Giorgia chiuse la
porta dietro di sé, si sfilò rapidamente la vecchia maschera antigas e cinguettò
“Papà, sono tornata!” con una gioia contagiosa. Eppure era uscita neanche un’ora
prima.
“Giorgia! Meno
male, come fai tu il caffè non lo fa nessuno e stavo giusto per...”
“Papà, abbiamo
visite: il dottore è qui per te.”
“È già passato un
mese, eh? Bene, meno male, magari stavolta mi darà il permesso di uscire di
qui. Buongiorno dottore! Gradisce un caffè?”
“Buongiorno signor
Savini” rispose il dottore con una voce gracchiante. “Grazie, il caffè mi fa
sempre piacere. Come si sente oggi?”
Umberto Savini fece
un sorriso. “Come vuole che mi senta? Come il padrone del mondo. Ho una figlia
che mi farà vivere cent’anni. Lei è la luce...”
“...Dei suoi occhi,
lo so, lo so” gracchiò il dottore. Giorgia fece una risatina di circostanza,
diede un bacio sulla guancia al padre.
“Con Giorgia accanto, dottore, io non sono
cieco. Anzi. Non ho mai apprezzato le cose belle tanto quanto ora che lei le
osserva per me. Però...”
“Niente però: di
uscire non se ne parla nemmeno” lo prevenne il dottore mentre l’aroma della
polvere di caffè sostituiva lo sgradevole odore di chiuso.
“Ma sono anni ormai
che sono qui in casa, dottore. Non chiedo tanto: una passeggiata. Una sola.”
Giorgia lanciò
un’occhiata disperata al dottore.
La casa era buia e
intrisa di un tanfo stagnante. Ma per il dottore entrarci significava provare
ogni volta un tuffo al cuore: gli ricordava perfettamente le vecchie case, con due
librerie alle pareti, un divano, una poltrona, persino due lampade inutili
negli angoli e un
vecchio portatile
ormai spento da anni. E c’era sempre il caffè. Lui faceva quel favore a Giorgia
col solo compenso di una introvabile tazzina di caffè. E di un tuffo al cuore
per entrare in una casa come quelle di un tempo.
Il dottore non
credeva nella libertà. Sapeva che una persona libera è solo un individuo che ha
il privilegio di scegliere da sé la propria prigionia. Giorgia aveva scelto da
persona libera di essere prigioniera della vita del padre. Il padre no, non
aveva scelto, era diventato
cieco in seguito ai
primi gas diffusi, ed era prigioniero di Giorgia: dipendeva in tutto e per tutto
da lei.
Il dottore, beh,
lui aveva molte altre prigionie, alcune scelte e altre no, ma che differenza c’era?
E ora aveva scelto di essere prigioniero di quel ruolo, fingersi dottore,
fingersi normale davanti al cieco, prigioniero di un minuto di ricordi, di un
sapore caldo quasi dimenticato. Per aiutare Giorgia e il suo prigioniero-carceriere.
Una bugia, un ruolo
teatrale, e in cambio per una manciata di minuti poteva dimenticarsi cosa ci
fosse là fuori abbandonandosi all’illusione della normalità.
“Mi dia il braccio,
signor Savini: il prelievo.”
“Non mi risponde
nemmeno, eh? Sappia che stavolta non mi arrenderò facilmente.”
“Papà” intervenne
Giorgia facendolo sedere sul letto, “pensa al prelievo ora, che il caffè è
quasi pronto. A te non piace freddo.” Gli cinse le spalle. “Non stai bene qui
in casa con me?”
“Amore mio, non
c’entra nulla” disse lui affettuoso denudandosi il braccio. “Chiedo solo una
passeggiata. Solo una. Le mie gambe, lo vedi, mi reggono.”
“Le gambe forse,
signor Savini, ma i suoi polmoni no: ricorda la tosse? Fuori c’è un inquinamento
tremendo. Tremendo.”
“Lo so, dottore. Lo
so. Teniamo i filtri attivi e le finestre chiuse come ha consigliato lei. Sempre.
