzione della realtà che ci lascia insoddisfatti." Chi
scrive quindi rielabora materiale emergente dall'inconscio, che subirà poi un
processo di razionalizzazione (e qui giocano i valori formali, i codici
linguistici, ecc.) Ma non siamo ancora al perché queste rielaborazioni ci
portano alla fantascienza e non, ad esempio, alla letteratura normale.
Avanzo un'ipotesi: l'insoddisfazione di chi scrive fantascienza è solitamente
maggiore, o comunque è un genere di insoddisfazione peculiare, in quanto rivolta
non verso persone, o oggetti, o singoli eventi, ma nei confronti dell'intera
realtà, ed in un senso talmente estensivo che forse lo stesso Freud non
considerava” (2).
Questo genere d’insoddisfazione è strettamente connesso con l’altra molla,
quella della curiosità: siamo insoddisfatti dei limiti che ci impediscono di
sapere e di comprendere, della nostra posizione di amebe in una pozzanghera,
quando attorno a noi esiste un universo immensamente vasto e vario che ci
sfugge, certamente questa è una delle molle più potenti che spingono verso la
creazione fantascientifica.
Accanto a questo genere d’insoddisfazione, però, ne esiste un altro – meno
trascendente e più concreto – che non è detto sia d’ispirazione solo in campo
fantastico – fantascientifico, anzi, probabilmente informa di sé gran parte
della letteratura senza aggettivi: l’insoddisfazione per come è organizzato o
disorganizzato il mondo umano, delle relazioni con i nostri simili, sociali,
politiche, economiche; nonostante gli enormi progressi che sono stati
realizzati negli ultimi due secoli almeno nella parte “occidentale” del nostro
pianeta, ancora oggi desiderare che la libertà e la giustizia sociale siano
retaggio comune di tutti gli uomini, par quasi di “voler raddrizzare le gambe
ai cani”; ed allora, come reazione a quest’insoddisfazione nascono spesso
l’utopia, la distopia, la denuncia sociale, la satira, fonti permanenti
d’ispirazione (verrebbe quasi da dire “d’istigazione”) nel campo fantastico –
fantascientifico e fuori da esso.
Sul come s’inizi a scrivere fantascienza, abbiamo solitamente delle risposte
comuni abbastanza ricorrenti: se si vanno a leggersi le interviste rilasciate
dagli autori di fantascienza, sia italiani sia anglosassoni (almeno quelli
importanti che vengono intervistati), le loro biografie o meglio ancora
autobiografie, si trova che quasi tutti gli autori raccontano una storia del
medesimo tipo, un episodio avvenuto di solito in età puberale o prepuberale: il
pargolo si trovava bloccato a casa da un’influenza (scarlattina, morbillo,
varicella) o magari in una villeggiatura noiosa in casa di qualche parente,
nonno o zio, quando ha casualmente scoperto in soffitta o in cantina un baule
od uno scatolone pieno di vecchi fascicoli di fantascienza (se sono italiani,
di solito sono vecchi “Urania”), ha cominciato a sprofondarsi nella lettura con
avidità, e da quel momento è stato catturato.
Sebbene non abbiamo testimonianze simili, tranne che in via del tutto episodica
(del genere aneddoti raccontati fra amici) per quanto riguarda coloro che sono
rimasti semplici lettori, sembra che in entrambi i casi sia scattato un
meccanismo dello stesso genere: la fantascienza parrebbe una specie di virus a
trasmissione generazionale, che magari si conserva in forma inattiva per
parecchia anni sotto l’aspetto di fascicoli che ingialliscono e si ricoprono di
polvere in qualche angolo buio di una vecchia abitazione.
A questo livello, la motivazione principale sembrerebbe essere soprattutto il
bisogno di fuga dalla realtà (il tanto deprecato escapismo, anche se ci si
dovrebbe soffermare un momento a chiedersi se un mondo dal quale tanti sentono
il bisogno di fuggire, sia poi un così bel mondo); tuttavia, non penso che
questo genere di motivazione sia esclusivo, e neppure prevalente in tutti i casi,
perlomeno, se è lecito fare riferimento alla mia esperienza personale, so che
nel mio caso non è andata così.
