sabato 9 novembre 2013

IL BUIO DELLE STELLE di Paolo Secondini



(Il presente racconto, scritto nel 1996, è stato pubblicato per la prima volta nel marzo 2012, sul numero dodici di Short Stories – Rivista illustrata di letteratura fantastica, Edizioni Scudo.)

 Le cinque stelle del gruppo dell’Odissa tremolavano vistosamente, come quando Okikono le vide la terribile notte del sogno premonitore. Rimase a guardarle attratto dalla loro lucentezza e provando una strana sensazione di fastidio, come di torpore in tutto il corpo.
Sebbene cercasse di chiudere gli occhi o di volgere altrove il proprio sguardo,  una forza invincibile e sconosciuta dominava la sua mente.
Fu costretto a osservare le stelle per lungo tempo, finché tornarono a essere dei punti fermi nel cielo nero. Solo allora Okikono si avviò verso il proprio rifugio scavato nella roccia del pianeta Luton.
Appena lo raggiunse, si slacciò il cinturone con la pistola a proiettili esplosivi, si tolse il casco e la tuta refrigerante: uniche difese dalle micidiali radiazioni AXA, molto diffuse sulla superficie e nell’atmosfera lutoniane.
Con cura li appese in un armadietto addossato alla parete. Infine, esausto, si distese sul letto e chiuse gli occhi.
Allorché si immerse nel sonno, una voce virile irruppe stentorea nella sua mente.
«Kasoram foret kir… impol ikoana laset… olak dakar kusomet… Kumor kasonak.»
Era una voce amorfa, priva di ogni modulazione. Si esprimeva in lingua kalitica, che Okikono conosceva perfettamente.
«Foret impol laset… kum ikoana lemet. Dakar ikam sulotek.»
Vi erano, in quelle parole, terribili minacce, tanto che egli ne ebbe paura e tentò ma invano di scuotersi dal sonno. Sebbene dormisse, sentiva il cuore pulsargli all'impazzata e un freddo sudore imperlargli la fronte.
Appena la voce si accrebbe di tono, a Okikono sembrò che la testa gli scoppiasse.
«Per pietà, non questo!» gridò, allora, disperatamente. «Non sottopormi a un supplizio così atroce.»
«Kasonak ikoana… olak Kron… kasonak Luton foret impol.»
«Non è mia la colpa. Non sono io il responsabile della guerra contro i kroniani, né il popolo di Luton ha violato le leggi del Consiglio Galattico.»
«Kasumek foret impol… onofek sima… olak derma selek laset.»   
   «
Ti prego,» insisté il lutoniano, «non puoi accusarmi di un crimine che non ho commesso.»
«Forek maer rean… olak kasumek sumet… olak ikoana pelan.»
Ora Okikono si agitava convulsamente. Gli pareva che mani artigliate gli straziassero il corpo, e che bocche fameliche digrignassero intorno alla sua testa.
«Ti scongiuro!» supplicò. «Io stesso sono vittima delle circostanze. Il dovere mi impone di difendere il mio mondo dagli attacchi dei nemici. Non è un delitto proteggere la propria patria, la propria vita e quella di milioni di persone innocenti.»
«Ramer impol lean… olak sever… olak kir… kasumek donor.»
«La guerra ci trascina nel suo vortice impetuoso, ci rende folli e privi di qualsiasi scrupolo; ci trasforma in esseri abietti che antepongono l’istinto alla ragione, in esseri truci, spietati, mossi da sentimenti di odio e di vendetta.»
«Olak ikoana… olak pelan… Sever impol suit dakar. Olak emper.»
«No! Devi credermi! Altrove è la causa del massacro che si compie su Luton. È là che si trama il brutale sterminio dei popoli, lontano da ogni pericolo, senza il rischio di essere direttamente coinvolti, e col desiderio di trarre grossi vantaggi da una guerra insensata.»
«Kimper kuros… olak ikoana pelan… Dakar surat kasonak.»
«Ti prego!» gridò Okikono al culmine del parossismo. «Se mai mi si possa accusare di qualcosa, è di avere reagito agli attacchi kroniani con qualsiasi mezzo. Non lo nego. La situazione, d’altronde, richiedeva che fossi spietato quanto loro. Non c’erano altre soluzioni. Che cosa potevo fare? Assistere inerme o indifferente all’annientamento del popolo di Luton?»
D’un tratto la voce si mutò in sonore vibrazioni, acute e indistinguibili, che aumentarono d’intensità per cessare di colpo.
Ci fu silenzio, poi di nuovo la voce che si espresse in lingua lutoniana:
«I confini del Tempo sono stati varcati. Le razze vivono l’ultima era della Grande Esistenza. Già Huro, il feroce assassino, si avventa sulla preda per farne scempio. Voi lutoniani avete infranto, con i vostri esperimenti militari, le leggi del Consiglio Galattico, suscitando emulazione in quanti, kroniani, geriani, mirtisiani e altri popoli noti per il loro spirito bellicoso, si sono avventurati nella stessa iniquità, inseguendo un insano desiderio di conquista. Tu, Okikono, più di chiunque, ti sei servito della scienza, schiava della tua ambizione, per costruire terribili ordigni distruttivi. Il mostro racchiuso nelle viscere di Luton è il frutto della tua mente, è l’inizio e la fine dell’Immane Catastrofe.» Improvvisamente, la voce divenne calma, pacata. «Non a questo mirava Ulan quando, nella sua infinita bontà, creò gli spazi siderali, dove mondi diversi avrebbero accolto la vita in molteplici forme e secondo pacifiche manifestazioni… Olak ikoana surek… olak ikoana pelan… rean dakam suret impol… Ricada su te il peso del Grande Vuoto, su te che brami la gloria sopra ogni cosa.»
La voce tacque di colpo, e il sonno del lutoniano fu avvolto dal silenzio più assoluto.