Ma anche lei esce, no? Usa maschere antigas, suppongo, per proteggersi naso e occhi
dalle polveri e dagli inquinanti. Mia figlia mi ha detto che ci sono giorni in
cui sono obbligatorie.”
“Eh beh, sì” il
dottore interrogò con gli occhi Giorgia indeciso su cosa dire “Quasi
sempre, in questi
giorni poi...” Il dottore infilò l’ago a farfalla nel braccio di Umberto, sperando
che la distrazione bastasse a fargli cambiare argomento.
“Dottore, quanto
zucchero?” Intervenne Giorgia.
“Mezzo, grazie.”
L’odore del caffè
era una delizia per il naso deforme del dottore.
“Stavolta dobbiamo prelevarne di più. Sa, i
marker tumorali: indagini standard per la sua età. Si sdrai, signor Savini.”
Umberto obbedì
mentre il sangue fluiva nella sacca.
Giorgia guardò suo
padre. Seguì con lo sguardo il contorno delle rughe del volto, l’ombra degli
occhiali scuri che facevano parte del suo profilo dal giorno in cui aveva perduto
la vista. Seguì la pelle tirata sul cranio, sparuto simulacro del viso degli
anni prima del disastro. Si domandò quanto tempo quel vecchio avrebbe potuto
sopravvivere ancora, quanto tempo prima di soccombere alla realtà.
Lei in un certo
senso lo odiava, perché per amore la costringeva a mentire, a fare una vita
oltre ogni incubo, rimboccarsi le maniche ogni giorno senza mai lasciarsi
andare. Per amore.
Giorgia sapeva che
suo padre somigliava ormai più a un fantasma che a un uomo.
Sapeva che la vita
avrebbe dovuto abbandonare quel corpo già da tempo. Eppure era
ancora lì, vivo,
pieno di una forza stupefacente e insperata.
Un vecchio cieco,
eppure più forte di lei. Ed era Giorgia a dargli quella forza.
Costruendo il mondo
per lui, risolvendo ogni problema che lui con la sua cecità non avrebbe potuto
mai affrontare, vivendo ogni terribile attimo per permettere a lui di vivere.
Lei ogni tanto
cadeva nel pensiero inevitabile: cosa sarà di lui quando io non ci sarò più?
Pregò per restare in vita il più a lungo possibile, nonostante quel suo corpo
fragile.
Giorgia sapeva che
suo padre la amava oltre ogni concetto di amore. E lei amava lui almeno con
pari intensità. Eppure c’era quell’immagine dei libri a tormentarla.
Guardò lo scaffale
della libreria.
Allineati in
disordine centinaia di libri mostravano il proprio dorso.
Il contenuto dei
libri è ciò che ha importanza, solo leggendone ogni pagina si può comprende,
apprezzare o giudicare un libro. Eppure come libri in uno scaffale le persone al
massimo possono avere un contatto con la copertina di chi gli sta accanto, e
spesso giudicano solo in base a quel superficiale contatto.
Ogni libro conosce
del suo vicino solo la copertina, da un lato colorata e attraente, dall’altro
adornata di poche scritte che cercano presuntuosamente di spiegare il contenuto
nel modo più seducente. Nessun libro sa cosa contenga davvero il suo vicino
oltre quel
guscio.
Così era anche per
le persone, e Giorgia prima di tutti. Aveva la sua copertina con l’illustrazione
fuori luogo di una figlia felice e allegra, e consentiva a suo padre di leggere
solo questo di lei. Tutta l’enorme dolorosissima storia che conteneva doveva
restare ben
sigillata tra la
prima e la quarta di copertina. E agli estranei mostrare solo il dorso, ancora più
anonimo e superficiale.
Giorgia amava suo
padre, e proprio per questo si costringeva a restare per lui un libro chiuso,
lucidando la propria copertina bugiarda. Le persone, come i libri, vengono giudicate
per la propria copertina. E così doveva essere. Se suo padre avesse letto qualche
pagina tutto sarebbe finito, lei non sarebbe stata più in grado di dargli
quella forza così necessaria, e lui senza più una ragione per vivere si sarebbe
lasciato andare.