Per me non è avvenuto nulla di ciò, anzi in un certo senso, direi che il mio
avvicinamento alla fantascienza è avvenuto nel modo contrario: non ho iniziato
a scrivere racconti dapprima imitativi dopo un’abbuffata di letture, ma sono
partito dallo scrivere, dapprima del tutto digiuno del genere, ed è stato
naturale per me incorporare fin dall’inizio in quello che scrivevo (i miei
primi tentativi erano cose illeggibili) una serie di tematiche e di domande:
noi viviamo in un mondo in rapido cambiamento, e questo cambiamento è prodotto
dalla scienza e dalla tecnologia. In esso va inclusa l’esplorazione spaziale
che negli anni ’60 c’erano tutti i motivi per ritenere sarebbe stata assai più
rapida di quel che è effettivamente avvenuto; si trattava solo di anticipare un
po’ con l’immaginazione quel che il domani avrebbe portato. Io credo che questo
mio approccio atipico me lo sono portato e me lo porto sempre dietro. Una volta
Giuseppe Lippi, attuale direttore di “Urania”, mi disse che a suo parere la mia
narrativa non è fantascienza in senso stretto, sebbene utilizzi gli stessi
materiali della fantascienza e risulti – sempre a suo parere – una lettura altrettanto
piacevole, ma dia un piacere diverso da quello della science fiction più
classica.
Io non credo però che atipico significhi isolato, una specie di mosca bianca;
probabilmente, quest’ultimo genere di motivazione è presente anche in molti
altri autori e (forse un po’ meno) lettori; l’elemento centrale sarebbe la
curiosità, la curiosità circa un futuro che, sotto l’impatto di scienza e
tecnologia, sarà un domani certamente diverso dal presente come questo lo è
dalle epoche passate, ed anche la curiosità circa l’universo che circonda il
nostro piccolo pianeta, forse rigoglioso di forme di vita che non conosceremo
mai, una curiosità che l’immaginazione consente di appagare almeno a livello
fantastico.
Rimane l’altra domanda: se, e in quale misura i meccanismi sottintesi al fatto
di scrivere una narrazione in una certa maniera, di sviluppare una narrazione
secondo certe caratteristiche (ed in genere le storie di fantascienza hanno una
struttura molto tipica), ci aiuti a comprendere cosa sia la fantascienza
stessa.
Anche per illustrare questo secondo aspetto della questione, comincerò, se mi
permettete, con un ricordo personale ormai lontano nel tempo. Eravamo a
Ferrara, allo SFIR, (così allora si chiamavano le Italcon) 1978. Tra i relatori
delle varie conferenze c’era Inisero Cremaschi che in quel periodo stava
terminando di curare per la casa editrice Garzanti l’antologia di fantascienza
italiana Universo e dintorni,
sulla quale stava lavorando ormai da un paio d’anni.
Poiché tra i partecipanti alla convention e fra gli ascoltatori presenti in
platea c’erano molti autori che attendevano di vedere i loro racconti
pubblicati su Universo e dintorni (fra cui il sottoscritto, che vi comparve con
il racconto Sheila), Cremaschi
dedicò appunto all’antologia che stava preparando il suo intervento, e per
prima cosa ci rassicurò dicendoci che sarebbe stata pubblicata entro l’anno.
“Entro l’anno, d’accordo”, si affrettò però ad aggiungere, “ma forse voi vi
chiedere entro quale anno”.
Al di là della battuta, ci raccontò però che la preparazione dell’antologia si
era rivelata più laboriosa del previsto perché, non avendo potuto fare conto su
di un vivaio di autori professionisti e di vecchia data, tranne qualche rara
eccezione come Roberto Vacca (presente nell’antologia con il racconto Un giocattolo inutile e complicato),
aveva dovuto compiere un enorme lavoro di cernita su di una gran quantità di
testi di scrittori tutti più o meno dilettanti e/o alle prime armi e che noi,
gli autori selezionati, eravamo il risultato di questa competizione più o meno
darwiniana (3).
La cosa che qui più c’interessa, è però che Cremaschi ci raccontò che in quel
lavoro ebbe modo di farsi un’idea piuttosto chiara della fenomenologia, per
così dire, dello scrittore di fantascienza dilettante.
Di primo acchito si potrebbe pensare che questo genere di autori, anche fra
coloro che non arrivano a produrre in definitiva qualcosa di valido, la regola
sia una fantasia magari sfrenata, magari tale da creare prodotti strampalati
che non si riesce poi a racchiudere in una forma od in un ordine logico; invece
la realtà è molto distante da ciò: l’autore dilettante/esordiente, quello che
probabilmente non riuscirà mai ad andare oltre l’esordio, è caratterizzato – ci
raccontò – da una forte ripetitività; autori di questo genere sembrano
rincorrersi per rubarsi, proponendole in un numero sterminato di varianti, lo
stesso paio d’idee, non una di più.