* * *
Quando il mattino seguente Okikono si svegliò, istintivamente ripensò al sogno. Un senso di angoscia lo invase in tutte le fibre del suo essere.
Dopo un poco si alzò, indossò il casco e la tuta refrigerante, si allacciò il cinturone con la pistola a proiettili esplosivi. 
«Maledetta guerra!» imprecò con furore.
Una volta all’aperto, volse lo sguardo al cielo: era di un rosso vermiglio. L’osservò con sgomento, come tutte le volte che lasciava il rifugio per recarsi al laboratorio scientifico.
Stentava a ricordare il colore turchese che un tempo quel cielo aveva avuto, come anche la fragranza dell’aria, rinfrescata dal soffio di venti leggeri.
«Maledetta guerra!» esclamò nuovamente.
Intanto avanzava fra cumuli informi di macerie: tutto ciò che restava della splendida Fèrimor, la più grande città del pianeta.
«Siamo stati capaci di tanto,» disse tra sé, volgendo lo sguardo in ogni direzione. «Il nostro stupido orgoglio!... Abbiamo lasciato che la guerra cancellasse ogni traccia della nostra storia, ogni segno di un’antica e gloriosa civiltà. Si sarebbe potuto evitare tutto questo se solo l’avessimo voluto. Invece…»
Si interruppe per un rumore improvviso.
Si voltò e vide, nel bagliore purpureo del mattino, un essere orrendo che scendeva a una ventina di metri lungo un dirupo di pietre e detriti. A ogni passo sollevava una nube di polvere giallastra, che restava per un istante sospesa nell’aria, prima di ricadere sul terreno.
Si trattava di un lutoniano come lui ma, al tempo stesso, diverso da lui.
Era gracile, curvo, le membra contorte e la pelle coperta di pustole scure. Sulla sua testa non c’erano capelli, ma chiazze di un rosso acceso. Gli occhi, piccoli e bianchi, erano profondamente infossati nelle orbite e davano al viso un’espressione raggelante.
Benché Okikono vedesse ogni giorno – tra la sua gente – simili mostri, non si era ancora abituato al loro aspetto, che continuava a suscitargli, contemporaneamente, un senso di pietà e di ribrezzo.
L’essere non indossava né casco né tuta che lo proteggessero dalle radiazioni AXA, che ne avevano irrimediabilmente minato l’organismo.
Si avvicinava con molta lentezza, traballando sulle gambe scheletriche, su cui brandelli di pelle oscillavano miseramente come foglie avvizzite.
La sua bocca, spalancata e priva di denti, pareva una buia cavità da cui scaturivano suoni convulsi, inarticolati.
Quando l’essere fu a breve distanza da Okikono, tese le braccia tremanti.
«La tuta… presto… Dammi la tuta,» disse convulsamente, «prima che sia… troppo tardi.»
Filamenti di bava verdastra gli colavano agli angoli della bocca, gli si avvinghiavano al petto e alle braccia come tentacoli gelatinosi.
Okikono non rispose, restò fermo a guardarlo, cercando di reprimere un senso profondo di repulsione. 
«La tuta… presto… dammi la tuta,» ripeté quell’essere orrendo.  
«A che cosa ti servirebbe?» disse alla fine Okikono attraverso l’amplificatore della voce, di cui il casco era munito proprio all’altezza della bocca. «Diverrei anch’io come te… se mi privassi della tuta.»
A quelle parole l’essere avanzò di qualche passo con aria minacciosa, mandando dagli occhi lampi di un odio smisurato.
«Presto… presto… dammi la tuta,» ripeté in modo ostinato.
Okikono, che neppure per un istante aveva pensato di servirsi della propria pistola, girò su se stesso e si diede a una fuga precipitosa, con il rischio di cadere e compromettere l’integrità della tuta.
Corse per lungo tratto, cercando di porre la più grande distanza tra sé e quel povero lutoniano.
Esausto, si fermò respirando con affanno e si volse a guardare indietro. Non vide nessuno. Si sentì sollevato.
Quanti altri individui in quel momento, sprovvisti di tuta o altro, avevano bisogno di aiuto?
Da ogni luogo, da ogni pietra, da ogni cumulo di macerie di quella città desolata, pareva levarsi il grido straziante di dolore di un popolo intero, giunto alla fine della propria esistenza.

* * *
Come il rifugio, anche il laboratorio era stato scavato nella roccia. L’ingresso era chiuso con un pesante pannello di metallo, che Okikono rimosse azionando un piccolo dispositivo portatile. Entrò in un ascensore che rapidamente lo trasportò a decine di metri al di sotto della superficie lutoniana.
«A che cosa siamo costretti!» esclamò, mentre, più tardi, percorreva uno stretto corridoio. «Rintanarci come animali spauriti, braccati. Finirà tutto questo?»
Il robot assegnato al controllo dei vari strumenti scientifici era affaccendato nelle proprie incombenze. Preciso e solerte, si spostava agilmente, malgrado la mole, da un congegno all’altro, scivolando su piccoli rulli propulsori.
«Tutto in ordine, mio costruttore!» disse, accorgendosi della presenza di Okikono.
La sua voce era acuta, metallica, accompagnata dal lieve tremolio di una luce opalescente.
Immerso nei propri pensieri, il lutoniano non rispose né volse lo sguardo verso l’automa. La testa china sul petto, traversava il locale a passi lenti.
«Tutto in ordine, mio costruttore,» disse ancora il robot, programmato a ripetere le stesse parole finché non si fosse mostrato di averle recepite.
«Molto bene, Ombra!» rispose Okikono, scuotendosi dai propri pensieri.
«Ogni cosa è stata eseguita in base ai comandi ricevuti,» aggiunse l’automa. «Spero che il mio costruttore sia soddisfatto.»
«Certamente, Ombra! Torna pure al lavoro. Oggi stesso metteremo in funzione la macchina. Non c’è tempo da perdere.»
«Come desidera il mio costruttore.»
Okikono restò a osservare il robot mentre s’allontanava silenziosamente. Lo vide dirigersi verso un congegno di controllo, poggiare l’estremità del suo braccio meccanico sul pulsante di un quadro di comandi e pigiarlo con delicatezza. Subito un piccolo schermo, illuminandosi, mostrò l’immagine di alcuni diagrammi di programmazione.
Il lutoniano volse lo sguardo al centro del laboratorio, dov’era situata la macchina HABER-X-MQ, l’arma più micidiale concepita da mente intelligente.
Quanti anni aveva impiegato per costruirla? Lo ignorava egli stesso. Sapeva soltanto che essa avrebbe  garantito il trionfo di Luton su tutti i pianeti della Galassia, riuscendo da sola a distruggere ogni nemico, a qualunque distanza, con l’emissione di potentissimi raggi di calore.
Il trionfo di Luton!
Improvvisamente gli tornarono in mente le parole del sogno:
Ricada su te il peso del Grande Vuoto, su te che brami la gloria sopra ogni cosa.
«Già, perché negarlo?» si disse Okikono. «Che cosa può ambire uno scienziato se non la gloria? Questa soltanto anima e sublima l’intelletto.»
 Lavorarono alacremente per molto tempo, il robot vicino ad alcuni congegni elettronici, Okikono attorno alla macchina HABER-X-MQ, che a tratti si fermava a contemplare compiacendosi del proprio ingegno.
All’improvviso, un tremendo boato provenne dalla superficie del pianeta. Okikono restò sbigottito, come sempre gli accadeva dopo quei rombi repentini.
«Maledetti kroniani!» imprecò con furore. «Dannati assassini!» Rimase in ascolto per un po’. «Nessun perdono bisognava accordarvi quando la pace crollò nel Sistema di Bolin per colpa vostra. Trovaste negli incauti ezeniani, popolo mite per natura, i vostri generosi difensori, i soli a intercedere in vostro favore presso il Consiglio Galattico; quegli stessi ezeniani che in seguito avete colpito vigliaccamente, per soddisfare una sete smodata di conquista.» Crollò più volte la testa, fremette, respirò profondamente. «Ombra!» chiamò, il viso stravolto dall’ira.   