Seguì con lo
sguardo il contorno delle rughe del viso di lui. Quelle rughe disegnavano un
sorriso. E quel sorriso bastava a darle la forza necessaria per continuare.
La sacca da mezzo
litro era quasi piena, e il caffè spandeva l’aroma dalle tazzine.
Il dottore chiuse
la farfalla, mise la sacca in una borsa termica rattoppata ed estrasse l’ago
dal braccio di Umberto. Giorgia servì il caffè ai due uomini e curò la
minuscola ferita.
Restò accanto al
padre a carezzargli la mano libera.
“Buono. Non si beve
più un caffè così” approvò il dottore.
“Eh, dottore: di
Giorgia ce n’è una sola. Non so come farei senza di lei.” Le strinse forte la
mano, sin troppo forte per un vecchio così scheletrico. “Però torniamo
all’argomento che mi interessa: io voglio proprio..”
“Devo andare ora”
interruppe il dottore, sperando di evitare ancora la questione. Si alzò, prese
il suo zaino sdrucito. “Arrivederci signor Savini. E non esca di qui o la
prossima volta che la vedrò sarà per l’autopsia.”
“Oh beh che
esagerato! Senta, una passeggiata, una sola, con Giorgia al mio fianco che
vuole che succeda?”
“Arrivederci”
“Ciao papà,
accompagno il dottore e passo a fare un lavoro.”
“Mi lasci, cara?”
“Un’ora sola, papà.
Tu mettiti in poltrona, che abbiamo tolto molto sangue. La caffettiera è
accanto al lavandino, se vuoi ancora caffè.”
Umberto abbracciò
la figlia, le passò le mani sul viso, sulla testa.
“Mi sto abituando a
questo nuovo taglio di capelli. Quasi mi piace ora.” accarezzò il cranio lucido
di lei. “Non perdi tempo a pettinarti, niente capelli sul cuscino. E ti
valorizza il viso.”
Lei deglutì a
vuoto, ma rispose allegramente. “Grazie papà. È la moda ora. C’è chi addirittura
si depila la testa.”
Al dottore scappò
un gracchiante colpo di risa, che cercò di camuffare in finta tosse.
“Sei bella, figlia
mia. Bella.”
Un bacio, poi la
porta si chiuse. Passi zoppi sulle scale, sempre più lontani.
“Non so come fai,
Giorgia” disse il finto dottore con la sua voce stridula da sotto la maschera
antigas. “Hai una forza incredibile, sei unica.”
Zoppicavano
scendendo i due piani di scale. L’aria esterna era un acido che ustionava, ma
non potevano permettersi le tute stagne al mercato nero. Così si rassegnavano a
farsi corrodere le carni da quel gas verde che era ovunque.
“Devo farlo. È
cieco, se non lo faccio non sopravviverà. È mio padre. Sono la sua unica
ragione per vivere”
rispose lei con voce stanca, terribilmente stanca.
“Tu come stai?” le
chiese inutilmente il dottore.
“Come tutti.
Aspetto la fine. Vorrei lasciarmi andare, ma non posso. Non finché c’è lui. Ma
così è un inferno.” si tirò su il cappuccio sino alla maschera, infilò i
guanti. “Ora vuole fare la sua passeggiata. È sempre più insistente. Sai cosa
provo per lui, ma mi fa
impazzire. Cosa
posso inventarmi più di così? ...Un inferno” ripeté.
“Lui non immagina
cosa c’è qui fuori. Lo tieni in quella bolla di tempo da tre anni. Tre anni in
casa con la scusa della sua salute, e non sa niente. La sua fortuna è stata
perdere la vista il primo giorno.”
“Crede che io...
Che io sia bella” disse con rabbia lei. “Crede che io sia come una volta.
Quando mi abbraccia
devo stare attenta a non farmi toccare le piaghe, le cicatrici. E lui crede che
io sia bella.”
Il dottore la
guardò. Non aveva parole di conforto. Rimase in silenzio.
“Grazie per avermi
aiutato, devo sembrarti una matta.”
