Ho un problema: la mia
macchina del tempo va in ritardo.
Ho perso ore a darle la carica in modo corretto (non conviene forzare il meccanismo, come dimostra il tragico incidente di Chichilo Sartori) ma non c’è niente da fare.
Ho cercato di trovare una qualche equazione che mi permetta di compensare il meccanismo allentato (la mia ipotesi era che quanto più lontano andava nel tempo, avanti o indietro, più faceva ritardo) ma non c’è stato niente da fare. L’ho portata al laboratorio di Laucha Micheli – non c’è miglior orologiaio di lui - . Ho consultato Manteca Acevedo, che di motori quantici ne sa a bizzeffe. Ho corretto il flusso dei tempioni con una barriera di interazione elettromagnetica a largo raggio, ho arginato le forze di repulsione elettrostatica per limitare la velocità termica, sono intervenuto nella relazione an/cat in modo da aumentare l’energia di passaggio; ma anche questo non è servito a niente.
E il problema non è da poco.
Sono diventato viaggiatore perché era il modo migliore per unire le mie due passioni: da un lato, sono una specie di scienziato casareccio, che ama costruire dispositivi strani; e dall’altro, mi affascinano gli episodi aneddotici della storia; sicché, quando ho trovato le istruzioni non ho esitato; ho costruito la Macchina e mi sono lanciato nello spazio-tempo. Ma non c’è niente da fare.
Tre o quattro volte ho voluto vedere come perdeva la testa Maria Antonia Josepha Johanna von Habsburg-Lothringen il venticinque di Vendémiaire dell’anno due della Repubblica Francese, alle undici di mattina, nella Piazza della Rivoluzione a Parigi; e sono sempre arrivato quando gli ultimi curiosi si stavano allontanando, e il boia Sansón puliva la lama della ghigliottina. Una volta sono arrivato perfino nella notte tra il venticinque e il ventisei, e ho trovato solo un ubriaco che stava pisciando tra le gambe del patibolo.
Ho voluto vedere Martin Luther King e il suo I have a dream il ventotto agosto del 1963, di fronte al monumento di Lincoln, a Washington; ma ho solo trovato le scale piene di cartacce e sporche per le migliaia di persone che le avevano calpestate; e un gruppetto appartato che commentava, allontanandosi, quanto impressionante fosse stato il discorso.
Ho provato a trovarmi, tra le quattordici e venticinque e le quindici del trenta aprile del 1945 sui tetti del Reichstag a Berlino e risolvere, una volta per tutte, se è stato Melitón Varlámovich Kantaria, o Mijaíl Petróvich Minin o Abdulchakim Ismailov il soldato che ha sventolato la bandiera rossa sul portale del Parlamento tedesco, e vedere Yevgueni Jaldei immortalare il momento in una foto (icona, se ce n’è una, che segna la fine della Seconda Guerra); ma non sono arrivato in tempo nemmeno per vederlo mettere via la sua attrezzatura. Erano già le cinque del pomeriggio, il tetto era vuoto e non c’era nessuna bandiera.
Quando ho toccato il suolo della Curia del Teatro di Pompeo a Roma, alle idi di marzo dell’anno 709 Ab Urbe còndita, Bruto e i congiurati avevano già assassinato Giulio Cesare.
Non ho potuto vedere Perón sul balcone della Rosada, il diciassette ottobre del quarantacinque. In Nagasaki la bomba era già esplosa. Già non c’era più nessun occidentale in Saigon. I militari non mi hanno lasciato entrare al Ground Zero di Roswell. Gli operai dei Beatles stavano smontando le attrezzature dal tetto dell'edificio della Apple. Mary Jane Kelly era già morta nel suo letto e non ho trovato tracce di Jack lo Squartatore. I cadaveri di Mussolini e della Petacci erano già appesi a testa in giù nella stazione di servizio di piazzale Loreto. La macchina di Lady Di era a pezzi nel tunnel a lato della Senna, e circondata da ambulanze e auto della polizia. Non restavano che pezzi di legno del ponte sul Kwai. Di Giovanna D’Arco restavano solo le ceneri e due o tre braci ravvivate da un lieve vento del nord. Dempsey stava risalendo sul ring dopo il terribile montante destro di Firpo. Gli alberi di Tunguska erano caduti e in fiamme. E, ovviamente, la polizia aveva già transennato Dealey Plaza a Dallas e avevano già portato JFK, ferito mortalmente, al Parkland Memorial Hospital.
