(Il presente racconto, scritto nel 1996, è
stato pubblicato per la prima volta nel marzo 2012, sul numero dodici di Short
Stories – Rivista illustrata di letteratura fantastica, Edizioni Scudo.)
Le cinque
stelle del gruppo dell’Odissa tremolavano vistosamente, come quando Okikono le
vide la terribile notte del sogno premonitore. Rimase a guardarle attratto
dalla loro lucentezza e provando una strana sensazione di fastidio, come di
torpore in tutto il corpo.
Sebbene cercasse di chiudere gli occhi o di volgere
altrove il proprio sguardo, una forza
invincibile e sconosciuta dominava la sua mente.
Fu costretto a osservare le stelle per lungo tempo,
finché tornarono a essere dei punti fermi nel cielo nero. Solo allora Okikono
si avviò verso il proprio rifugio scavato nella roccia del pianeta Luton.
Appena lo raggiunse, si slacciò il cinturone con la
pistola a proiettili esplosivi, si tolse il casco e la tuta refrigerante:
uniche difese dalle micidiali radiazioni AXA,
molto diffuse sulla superficie e nell’atmosfera lutoniane.
Con cura li appese in un armadietto addossato alla
parete. Infine, esausto, si distese sul letto e chiuse gli occhi.
Allorché si immerse nel sonno, una voce virile irruppe
stentorea nella sua mente.
«Kasoram foret kir…
impol ikoana laset… olak dakar kusomet… Kumor
kasonak.»
Era una voce amorfa, priva di ogni modulazione. Si
esprimeva in lingua kalitica, che Okikono conosceva perfettamente.
«Foret impol laset…
kum ikoana lemet. Dakar ikam sulotek.»
Vi erano, in quelle parole, terribili minacce, tanto
che egli ne ebbe paura e tentò ma invano di scuotersi dal sonno. Sebbene
dormisse, sentiva il cuore pulsargli all'impazzata e un freddo sudore
imperlargli la fronte.
Appena la voce si accrebbe di tono, a Okikono sembrò
che la testa gli scoppiasse.
«Per pietà, non questo!» gridò, allora,
disperatamente. «Non sottopormi a un supplizio così atroce.»
«Kasonak ikoana… olak Kron… kasonak Luton foret
impol.»
«Non è mia la colpa. Non sono io il responsabile della
guerra contro i kroniani, né il popolo di Luton ha violato le leggi del
Consiglio Galattico.»
«Kasumek foret impol… onofek sima… olak derma selek
laset.»
«Ti prego,» insisté il lutoniano, «non puoi accusarmi di un crimine che non ho commesso.»
«Ti prego,» insisté il lutoniano, «non puoi accusarmi di un crimine che non ho commesso.»
«Forek maer rean… olak kasumek sumet… olak ikoana
pelan.»
Ora Okikono si agitava convulsamente. Gli pareva che
mani artigliate gli straziassero il corpo, e che bocche fameliche digrignassero
intorno alla sua testa.
«Ti scongiuro!» supplicò. «Io stesso sono vittima
delle circostanze. Il dovere mi impone di difendere il mio mondo dagli attacchi
dei nemici. Non è un delitto proteggere la propria patria, la propria vita e
quella di milioni di persone innocenti.»
«Ramer impol lean…
olak sever… olak kir… kasumek donor.»
«La guerra ci trascina nel suo vortice impetuoso, ci
rende folli e privi di qualsiasi scrupolo; ci trasforma in esseri abietti che
antepongono l’istinto alla ragione, in esseri truci, spietati, mossi da
sentimenti di odio e di vendetta.»
«Olak ikoana… olak
pelan… Sever impol suit dakar. Olak emper.»
«No! Devi credermi! Altrove è la causa del massacro
che si compie su Luton. È là che si trama il brutale sterminio dei popoli,
lontano da ogni pericolo, senza il rischio di essere direttamente coinvolti, e
col desiderio di trarre grossi vantaggi da una guerra insensata.»
«Kimper kuros… olak ikoana pelan… Dakar surat
kasonak.»
«Ti prego!» gridò Okikono al culmine del parossismo.
«Se mai mi si possa accusare di qualcosa, è di avere reagito agli attacchi
kroniani con qualsiasi mezzo. Non lo nego. La situazione, d’altronde,
richiedeva che fossi spietato quanto loro. Non c’erano altre soluzioni. Che
cosa potevo fare? Assistere inerme o indifferente all’annientamento del popolo
di Luton?»