“Grazie per il
caffè. Quando vuoi sai dove trovarmi.”
Le passò la borsa
con la sacca di sangue tentando un sorriso dietro il vetro scheggiato della
maschera antigas, denti spezzati mostrati tra labbra corrose.
Poi furono due
fantasmi tra i ruderi della città, sepolti dalla nebbia verde che li mangiava
pian piano.
Umberto sentì
chiudersi il portone in strada. Ormai era solo.
Si tolse gli
occhiali scuri, fece un sospiro che sembrò sgonfiarlo. Vuoto e stanco raggiunse
la poltrona. Cadde su di essa travolto dalla gravità, dalla propria debolezza, dalla
stanchezza di mostrare per tutto quel tempo una forza che non possedeva.
Ognuno si
costruisce il proprio abisso. Giorno dopo giorno, paura su paura. E quando questo
è abbastanza profondo e terribile, ci si siede sul bordo ad ammirarlo,
spaventati e affascinati. Tanto affascinati che non riusciamo a staccarcene.
Tanto spaventati da non avere altro di così importante nella mente.
Umberto sapeva come
funzionava. Il suo abisso era composto dalla salute di Giorgia,
sempre più grave,
dalla voglia di farla finita che la ragazza tentava di nascondere sotto una
maschera di finta allegria, dall’incapacità di salvare lei, la propria figlia,
dall’orrore. Da tutte le cose che Giorgia non gli raccontava e che doveva
subire là fuori.
Ognuno si
costruisce il proprio abisso personale, poi si siede sul bordo ad ammirarlo, spaventato
e affascinato, e inevitabilmente comincia a dondolare. Odiamo chi ci tira via perché
ci separa da ciò che più di ogni altra cosa ha riempito la nostra vita. Ma se nessuno
ci tira via prima o poi quel dondolio aumenta e allora è troppo tardi.
Anche Giorgia aveva
il suo abisso. Tre anni prima, all’inizio della catastrofe, lei avrebbe solo
voluto morire. Tirarla via dal bordo del suo abisso non sarebbe bastato a
salvarla. Chi è sul bordo deve scegliere da sé di allontanarsi.
Perciò lui per
amore, per tutto l’amore che provava, aveva scelto l’unica via per darle una
ragione per vivere, per allontanarla da quel dondolio. Mentendole, fingendo di
non vedere e non sapere per poter dipendere da lei.
Umberto si alzò,
andò alla finestra. Giorgia era oltre la strada, ombra nella nebbia verde,
davanti alle macerie della vecchia scuola. Scuola inutile. Da tre anni non si
vedeva nessun bambino. E lei era lì, ombra nella nebbia che la corrodeva,
sbrigandosi a vendere il sangue sano ancora caldo di un vecchio in cambio di
caffè stantio e razioni ammuffite.
Umberto si domandò
quanto tempo quell’ombra malata avrebbe potuto sopravvivere ancora. Cadde nel
pensiero inevitabile: cosa sarà di lei quando io non ci sarò più? Quando non
avrà più nessuna ragione per vivere? Pregò per restare in vita il più a lungo
possibile, nonostante quel suo corpo fragile.
Si versò una
seconda tazzina di caffè. La mise accanto alla poltrona, poi indossò gli occhiali.
Doveva continuare a tenere viva l’attenzione di Giorgia con la storia della passeggiata,
una preoccupazione innocua per fuggire le preoccupazioni pericolose. Non poteva
permetterle di rilassarsi, l’abisso era sempre lì a un passo.
Sospirò, sembrò
svuotarsi e si sedette senza forze ad aspettare il ritorno di lei. Le avrebbe
chiesto di leggergli un libro. Baricco. Sì, Baricco sarebbe andato bene.
Una lacrima bagnò
la poltrona.
La asciugò immediatamente con la manica.
Il tema della catastrofe, ecologica o bellica, è sempre affascinante e si presta a nuovi racconti. Questo ne è un esempio riuscito. L'inquinamento definitivo è uno spettro davvero inquietante. Il racconto arricchisce l'idea con risvolti psicologici e descrizioni ambientali molto efficaci.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino