Alla memoria di Serguei Ivanovitch Chmeliov
(1896-1921)
Piano piano, la serata s’era spenta nel
mormorio di conversazioni languenti. Gli ultimi ospiti erano appena scomparsi
quando la vostra mano, padre, mi si è abbattuta sul polso, stringendolo con un
vigore che non conoscevo più da molto tempo…
– Kto? Kto tam takoi? Chi c’è laggiù ? – mi avete chiesto, senza inquietudine, ma con la determinazione d’un padrone di casa confrontato a persona non grata.
Ho seguito la traiettoria indicata dal dito che aveva perso il tremito abituale, ma ho soltanto scorto le ombre dei servitori che sparecchiavano sotto il bagliore tremulo dei lampadari.
– Padre, non c’è più nessuno.
– Niét. È rimasto qualcuno che non abbiamo invitato, per giunta.
Scrutando il fondo del salotto, là dove l’oro delle icone riverbera sul velluto d’un’ottomana, ho appena notato il bagliore screziato d’una stoffa preziosa. Dunque, ho balbettato qualcosa a proposito d’uno scialle dimenticato da una nostra ospite, e sul vostro viso s’è dipinta l’ironia compassionevole che accoglieva le mie sciocchezze di bambina… Prima di dileguarvi sul sottile cigolio della sedia a rotelle, avete insistito sulla necessità assoluta di sbarazzarci dell’intruso – o dell’intrusa –, al che ho acconsentito, con una sensazione d’impotenza.
Rimasta sola, sono stata invasa da un’impressione di déjà vu ed ancor più da un terrore che è aumentato quando un fulmine di brace è sgorgato dall’ottomana : un personaggio imponente, rivestito d’un tabarro scarlatto, vi era seduto, ripiegato su se stesso, stringendosi la chioma – una criniera di belva – tra le sue mani di contadino, forti e nodose… Ero così sgomenta, padre, che non ho potuto farci niente quando la cosa si è eretta e, dispiegando due ali di fuoco, si è dileguata nell’oscurità, fra due tendaggi di velluto e due ritratti d’antenati dall’imperioso sguardo protettore – del resto, è grazie al loro segreto sostegno che ho osato inseguire il mostro in camera vostra.
Ivi regnava una calma strana, quella che precede gli incubi : il grande orologio d’ebano scandiva, discreto, l’irreversibile, sulla scrivania una lampada a petrolio rischiarava penne, calamai e pagine che aspettavano il seguito delle vostre memorie. Supino, immobile sul letto, mi offrivate il mistero del vostro profilo, identico alla falce di luna sospesa nel cielo, dietro il pallore delle tende… Silenziosa, mi sono seduta davanti alla finestra ed ho subito notato un foglietto di calendario appuntato ai merletti : la carta era ingiallita e parzialmente annerita – come sottratta al fuoco –, ma la data era perfettamente visibile :
25 ottobre 1917.
L’orologio smette di battere.
Una deflagrazione scuote la camera, la facciata del nostro palazzo crolla e ci ritroviamo a picco su di un paesaggio di follia distruttrice : la statua dello zar Alessandro esplode in mille pezzi, un uragano di bandiere rosse si riversa nel Palazzo d’Inverno, dove infierisce un ometto barbuto, dallo sguardo penetrante, dal berretto d’operaio… Al di sopra di quest’apocalisse, si libra immensa, incandescente nel cielo, l’indesirata ospite che porta inciso, sulla fronte altera, il nome suo in lettere di fiamma e di sangue :
Pеволюция. Rivoluzione.
Ebbene sì: di nuovo, abbiamo dovuto subire la visita dell’intrusa mai riconosciuta, ancor meno accettata. Ma l’insolente, ad ogni suo anniversario, si diverte a disturbare il riposo d’aristocratici morti senza saperne il perché. La forza del diniego è tale che dimentichiamo, sistematicamente, l’esistenza dell’importuna, fino al momento in cui ritornerà ad imporsi, l’inesorabile.
Fin da ora, aspetto la vostra domanda rituale, padre mio :
– Kto?
Ancora e ancora – nell’eterna notte dei tempi.
– Kto? Kto tam takoi? Chi c’è laggiù ? – mi avete chiesto, senza inquietudine, ma con la determinazione d’un padrone di casa confrontato a persona non grata.
Ho seguito la traiettoria indicata dal dito che aveva perso il tremito abituale, ma ho soltanto scorto le ombre dei servitori che sparecchiavano sotto il bagliore tremulo dei lampadari.
– Padre, non c’è più nessuno.
– Niét. È rimasto qualcuno che non abbiamo invitato, per giunta.
Scrutando il fondo del salotto, là dove l’oro delle icone riverbera sul velluto d’un’ottomana, ho appena notato il bagliore screziato d’una stoffa preziosa. Dunque, ho balbettato qualcosa a proposito d’uno scialle dimenticato da una nostra ospite, e sul vostro viso s’è dipinta l’ironia compassionevole che accoglieva le mie sciocchezze di bambina… Prima di dileguarvi sul sottile cigolio della sedia a rotelle, avete insistito sulla necessità assoluta di sbarazzarci dell’intruso – o dell’intrusa –, al che ho acconsentito, con una sensazione d’impotenza.
Rimasta sola, sono stata invasa da un’impressione di déjà vu ed ancor più da un terrore che è aumentato quando un fulmine di brace è sgorgato dall’ottomana : un personaggio imponente, rivestito d’un tabarro scarlatto, vi era seduto, ripiegato su se stesso, stringendosi la chioma – una criniera di belva – tra le sue mani di contadino, forti e nodose… Ero così sgomenta, padre, che non ho potuto farci niente quando la cosa si è eretta e, dispiegando due ali di fuoco, si è dileguata nell’oscurità, fra due tendaggi di velluto e due ritratti d’antenati dall’imperioso sguardo protettore – del resto, è grazie al loro segreto sostegno che ho osato inseguire il mostro in camera vostra.
Ivi regnava una calma strana, quella che precede gli incubi : il grande orologio d’ebano scandiva, discreto, l’irreversibile, sulla scrivania una lampada a petrolio rischiarava penne, calamai e pagine che aspettavano il seguito delle vostre memorie. Supino, immobile sul letto, mi offrivate il mistero del vostro profilo, identico alla falce di luna sospesa nel cielo, dietro il pallore delle tende… Silenziosa, mi sono seduta davanti alla finestra ed ho subito notato un foglietto di calendario appuntato ai merletti : la carta era ingiallita e parzialmente annerita – come sottratta al fuoco –, ma la data era perfettamente visibile :
25 ottobre 1917.
L’orologio smette di battere.
Una deflagrazione scuote la camera, la facciata del nostro palazzo crolla e ci ritroviamo a picco su di un paesaggio di follia distruttrice : la statua dello zar Alessandro esplode in mille pezzi, un uragano di bandiere rosse si riversa nel Palazzo d’Inverno, dove infierisce un ometto barbuto, dallo sguardo penetrante, dal berretto d’operaio… Al di sopra di quest’apocalisse, si libra immensa, incandescente nel cielo, l’indesirata ospite che porta inciso, sulla fronte altera, il nome suo in lettere di fiamma e di sangue :
Pеволюция. Rivoluzione.
Ebbene sì: di nuovo, abbiamo dovuto subire la visita dell’intrusa mai riconosciuta, ancor meno accettata. Ma l’insolente, ad ogni suo anniversario, si diverte a disturbare il riposo d’aristocratici morti senza saperne il perché. La forza del diniego è tale che dimentichiamo, sistematicamente, l’esistenza dell’importuna, fino al momento in cui ritornerà ad imporsi, l’inesorabile.
Fin da ora, aspetto la vostra domanda rituale, padre mio :
– Kto?
Ancora e ancora – nell’eterna notte dei tempi.
(Tratto dalla rivista Solaris n° 188 - Traduzione dal francese di Serena Gentilhomme - Illustrazione di Laurine Spehner)
Breve ma intenso e stilisticamente impeccabile questo racconto di Serena Genthilomme, che salutiamo molto cordialmente.
RispondiEliminaSenza dubbio un bel racconto, molto avvincente. Una curiosità. Se la Gentilhomme, come leggo dai cenni biografici, è fiorentina di nascita, come mai traduce se stessa in italiano? Ciò significa che è di madrelingua francese?
RispondiEliminaG.S.
Buongiorno, Anonimo, e grazie dei complimenti!
EliminaPer chiarire il mistero, sono di madrelingua italiana, ma d'espressione letteraria francese: la cosa è un po' complicata, ma ci si fa l'abitudine!
Racconto suggestivo e visionario, ben scritto e impeccabile nel suo scorrere. Interessante l'argomento del tempo, rivisitato in modo originale. Mi è piaciuto.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino
Mi è davvero piaciuto il racconto di Serena.
RispondiEliminaScritto molto bene.
Mi fate arrossire, cari colleghi!
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