Le due idee ricorrenti sono sempre, a quanto pare, le stesse:
1)“Le sentinelle”: centinaia di varianti del raccontino (geniale la prima volta
che fu scritto), di Fredric Brown, La
sentinella (4), nel quale ci viene illustrato il punto di vista di un
soldato che riflette in un attimo di pausa della guerra ingaggiata conto mostri
repellenti, alla fine del quale scopriamo che il soldato è una stravagante
creatura aliena, e che i mostri repellenti siamo noi, gli esseri umani.
2)“I progenitori”: il racconto è imperniato su di una coppia, un uomo e una
donna, sopravvissuti a qualche immane catastrofe che ha provocato l’estinzione
di tutto il resto dell’umanità: nucleare, ecologica o quel che volete voi; alla
fine del racconto scopriamo che i protagonisti si chiamano Adamo ed Eva.
Letteralmente, ci disse, un autore poco dotato sembra quasi incapace di andare
al di là dal riproporre la sua ennesima variante di sentinelle e progenitori.
Ci potremmo chiedere il perché. Questo interrogativo non riguarda tanto il
fatto che, evidentemente, la fantasia è più limitata di quanto penseremmo a
prima vista e che, in assenza di un esercizio, di una disciplina dell’arte
dello scrivere e, per quello che riguarda la fantascienza, del possesso di una
cultura scientifica non rudimentale, la famosa “creatività spontanea” non
approda a nulla, ma proprio perché, tende a presentarsi questo genere di narrazioni
secondo uno schema così ripetitivo.
La risposta che si presenta più spontanea è probabilmente perché questo
rappresenta il modo più facile di scrivere fantascienza, abbordabile anche da
qualcuno che sia un assoluto dilettante. Vediamo cosa accade: in questo tipo di
storie si parte da un assunto piuttosto semplice, si prende un’aspettativa che
si suppone radicata nel lettore, ad esempio che la sentinella immersa nel suo
soliloquio sia un essere umano come noi, oppure la tendenza a porre i protagonisti
dell’altro tipo di racconti come conclusione e non come inizio di un ciclo
storico, e la si viola. In questo modo il racconto, solitamente breve,
definisce un mini – universo perfettamente circoscritto, al cui interno non
valgono più alcune delle regole, o magari soltanto una regola del nostro mondo
usuale.
Questa è, potremmo dire, la “procedura standard” che sta all’origine di un gran
numero di racconti e romanzi, probabilmente la maggior parte dei racconti e
romanzi di fantascienza, ma evidentemente c’è un problema: dal momento che ci
viviamo dentro, capire quali presupposti, quali aspettative del nostro mondo,
della nostra esperienza, potrebbero essere violate, non è poi così facile, e
coloro che non hanno molta fantasia, finiscono per ricadere su di un paio di
situazioni, sempre le stesse.
Io credo che sulla scorta di questa esperienza, ma non solo di questa, possiamo
dire che la fantasia e la creatività sono fenomeni meno diffusi di quanto in
genere non si pensi. Vogliamo dire la verità? E’ raro avere un’idea originale,
non solo, ma è più probabile che un’idea originale venga a chi ha allenato la
propria mente a produrne, anche se, come affermava Ruskin, “Non ci sono norme o
campioni per la produzione di un gran lavoro d’arte, non sarebbe arte ma fabbricazione
su misura” (5).
In generale nella nostra cultura occidentale, sotto l’influsso di una
persistente tradizione di origine romantica, si tende ad accentuare la
contrapposizione tra razionalità e creatività, si è preteso perfino di trovare
ad esse una distinta collocazione anatomica nelle due metà del cervello:
l’emisfero destro, “analogico” sarebbe la parte creativa mentre l’emisfero
sinistro sarebbe la sede del pensiero razionale, il che, almeno per certi
aspetti, dà l’idea di un balzo all’indietro ai primordi della psicologia, alla
frenologia di Gall.
Io non vorrei adesso addentrarmi in questioni di anatomia cerebrale e
fisiologia del sistema nervoso che ci porterebbero lontano, ma sicuramente a
livello di quell’epifenomeno variamente chiamato “coscienza”, “mente”, “io”,
nessuno dice: “Adesso uso l’emisfero destro, ora invece il sinistro”, perlomeno
non nel senso in cui possiamo usare la mano destra o la mano sinistra, muovere
la gamba destra piuttosto che la sinistra.