D’un tratto la voce si mutò in sonore vibrazioni,
acute e indistinguibili, che aumentarono d’intensità per cessare di colpo.
Ci fu silenzio, poi di nuovo la voce che si espresse
in lingua lutoniana:
«I confini del Tempo sono stati varcati. Le razze
vivono l’ultima era della Grande Esistenza. Già Huro, il feroce assassino, si
avventa sulla preda per farne scempio. Voi lutoniani avete infranto, con i
vostri esperimenti militari, le leggi del Consiglio Galattico, suscitando
emulazione in quanti, kroniani, geriani, mirtisiani e altri popoli noti per il
loro spirito bellicoso, si sono avventurati nella stessa iniquità, inseguendo
un insano desiderio di conquista. Tu, Okikono, più di chiunque, ti sei servito
della scienza, schiava della tua ambizione, per costruire terribili ordigni
distruttivi. Il mostro racchiuso nelle viscere di Luton è il frutto della tua
mente, è l’inizio e la fine dell’Immane Catastrofe.» Improvvisamente, la voce
divenne calma, pacata. «Non a questo mirava Ulan quando, nella sua infinita
bontà, creò gli spazi siderali, dove mondi diversi avrebbero accolto la vita in
molteplici forme e secondo pacifiche manifestazioni… Olak ikoana surek… olak ikoana
pelan… rean dakam suret impol… Ricada su
te il peso del Grande Vuoto, su te che brami la gloria sopra ogni cosa.»
La voce tacque di colpo, e il sonno del lutoniano fu
avvolto dal silenzio più assoluto.
* * *
Quando il mattino seguente Okikono si svegliò,
istintivamente ripensò al sogno. Un senso di angoscia lo invase in tutte le
fibre del suo essere.
Dopo un poco si alzò, indossò il casco e la tuta
refrigerante, si allacciò il cinturone con la pistola a proiettili
esplosivi.
«Maledetta guerra!» imprecò con furore.
Una volta all’aperto, volse lo sguardo al cielo: era
di un rosso vermiglio. L’osservò con sgomento, come tutte le volte che lasciava
il rifugio per recarsi al laboratorio scientifico.
Stentava a ricordare il colore turchese che un tempo
quel cielo aveva avuto, come anche la fragranza dell’aria, rinfrescata dal
soffio di venti leggeri.
«Maledetta guerra!» esclamò nuovamente.
Intanto avanzava fra cumuli informi di macerie: tutto
ciò che restava della splendida Fèrimor, la più grande città del pianeta.
«Siamo stati capaci di tanto,» disse tra sé, volgendo
lo sguardo in ogni direzione. «Il nostro stupido orgoglio!... Abbiamo lasciato
che la guerra cancellasse ogni traccia della nostra storia, ogni segno di
un’antica e gloriosa civiltà. Si sarebbe potuto evitare tutto questo se solo
l’avessimo voluto. Invece…»
Si interruppe per un rumore improvviso.
Si voltò e vide, nel bagliore purpureo del mattino, un
essere orrendo che scendeva a una ventina di metri lungo un dirupo di pietre e
detriti. A ogni passo sollevava una nube di polvere giallastra, che restava per
un istante sospesa nell’aria, prima di ricadere sul terreno.
Si trattava di un lutoniano come lui ma, al tempo
stesso, diverso da lui.
Era gracile, curvo, le membra contorte e la pelle
coperta di pustole scure. Sulla sua testa non c’erano capelli, ma chiazze di un
rosso acceso. Gli occhi, piccoli e bianchi, erano profondamente infossati nelle
orbite e davano al viso un’espressione raggelante.
Benché Okikono vedesse ogni giorno – tra la sua gente
– simili mostri, non si era ancora abituato al loro aspetto, che continuava a
suscitargli, contemporaneamente, un senso di pietà e di ribrezzo.
L’essere non indossava né casco né tuta che lo
proteggessero dalle radiazioni AXA,
che ne avevano irrimediabilmente minato l’organismo.
Si avvicinava con molta lentezza, traballando sulle
gambe scheletriche, su cui brandelli di pelle oscillavano miseramente come
foglie avvizzite.
La sua bocca, spalancata e priva di denti, pareva una
buia cavità da cui scaturivano suoni convulsi, inarticolati.