«Eccomi, mio costruttore,» rispose il robot, avvicinandosi rapidamente.
Ci fu un altro boato, più spaventoso del primo, e violente vibrazioni scossero le strutture del laboratorio. Un grave turbamento trapelò dallo sguardo del lutoniano, il quale temeva che quelle vibrazioni potessero danneggiare gli elementi della macchina.
«Maledetti kroniani!» imprecò nuovamente, agitando le braccia verso l’alto. «Ci siete andati vicini questa volta.»
Effettuò un attento controllo sul computer centrale, e poté assicurarsi che tutto era integro e funzionante.
«Eccomi, mio costruttore,» ripeté impassibile il robot.
«Ombra, credo sia giunto il momento che da tempo aspettavamo. Dobbiamo troncare ogni indugio, se non vogliamo che i kroniani, con i loro continui bombardamenti, mettano fuori uso la macchina HABER-X-MQ. Occorre dar loro la prova della nostra efficienza agendo al più presto, perché cessino i loro attacchi.» Tacque un istante, sospirò, poi: «Ora, Ombra! Senza esitare.»
«Come desidera il mio costruttore,» rispose il robot in una più intensa effusione di luce.
«Muoviti, dunque,» lo spronò Okikono. «Disponi ogni cosa per una immediata reazione da parte nostra.»
«Subito, mio costruttore.»
Immediatamente il robot si portò presso la macchina HABER-X-MQ, mentre Okikono si diresse verso quello che ne era il posto di comando. Quando lo raggiunse, sollevò delle leve, premette dei pulsanti, girò delle chiavi e, rivolto all’automa:
«Sei pronto, Ombra?»
«Sì, mio costruttore.»
«Bene!» esclamò Okikono, sospirando. «L’esistenza di Luton mi sta a cuore. Nessuno, meglio di me, può difendere questo pianeta… Quanti anni ho impiegato a studiare i migliori sistemi di difesa… e di offesa? La macchina! La nostra unica speranza! Non c’è altro rimedio: la distruzione per la salvezza di Luton. Tu sai, Ombra, quanto la cosa mi ripugni.» Fece una pausa, quindi, con voce vibrante: «Scoprire le leggi dell’Universo e mediante la loro conoscenza pervenire alla conquista di verità incontrastabili; congiungere la nostra mente con quella di Ulan, il Supremo Creatore, e ridurre in termini matematici i moti segreti dell’Anima Universale, perché fossero a tutti comprensibili il senso e il mistero della vita… Erano questi gli scopi delle nostre ricerche. Ma la scienza ci usa, ci domina. Non abbiamo su essa alcun potere, nessun controllo. L’inganno della scienza! Le sue false lusinghe!... E stolti siamo noi che seguiamo il corso degli istinti e dei turpi pregiudizi, lasciandoci cadere nell’abisso del Grande Vuoto… Kasoram foret lasan… kir ikoana sumet… impol ikoana pelan… kasorat leal impol dasert.»
Si sorprese Okikono a ripetere alcune parole del sogno; poi tacque, scrollando la testa lentamente.
Quando la macchina fu messa in funzione, il lutoniano seguì sullo schermo gli effetti dei raggi di calore sul pianeta Kron.
«Ci siamo, Ombra, ci siamo!» disse d’un tratto, ma senza gioire.
Fremette, stringendo i pugni nervosamente. Sebbene il suo sguardo fosse attratto dallo schermo, i suoi pensieri erano rivolti a quanto, in quel momento, si stava compiendo su Kron.