Se dobbiamo risolvere un’equazione di secondo grado o compilare la
dichiarazione dei redditi, certamente ricorreremo ad una razionalità che non ha
nulla di creativo, ma se vi state dedicando ad esempio alla narrativa – ammesso
che se ne possa davvero parlare come di due funzioni separate – l’intreccio tra
logica e creatività sarà costante.
Che si tratti di un racconto breve alla Fredric Brown o di un grande ciclo
narrativo, non è possibile scrivere una storia semplicemente ammucchiando
parole una dopo l’altra, e nemmeno scene o situazioni: perché questo lavoro
abbia un senso, occorre che vi sia un filo logico che colleghi tutto ciò che
accade a quanto è stato narrato prima ed a quanto avverrà successivamente nel
corso della narrazione. Lo scrittore ideale dovrebbe avere in ogni momento un
controllo completo sulla propria creazione.
Nel romanzo Le argentee teste d’uovo,
Fritz Leiber immagina che esistano delle macchine, i “mulini a parole” che
servono proprio a sollevare gli scrittori dalla parte più logico – meccanica
del loro lavoro, in maniera da concentrarsi solo sugli aspetti creativi di
esso. Un team di autori decide di fare a meno dei “mulini a parole”; si mettono
tutti davanti alle rispettive macchine da scrivere, ed eccoli tutti
all’improvviso colpiti dal più atroce malanno che affligge gli scrittori, la
Sindrome da Foglio Bianco (6).
Al presente, nonostante i progressi dell’informatica, gli scrittori devono
ancora cavarsela senza i “mulini a parole”, ed io credo che una simile
invenzione tarderà ancora per un pezzo; la principale differenza rispetto al
passato è che la Sindrome da Foglio Bianco si è trasformata nella Sindrome da
Schermo Vuoto.
L’apologo di Leiber ha un significato preciso: senza il rigore del pensiero
logico razionale cui questi autori si sono disabituati delegandolo a qualcosa
di meccanico, non è che la spontaneità irrazionale, quella dei bambini, dei
pazzi, degli idioti, porti poi da molte parti.
La soluzione è dunque puntare sul mestiere, anche per lo scrivere fantascienza
in Italia che è un nobile dilettantismo decoubertiniano, e chi mestiere non ne
ha, è costretto a ricorrere a poche formule stereotipate, “sentinelle” e
“progenitori”, appunto.
La fantasia, quella autentica, cioè la capacità di “far apparire” qualcosa che
prima non esisteva (etimologicamente dal greco fainomai, “apparire”), è un dono
raro, ed oltre a ciò io ho il sospetto che nella nostra cultura esso abbia
nettamente imboccato una spirale di decadenza.
Quando si vede alla televisione la pubblicità di giochi o giocattoli che i
genitori sono invitati ad acquistare per “stimolare la fantasia” dei loro
bambini, non si può vincere il sospetto che la “fantasia” dei piccoli,
incanalata in una direzione prestabilita da altri, cesserà di essere tale, e
l’effetto sarà l’opposto di quello pubblicizzato.
La fantascienza è probabilmente il genere narrativo che richiede l’esercizio
della fantasia in misura più ampia; in misura maggiore ad esempio – a mio
parere – di quella richiesta dalla cosiddetta fantasy, dove in realtà
personaggi, situazioni, ambientazioni sono enormemente più stereotipati.
In realtà lo stesso termine fantasy è un equivoco che nasce dal presupposto che
un genere letterario sganciato non solo dal realismo, ma anche dalla
razionalità scientifica, sarebbe per ciò stesso un genere ricco di fantasia e
creatività. Se non sapessimo che un tale concetto è un cascame dell’ideologia
romantica con la sua presunzione di opposizione fra creatività e razionalità,
verrebbe da chiedersi da dove esso nasca, tanto è in contraddizione palese con
la realtà.
Veramente ci possiamo chiedere dove sia la fantasia quando c’imbattiamo, come
spesso capita, in autori che non sono in grado di immaginare rapporti sociali
diversi da quelli di un persistente feudalesimo, altre relazioni fra uomo e
donna che quelle anteriori all’età del femminismo, situazioni e personaggi
ripetitivi e stereotipati: guerrieri, eroine, stregoni e mostri; spesso non ci
sanno raccontare altro che l’ennesima variante del ciclo arturiano o versioni
adultizzate delle fiabe della nostra infanzia.