Quando l’essere fu a breve distanza da Okikono, tese
le braccia tremanti.
«La tuta… presto… Dammi la tuta,» disse convulsamente,
«prima che sia… troppo tardi.»
Filamenti di bava verdastra gli colavano agli angoli
della bocca, gli si avvinghiavano al petto e alle braccia come tentacoli
gelatinosi.
Okikono non rispose, restò fermo a guardarlo, cercando
di reprimere un senso profondo di repulsione.
«La tuta… presto… dammi la tuta,» ripeté quell’essere
orrendo.
«A che cosa ti servirebbe?» disse alla fine Okikono
attraverso l’amplificatore della voce, di cui il casco era munito proprio
all’altezza della bocca. «Diverrei anch’io come te… se mi privassi della tuta.»
A quelle parole l’essere avanzò di qualche passo con
aria minacciosa, mandando dagli occhi lampi di un odio smisurato.
«Presto… presto… dammi la tuta,» ripeté in modo
ostinato.
Okikono, che neppure per un istante aveva pensato di
servirsi della propria pistola, girò su se stesso e si diede a una fuga
precipitosa, con il rischio di cadere e compromettere l’integrità della tuta.
Corse per lungo tratto, cercando di porre la più
grande distanza tra sé e quel povero lutoniano.
Esausto, si fermò respirando con affanno e si volse a
guardare indietro. Non vide nessuno. Si sentì sollevato.
Quanti altri individui in quel momento, sprovvisti di
tuta o altro, avevano bisogno di aiuto?
Da ogni luogo, da ogni pietra, da ogni cumulo di
macerie di quella città desolata, pareva levarsi il grido straziante di dolore
di un popolo intero, giunto alla fine della propria esistenza.
* * *
Come il rifugio, anche il laboratorio era stato
scavato nella roccia. L’ingresso era chiuso con un pesante pannello di metallo,
che Okikono rimosse azionando un piccolo dispositivo portatile. Entrò in un
ascensore che rapidamente lo trasportò a decine di metri al di sotto della
superficie lutoniana.
«A che cosa siamo costretti!» esclamò, mentre, più
tardi, percorreva uno stretto corridoio. «Rintanarci come animali spauriti,
braccati. Finirà tutto questo?»
Il robot assegnato al controllo dei vari strumenti
scientifici era affaccendato nelle proprie incombenze. Preciso e solerte, si
spostava agilmente, malgrado la mole, da un congegno all’altro, scivolando su
piccoli rulli propulsori.
«Tutto in ordine, mio costruttore!» disse,
accorgendosi della presenza di Okikono.
La sua voce era acuta, metallica, accompagnata dal
lieve tremolio di una luce opalescente.
Immerso nei propri pensieri, il lutoniano non rispose
né volse lo sguardo verso l’automa. La testa china sul petto, traversava il
locale a passi lenti.
«Tutto in ordine, mio costruttore,» disse ancora il
robot, programmato a ripetere le stesse parole finché non si fosse mostrato di
averle recepite.
«Molto bene, Ombra!» rispose Okikono, scuotendosi dai
propri pensieri.
«Ogni cosa è stata eseguita in base ai comandi
ricevuti,» aggiunse l’automa. «Spero che il mio costruttore sia soddisfatto.»
«Certamente, Ombra! Torna pure al lavoro. Oggi stesso
metteremo in funzione la macchina.
Non c’è tempo da perdere.»
«Come desidera il mio costruttore.»
Okikono restò a osservare il robot mentre
s’allontanava silenziosamente. Lo vide dirigersi verso un congegno di
controllo, poggiare l’estremità del suo braccio meccanico sul pulsante di un
quadro di comandi e pigiarlo con delicatezza. Subito un piccolo schermo,
illuminandosi, mostrò l’immagine di alcuni diagrammi di programmazione.
Il lutoniano volse lo sguardo al centro del
laboratorio, dov’era situata la macchina HABER-X-MQ, l’arma più micidiale
concepita da mente intelligente.
Quanti anni aveva impiegato per costruirla? Lo
ignorava egli stesso. Sapeva soltanto che essa avrebbe garantito il trionfo di Luton su tutti i
pianeti della Galassia, riuscendo da sola a distruggere ogni nemico, a
qualunque distanza, con l’emissione di potentissimi raggi di calore.