* * *
La macchina HABER-X-MQ aveva funzionato in modo confacente a ogni aspettativa. Non era stato necessario tenerla in azione per molto tempo, dal momento che i raggi di calore esprimevano in pochi minuti la più terrificante potenza distruttiva.
I sensori specifici e tutti i sistemi di controllo del laboratorio non avevano più rivelato notevoli manifestazioni di vita o attività sul pianeta Kron. La popolazione era stata decimata; distrutti del tutto i centri di comando, gli apparati industriali e le molte postazioni militari.
Kron era in ginocchio, ridotto allo stato di un pianeta moribondo e, cosa importante, non più in grado di nuocere a nessuno.
Quando Okikono risalì sulla superficie del pianeta, poté constatare che i bombardamenti da parte dei kroniani erano cessati. Ciò nonostante era impensabile, a causa della diffusa radioattività e della distruzione subita, che Luton tornasse vivibile in pochi anni.
Bisognava comunque da subito cominciare a ricostruire apparati e strutture necessari alla vita.
Ma a chi spettava questo compito? Quali uomini sarebbero stati i promotori della rinascita lutoniana?
«Sono stato capace di odiare e distruggere,» si disse Okikono, scuotendo la testa mestamente. «Non è in me il seme che possa generare un mondo migliore. Cosa lascio in retaggio a coloro che verranno? Solo morte e rovine.» Il suo sguardo spaziò tutt’intorno, per il paesaggio deserto e silenzioso. «Il mio tempo volge alla fine,» riprese Okikono. «Ed è giusto uscire di scena. Altri verranno dopo di me, altri uomini intrepidi e intelligenti, che con migliori propositi ricostruiranno ogni cosa. Possa il magnanimo Ulan illuminare le loro menti, perché quanto è accaduto non si ripeta mai più.» Rimase un momento in silenzio, la testa reclina, quindi, dopo un lungo sospiro: «Troppo grande è il male causato dalla mia stoltezza perché mi si possa perdonare. E se pure qualcuno fosse disposto a farlo, come potrei non provare rimorso per le mie azioni?... Niente potrà cancellare l’empietà della mia mente, né l’arroganza del mio orgoglio, né la sciocca ostinazione dei miei pregiudizi. Soltanto reprimendo me stesso potrò espiare la colpa che grava la mia coscienza. Non c’è altro modo per rendere giustizia al sangue di milioni di innocenti.» Tacque ancora, poi, con voce vibrante: «Che la mia morte possa riscattare una dignità sacrificata alla cieca ambizione.»
Ciò detto, estrasse la pistola dalla fondina con mano che tremava. Esitò per un attimo… se la puntò al cuore.
Una cupa esplosione echeggiò nelle lande deserte e solitarie di Luton.

5 commenti:

  1. Racconto avvincente dal solido impianto fantascientifico. Mi è piaciuto per le atmosfere e per il modo molto interessante di cogliere aspetti psicologici e di trattare contenuti dal sapore politico. Scritto molto bene.

    Giuseppe Novellino

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  2. Bello e piacevole da leggere. Forse anche perchè amo lo stile introspettivo e psicologico.
    Come sempre scritto in modo impareggiabile.

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  3. Molto bravo, Paolo. Racconto appassionante e scritto benissimo.
    Una bella storia di fantascienza.

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  4. Mi associo ai giudizi positivi. Bel racconto di vera fantascienza.
    G.S.

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  5. Ottimo racconto morale, che dalle riflessioni del protagonista fa emergere chiaramente lo scenario retrostante. Molto interessante il dialogo bilingue nel sogno iniziale.
    Sauro Nieddu

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