Non c’è niente da fare. Arrivo sempre in ritardo ovunque per colpa di questo catorcio che mi è costato più di dieci anni di lavoro, una mostruosità in denaro, il mio matrimonio, l’odio dei miei figli e l’abbandono da parte di genitori e amici.
Naturalmente, ho provato diverse volte a tornare nel 1998 per mettermi in guardia da questo inconveniente, con la speranza di trovare, in quei primi passi, una soluzione adeguata e forse ovvia nei progetti presi dalla rivista “Meccanica Popolare” del mese di marzo; però, qualsiasi cosa faccia, arrivo sempre dopo aver chiuso il mio laboratorio e mentre, di sicuro, sto sonnecchiando sull’autobus nel lungo viaggio di ritorno a casa, nelle ultime ore del pomeriggio. Non sono nemmeno arrivato in tempo per avvertirmi di tenere forte il corrimano quella volta che l’autobus 298 ha frenato di colpo, all’angolo tra Brandsen e Quirno Costa, per colpa di un taxista che ha attraversato con il semaforo rosso: mi è costato una caduta e un mal di schiena durato tre settimane.
Ho perso ore a darle la carica in modo corretto (non conviene forzare il meccanismo, come dimostra il tragico incidente di Chichilo Sartori) ma non c’è niente da fare.
Ho cercato di trovare una qualche equazione che mi permetta di compensare il meccanismo allentato (la mia ipotesi era che quanto più lontano andava nel tempo, avanti o indietro, più faceva ritardo) ma non c’è stato niente da fare. L’ho portata al laboratorio di Laucha Micheli – non c’è miglior orologiaio di lui - . Ho consultato Manteca Acevedo, che di motori quantici ne sa a bizzeffe. Ho corretto il flusso dei tempioni con una barriera di interazione elettromagnetica a largo raggio, ho arginato le forze di repulsione elettrostatica per limitare la velocità termica, sono intervenuto nella relazione an/cat in modo da aumentare l’energia di passaggio; ma anche questo non è servito a niente.
E il problema non è da poco.
Sono diventato viaggiatore perché era il modo migliore per unire le mie due passioni: da un lato, sono una specie di scienziato casareccio, che ama costruire dispositivi strani; e dall’altro, mi affascinano gli episodi aneddotici della storia; sicché, quando ho trovato le istruzioni non ho esitato; ho costruito la Macchina e mi sono lanciato nello spazio-tempo. Ma non c’è niente da fare.
Tre o quattro volte ho voluto vedere come perdeva la testa Maria Antonia Josepha Johanna von Habsburg-Lothringen il venticinque di Vendémiaire dell’anno due della Repubblica Francese, alle undici di mattina, nella Piazza della Rivoluzione a Parigi; e sono sempre arrivato quando gli ultimi curiosi si stavano allontanando, e il boia Sansón puliva la lama della ghigliottina. Una volta sono arrivato perfino nella notte tra il venticinque e il ventisei, e ho trovato solo un ubriaco che stava pisciando tra le gambe del patibolo.
Ho voluto vedere Martin Luther King e il suo I have a dream il ventotto agosto del 1963, di fronte al monumento di Lincoln, a Washington; ma ho solo trovato le scale piene di cartacce e sporche per le migliaia di persone che le avevano calpestate; e un gruppetto appartato che commentava, allontanandosi, quanto impressionante fosse stato il discorso.
Ho provato a trovarmi, tra le quattordici e venticinque e le quindici del trenta aprile del 1945 sui tetti del Reichstag a Berlino e risolvere, una volta per tutte, se è stato Melitón Varlámovich Kantaria, o Mijaíl Petróvich Minin o Abdulchakim Ismailov il soldato che ha sventolato la bandiera rossa sul portale del Parlamento tedesco, e vedere Yevgueni Jaldei immortalare il momento in una foto (icona, se ce n’è una, che segna la fine della Seconda Guerra); ma non sono arrivato in tempo nemmeno per vederlo mettere via la sua attrezzatura. Erano già le cinque del pomeriggio, il tetto era vuoto e non c’era nessuna bandiera.
Quando ho toccato il suolo della Curia del Teatro di Pompeo a Roma, alle idi di marzo dell’anno 709 Ab Urbe còndita, Bruto e i congiurati avevano già assassinato Giulio Cesare.
Non ho potuto vedere Perón sul balcone della Rosada, il diciassette ottobre del quarantacinque. In Nagasaki la bomba era già esplosa. Già non c’era più nessun occidentale in Saigon. I militari non mi hanno lasciato entrare al Ground Zero di Roswell. Gli operai dei Beatles stavano smontando le attrezzature dal tetto dell'edificio della Apple. Mary Jane Kelly era già morta nel suo letto e non ho trovato tracce di Jack lo Squartatore. I cadaveri di Mussolini e della Petacci erano già appesi a testa in giù nella stazione di servizio di piazzale Loreto. La macchina di Lady Di era a pezzi nel tunnel a lato della Senna, e circondata da ambulanze e auto della polizia. Non restavano che pezzi di legno del ponte sul Kwai. Di Giovanna D’Arco restavano solo le ceneri e due o tre braci ravvivate da un lieve vento del nord. Dempsey stava risalendo sul ring dopo il terribile montante destro di Firpo. Gli alberi di Tunguska erano caduti e in fiamme. E, ovviamente, la polizia aveva già transennato Dealey Plaza a Dallas e avevano già portato JFK, ferito mortalmente, al Parkland Memorial Hospital.
Non c’è niente da fare. Arrivo sempre in ritardo ovunque per colpa di questo catorcio che mi è costato più di dieci anni di lavoro, una mostruosità in denaro, il mio matrimonio, l’odio dei miei figli e l’abbandono da parte di genitori e amici.
Naturalmente, ho provato diverse volte a tornare nel 1998 per mettermi in guardia da questo inconveniente, con la speranza di trovare, in quei primi passi, una soluzione adeguata e forse ovvia nei progetti presi dalla rivista “Meccanica Popolare” del mese di marzo; però, qualsiasi cosa faccia, arrivo sempre dopo aver chiuso il mio laboratorio e mentre, di sicuro, sto sonnecchiando sull’autobus nel lungo viaggio di ritorno a casa, nelle ultime ore del pomeriggio. Non sono nemmeno arrivato in tempo per avvertirmi di tenere forte il corrimano quella volta che l’autobus 298 ha frenato di colpo, all’angolo tra Brandsen e Quirno Costa, per colpa di un taxista che ha attraversato con il semaforo rosso: mi è costato una caduta e un mal di schiena durato tre settimane.
(Traduzione dallo spagnolo di Giuliana Acanfora)
Originale e interessante questo racconto di Daniel Frini, al quale diamo un cordiale benvenuto sulle "pagine" di Pegasus Sf. Speriamo di poter leggere altri suoi scritti.
RispondiEliminaSorprendente, come sempre i racconti dell'amico argentino Daniel Frini. I miei auguri e complimenti.
RispondiEliminaImmagino sia stata costruita con i Tempioni cinesi, è sempre quello il problema!
RispondiEliminaBellissimo racconto!
Danilo Concas
Ottima e originale scelta del punto di vista per raccontare i viaggi nel tempo, molto interessante nella sua ironia.
RispondiEliminaSauro Nieddu
Gustosissimo racconto, molto originale e pieno di sottile umorismo. L'idea della macchina del tempo che arriva puntualmente in ritardo è davvero geniale. Che ci siano dei risvolti psicoanalitici... riguardo l'infernale aggeggio, s'intende? Comunque, quando si vuole costruire una macchina del tempo si può andare incontro a tali inconvenienti. Meglio ricorrere a quei modelli in vendita nei principali supermercati del XXIII secolo, a patto che si riesca in qualche modo a raggiungerli. Quei modelli standard sono precisi, affidabili, ma un tantino limitati, o meglio, programmati per raggiungere solo determinati episodi del passato. Per esempio, non cercate di rivivere un evento politico con una macchina adatta solo a fatti di tipo religioso o culturale.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino
Originale racconto di fantascienza su un tema classico. Veramente una bella idea quella della macchina del tempo difettosa.
RispondiEliminaForse bisognerebbe impostare la data di arrivo qualche ora prima dell'evento.
Scritto molto bene e gustoso da leggere.
RispondiEliminaDovremo mettere in comune le nostre esperienze, perchè avevo programmato la mia macchina per poter leggere il racconto il 21, quando è stato pubblicato, e invece sono arrivato in ritardo.
Secondo me c'è qualche problema nell'articolo di Meccanica Popolare che ho seguito anche io...
Aspetterò prima di rimettermi in viaggio e arrivare ancora in ritardo.