Il trionfo di Luton!
Improvvisamente gli tornarono in mente le parole del
sogno:
Ricada su te il peso del Grande Vuoto, su te che brami
la gloria sopra ogni cosa.
«Già, perché negarlo?» si disse Okikono. «Che cosa può
ambire uno scienziato se non la gloria? Questa soltanto anima e sublima
l’intelletto.»
Lavorarono
alacremente per molto tempo, il robot vicino ad alcuni congegni elettronici,
Okikono attorno alla macchina HABER-X-MQ, che a tratti si fermava a contemplare
compiacendosi del proprio ingegno.
All’improvviso, un tremendo boato provenne dalla
superficie del pianeta. Okikono restò sbigottito, come sempre gli accadeva dopo
quei rombi repentini.
«Maledetti kroniani!» imprecò con furore. «Dannati
assassini!» Rimase in ascolto per un po’. «Nessun perdono bisognava accordarvi
quando la pace crollò nel Sistema di Bolin per colpa vostra. Trovaste negli
incauti ezeniani, popolo mite per natura, i vostri generosi difensori, i soli a
intercedere in vostro favore presso il Consiglio Galattico; quegli stessi
ezeniani che in seguito avete colpito vigliaccamente, per soddisfare una sete
smodata di conquista.» Crollò più volte la testa, fremette, respirò
profondamente. «Ombra!» chiamò, il viso stravolto dall’ira.
«Eccomi, mio costruttore,» rispose il robot,
avvicinandosi rapidamente.
Ci fu un altro boato, più spaventoso del primo, e
violente vibrazioni scossero le strutture del laboratorio. Un grave turbamento
trapelò dallo sguardo del lutoniano, il quale temeva che quelle vibrazioni
potessero danneggiare gli elementi della macchina.
«Maledetti kroniani!» imprecò nuovamente, agitando le
braccia verso l’alto. «Ci siete andati vicini questa volta.»
Effettuò un attento controllo sul computer centrale, e
poté assicurarsi che tutto era integro e funzionante.
«Eccomi, mio costruttore,» ripeté impassibile il
robot.
«Ombra, credo sia giunto il momento che da tempo
aspettavamo. Dobbiamo troncare ogni indugio, se non vogliamo che i kroniani,
con i loro continui bombardamenti, mettano fuori uso la macchina HABER-X-MQ.
Occorre dar loro la prova della nostra efficienza agendo al più presto, perché
cessino i loro attacchi.» Tacque un istante, sospirò, poi: «Ora, Ombra! Senza
esitare.»
«Come desidera il mio costruttore,» rispose il robot
in una più intensa effusione di luce.
«Muoviti, dunque,» lo spronò Okikono. «Disponi ogni
cosa per una immediata reazione da parte nostra.»
«Subito, mio costruttore.»
Immediatamente il robot si portò presso la macchina
HABER-X-MQ, mentre Okikono si diresse verso quello che ne era il posto di
comando. Quando lo raggiunse, sollevò delle leve, premette dei pulsanti, girò
delle chiavi e, rivolto all’automa:
«Sei pronto, Ombra?»
«Sì, mio costruttore.»
«Bene!» esclamò Okikono, sospirando. «L’esistenza di
Luton mi sta a cuore. Nessuno, meglio di me, può difendere questo pianeta…
Quanti anni ho impiegato a studiare i migliori sistemi di difesa… e di offesa?
La macchina! La nostra unica speranza! Non c’è altro rimedio: la distruzione
per la salvezza di Luton. Tu sai, Ombra, quanto la cosa mi ripugni.» Fece una
pausa, quindi, con voce vibrante: «Scoprire le leggi dell’Universo e mediante
la loro conoscenza pervenire alla conquista di verità incontrastabili;
congiungere la nostra mente con quella di Ulan, il Supremo Creatore, e ridurre
in termini matematici i moti segreti dell’Anima Universale, perché fossero a
tutti comprensibili il senso e il mistero della vita… Erano questi gli scopi
delle nostre ricerche. Ma la scienza ci usa, ci domina. Non abbiamo su essa
alcun potere, nessun controllo. L’inganno della scienza! Le sue false
lusinghe!... E stolti siamo noi che seguiamo il corso degli istinti e dei turpi
pregiudizi, lasciandoci cadere nell’abisso del Grande Vuoto… Kasoram foret
lasan… kir ikoana sumet… impol ikoana pelan… kasorat leal impol dasert.»