Bene, la differenza si vede. Proprio perché la fantasia è rara e per scrivere
fantasy in realtà ne occorre abbastanza poca, ad esempio quando esisteva il
premio Courmayeur ed era distinto nelle due sezioni “fiction” e “fantasy”, anno
dopo anno, edizione dopo edizione, i racconti partecipanti alla sezione
“fantasy” erano dal doppio al triplo di quelli della sezione “fiction”.
Io non voglio dire che non si possa o non si debba scrivere fantasy, ma se
scrivere una storia di fantasy purchessia richiede decisamente meno inventiva
rispetto allo scrivere fantascienza, riuscire a produrre della fantasy che sia
realmente originale ed innovativa rispetto agli stereotipi ricorrenti, lo è
immensamente di più.
Non è probabilmente un caso che John R. R. Tolkien, uno dei pochi autori del XX
secolo che siano riusciti a produrre una fantasy realmente creativa e originale
rispetto ai modelli consueti del genere, sia stato salutato come un genio;
probabilmente lo era.
Uno scrittore di fantascienza dotato di maggiore fantasia rispetto a quella del
raccontino a tesi delle “sentinelle” e dei “precursori” può inventare un numero
illimitato di varianti del medesimo schema di base, ossia una violazione di
qualche premessa od aspettativa inconscia e radicata del nostro mondo “dato per
scontato”: ad esempio immaginare un mondo futuro nel quale la telepatia è
diventata di uso talmente comune da rendere il linguaggio verbale desueto ed
incomprensibile, nel quale le piante abbiano evoluto un sistema nervoso e
l’intelligenza, mentre gli animali no; un sistema stellare nel quale gli esseri
viventi sono fatti di plasma ad altissime temperature e vivano sulla superficie
della loro stella, mente i pianeti sono dei pezzi di roccia freddi e morti. Le
combinazioni sono praticamente infinite.
Questo tipo di operazione non è per nulla così gratuito come potrebbe sembrare:
negare una premessa largamente e irriflessivamente accettata, data per scontata
da tutti e vedere quali conseguenze ne derivano, è un procedimento largamente
impiegato nella filosofia e nella ricerca scientifica.
Proviamo ad esempio ad immaginare che non sia vero che le idee siano il
semplice riflesso nella nostra mente degli oggetto del mondo esterno, che non
sia vero che i sensi bastino ad attestarci l’esistenza di una realtà fuori di
noi, che non sia vero che i concetti di bene e di male chiaramente definiti ed
universali siano il perno della morale, avremo le premesse delle filosofie di
Platone, di Cartesio, di Nietzsche, ma il pensiero scientifico procede nello
steso modo.
Proviamo a chiederci se è vero e cosa consegue negando che il sole che vediamo
sorgere e tramontare ogni giorno ruoti davvero attorno alla Terra e supponiamo
il contrario, che la velocità di caduta di un corpo dipenda dal suo peso e sia
costante, che le specie viventi che vediamo perpetuarsi generazione dopo
generazione attraverso una prole simile ai genitori siano immutabili nel tempo,
che la definizione aristotelica da tutti accettata dell’uomo come “animale
razionale” sia vera, che lo spazio ed il tempo, il “dove” e il “quando” siano
delle costanti universali: avremo l’astronomia copernicana, la meccanica
galileiana, la teoria dell’evoluzione di Darwin, la psicanalisi di Freud, la
teoria della relatività di Einstein.
Si potrebbe quasi dire che ogni grande progresso nella storia della scienza è
nato dalla rimessa in discussione di un presupposto comunemente dato per
scontato.
Sicuramente non può essere imputato a discredito della fantascienza l’usare
ordinariamente lo stesso modo di procedere, ma forse qui abbiamo qualcosa che è
più di un’analogia.
Certamente scienza e filosofia sono molto distanti da quella che rimane una
pura esercitazione letteraria: la filosofia ha i suoi modi, molto tecnici, di
porre le domande ed escogitare le risposte attorno al mondo ed al significato
delle cose, la scienza è tale perché sottopone le sue idee all’indagine ed alla
verifica sperimentale, lavoro spesso arduo, lungo, costoso, ben diverso dalla
situazione di chi deve combattere solo con il nitore delle pagine bianche (o
dello schermo vuoto); anche se, fatto salvo il carattere oggettivo della
successiva fase di sperimentazione e verifica, la scienza è nel momento della
genesi delle sue idee, più simile di quanto non si penserebbe all’attività
letteraria ed artistica, ma la fantascienza ha questo che la distacca dagli
altri generi letterari e l’avvicina all’attività scientifica e filosofica:
nasce dallo stesso non dare nulla per scontato, dallo stesso porsi
interrogativi imbarazzanti, dallo stesso gusto di sconvolgere certezze date per
acquisite, dalla stessa consapevolezza che finché crediamo di sapere, faremo
ben pochi passi avanti nella conoscenza.