Si sorprese Okikono a ripetere alcune parole del
sogno; poi tacque, scrollando la testa lentamente.
Quando la macchina fu messa in funzione, il lutoniano
seguì sullo schermo gli effetti dei raggi di calore sul pianeta Kron.
«Ci siamo, Ombra, ci siamo!» disse d’un tratto, ma
senza gioire.
Fremette, stringendo i pugni nervosamente. Sebbene il
suo sguardo fosse attratto dallo schermo, i suoi pensieri erano rivolti a
quanto, in quel momento, si stava compiendo su Kron.
* * *
La macchina HABER-X-MQ aveva funzionato in modo
confacente a ogni aspettativa. Non era stato necessario tenerla in azione per
molto tempo, dal momento che i raggi di calore esprimevano in pochi minuti la
più terrificante potenza distruttiva.
I sensori specifici e tutti i sistemi di controllo del
laboratorio non avevano più rivelato notevoli manifestazioni di vita o attività
sul pianeta Kron. La popolazione era stata decimata; distrutti del tutto i
centri di comando, gli apparati industriali e le molte postazioni militari.
Kron era in ginocchio, ridotto allo stato di un
pianeta moribondo e, cosa importante, non più in grado di nuocere a nessuno.
Quando Okikono risalì sulla superficie del pianeta,
poté constatare che i bombardamenti da parte dei kroniani erano cessati. Ciò
nonostante era impensabile, a causa della diffusa radioattività e della
distruzione subita, che Luton tornasse vivibile in pochi anni.
Bisognava comunque da subito cominciare a ricostruire
apparati e strutture necessari alla vita.
Ma a chi spettava questo compito? Quali uomini
sarebbero stati i promotori della rinascita lutoniana?
«Sono stato capace di odiare e distruggere,» si disse
Okikono, scuotendo la testa mestamente. «Non è in me il seme che possa generare
un mondo migliore. Cosa lascio in retaggio a coloro che verranno? Solo morte e
rovine.» Il suo sguardo spaziò tutt’intorno, per il paesaggio deserto e silenzioso.
«Il mio tempo volge alla fine,» riprese Okikono. «Ed è giusto uscire di scena.
Altri verranno dopo di me, altri uomini intrepidi e intelligenti, che con
migliori propositi ricostruiranno ogni cosa. Possa il magnanimo Ulan illuminare
le loro menti, perché quanto è accaduto non si ripeta mai più.» Rimase un
momento in silenzio, la testa reclina, quindi, dopo un lungo sospiro: «Troppo
grande è il male causato dalla mia stoltezza perché mi si possa perdonare. E se
pure qualcuno fosse disposto a farlo, come potrei non provare rimorso per le
mie azioni?... Niente potrà cancellare l’empietà della mia mente, né
l’arroganza del mio orgoglio, né la sciocca ostinazione dei miei pregiudizi.
Soltanto reprimendo me stesso potrò espiare la colpa che grava la mia coscienza.
Non c’è altro modo per rendere giustizia al sangue di milioni di innocenti.»
Tacque ancora, poi, con voce vibrante: «Che la mia morte possa riscattare una
dignità sacrificata alla cieca ambizione.»
Ciò detto, estrasse la pistola dalla fondina con mano che
tremava. Esitò per un attimo… se la puntò al cuore.
Una cupa esplosione echeggiò nelle lande deserte e
solitarie di Luton.
Racconto avvincente dal solido impianto fantascientifico. Mi è piaciuto per le atmosfere e per il modo molto interessante di cogliere aspetti psicologici e di trattare contenuti dal sapore politico. Scritto molto bene.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino
Bello e piacevole da leggere. Forse anche perchè amo lo stile introspettivo e psicologico.
RispondiEliminaCome sempre scritto in modo impareggiabile.
Molto bravo, Paolo. Racconto appassionante e scritto benissimo.
RispondiEliminaUna bella storia di fantascienza.
Mi associo ai giudizi positivi. Bel racconto di vera fantascienza.
RispondiEliminaG.S.
Ottimo racconto morale, che dalle riflessioni del protagonista fa emergere chiaramente lo scenario retrostante. Molto interessante il dialogo bilingue nel sogno iniziale.
RispondiEliminaSauro Nieddu