In un mio precedente lavoro, Le tre
facce del fantastico (7), avevo provato a proporre un’analisi della
letteratura fantastica (fantascienza, ma anche fantasy, horror e quanti altri
generi o sottogeneri è possibile cercare di individuare) secondo un’ottica
inconsueta, non basandomi come di solito si fa sui contenuti (suddivisione
classica: se parliamo di mostri, spettri e vampiri, siamo nell’horror;
spadaccini e stregoni in bilico fra il preistorico e il medievale è fantasy; se
abbiamo a che fare con alieni, robot e astronavi, beh, allora siamo nella
fantascienza), ma sulle strutture, e mi è parso che se ne potessero individuare
essenzialmente di tre tipi:
Emblematica: è quella del racconto a tesi, del racconto – idea, dell’idea – per
così dire – che racconta se stessa, La
sentinella di Fredric Brown ne rimane, come abbiamo visto, l’esempio più
classico.
Combinatoria: è la classica storia ad intreccio, basata sulla presentazione di
situazioni e l’interazione dei personaggi; è a tutti i livelli ed in tutti i
settori, fantastici e non, la forma di narrativa più diffusa.
Stilemica: quando gli stilemi, i topoi condivisi di una tradizione narrativa sono
presentati in forma quasi pura: l’intreccio, la trama offrono loro un pretesto
assai modesto, sono – usando un brutto termine oggi molto di moda –
autoreferenziali.
La forma narrativa stilemica, sospetto abbia avuto almeno un “padre nobile” in
Ludovico Ariosto; nell’Orlando Furioso
dissacrando la tradizione del romanzo cavalleresco non ha egli forse messo in
luce i “tipi puri” del cavaliere cortese, dell’eroina angelica fin nel nome,
del mago deus ex machina e via dicendo?
Ad ogni modo, si tratta di una forma narrativa oggi molto diffusa nella
narrativa sperimentale (tutta la corrente minimalista nel mainstream), ed in
una certa parte della fantascienza (si pensi alla new wave). Ora però,
eccettuata quest’ultima che portava nella fantascienza istanze che dalla
fantascienza non nascevano, e rappresenta una fase oggi storicamente superata
dello sviluppo del genere fantascientifico, quale tipo di struttura è
maggiormente caratteristico della fantascienza, e perché?
La risposta è abbastanza semplice: abbiamo un gruppo di storie, essenzialmente
racconti brevi, nelle quali l’elemento emblematico è presente nella sua
purezza, i racconti fulminanti alla Fredric Brown ma non solo essi; e poi una
serie vastissima di storie nelle quali all’elemento emblematico si somma quello
combinatorio, capaci di svilupparsi attraverso centinaia o migliaia (si pensi
ai grandi cicli) di pagine di narrazione; il primo, però non scompare mai, se
non altro perché l’autore di fantascienza ha sempre l’ambizione di raccontare
qualcosa che si svolge in un mondo diverso, dove le cose non sono così come le
conosciamo.
Con la scusa di intrattenerlo (comune ad ogni genere di narrativa), la
fantascienza vuole portare il lettore a riflettere sui presupposti della
propria esistenza, ad instillargli almeno un piccolo dubbio che l’universo nel
quale vive sia meno scontato, meno rassicurante e più ricco di potenzialità di
quello che crede, e di solito la buona fantascienza ci riesce.
--------------
NOTE
1) Howard P. Lovecraft: L’orrore
soprannaturale nella letteratura (Supernatural Horror in Literature) in: Opere
complete, Sugar, Milano 1973.
2) Vittorio Catani: “THX 1138” n° 5-6, Bari ottobre 1987, editoriale.
3) A cura di Inisero Cremaschi: Universo e dintorni, Garzanti, Milano 1978.
4) Fredric Brown: La sentinella (Sentry) in: Le meraviglie del possibile,
Einaudi, Milano 1959.
5) John Ruskin, citato in: “Wow” anno 3° n 17, Luigi F Bona editore, Milano
marzo/aprile 1977, 1^ di copertina.
6) Fritz Leiber: Le argentee teste d’uovo (The silver Eggheads) S.F.B.C. La
Tribuna, Piacenza 1974.
7) Fabio Calabrese: Le tre facce del fantastico, “Futuro Europa” n 35, Perseo
Libri, Bologna agosto 2003.