(Liberamente ispirato a Gli
universi di Moras di Vittorio Catani)
Albertina
mi aveva trascinato ad assistere a quella conferenza, e sembrava che ci tenesse
molto, sebbene l'argomento avesse per me un interesse assai scarso, ma sapete
com'è: io credo di non essere ancora riuscito a capire che cosa un uomo non sia
disposto a fare e sopportare per conoscere – in senso biblico – una donna
giovane e attraente, e così eccomi lì ad ascoltare la conferenza del nostro più
noto viaggiatore negli universi paralleli, il famoso Antonio Gerio Moras.
Una ventina di anni prima c'era stato,
riguardo alla moda dei nomi da assegnare ai pargoli, un momentaneo ritorno
d'interesse per i classici della letteratura, e così i suoi le avevano
sadicamente rifilato quel nome: Albertina, mi pare ispirato alla Ricerca del
tempo perduto di Proust. Più tempo perduto di stare ad ascoltare un
cervellone pontificare di cose quasi incomprensibili!
Come se non bastasse, Albertina si era
liberata del librone che portava in braccio schiaffandomelo sulle ginocchia, un
tomo ponderoso e astruso di cui avevo sbirciato la copertina: Teoria
matematica dei giochi da tavolo e da scacchiera di Eugenio Ragone. I
giochi che mi piacevano a quel tempo, di solito, di tutto avevano bisogno meno
che di una teoria matematica.
Pazienza,
mi dicevo, una come Albertina ne valeva almeno un po': una brunetta minuta dai
lineamenti delicati e con un corpicino dalle proporzioni giuste, forse un
filino più magra del dovuto, se proprio le si voleva trovare un difetto, ma
molto, molto appetibile.
Tanto per
non parere maleducato, per un po' mi concentrai su Moras, il conferenziere: un
tipo magro, quasi calvo, dai radi capelli bianchi e un paio di baffi che gli
incorniciavano il labbro superiore, che, almeno per l'occasione, sfoggiava un
completo scuro elegante, aveva l'aria di un insegnante o di un dirigente di
banca; non me lo sarei aspettato così un esploratore, avrei pensato piuttosto a
qualcuno tipo Indiana Jones, non so se rendo l'idea. Più lo guardavo, e più mi
sembrava che somigliasse moltissimo a quel busto tutto verdastro di verderame e
costellato dagli escrementi dei piccioni che c'è nel giardinetto sotto casa
mia, e che dovrebbe tramandare alla posterità la memoria di Vittorio Catani,
uno scrittore vissuto tra XX e XXI secolo.
«Per
abitudine inveterata», stava dicendo Moras, «noi parliamo di universi
paralleli, ma in realtà dovremmo parlare di universi divergenti. Secondo la
teoria del continuum spazio – temporale, gli universi si biforcano ad ogni
istante, e la realtà comprende tutti i mondi possibili. Se io mi trovo a un
bivio e decido di svoltare a destra, contemporaneamente ci sarà un mio alter
ego di un altro universo che svolta a sinistra. Quanto più remota nel tempo è
la biforcazione fra due universi, tanto maggiore è la distanza fra di essi. Vi
sono universi in cui i mammiferi non sono mai apparsi e il nostro pianeta è
dominato dai dinosauri, altri nei quali il sistema solare e la Terra non si
sono mai formati. La metafora più giusta per rappresentare lo spazio – tempo è
quella del ventaglio.»
Insomma,
credo che abbiate capito, cose di questo genere, che trovavo francamente
noiose.
Quando
riaccompagnai Albertina a casa, la mia alida aveva i propulsori scarichi e
volava quasi rasoterra sfiorando le teste dei pedoni; mi attirai qualche
imprecazione, avrei dovuto farla revisionare, ma ero in bolletta.
Ci
lasciammo sulla porta della casa di Albertina con il bacino della buonanotte o
poco più. Per il momento non c'era modo di ottenere altro, anche se lei
lasciava intravvedere un fuggevole barlume di speranza.
Mi ero
fatto e rifatto i conti non so quante volte, e non tornavano, assolutamente.
Fra pochi giorni mi sarebbero scaduti l'affitto, le bollette di elettricità,
acqua e riscaldamento, e avrei dovuto saldare il conto del supermercato, e poi
c'era Albertina: da che mondo è mondo, bisogna mostrarsi munifici per fare
colpo su di una pollastrella.
La
soluzione più semplice sarebbe stata quella di chiedere ai miei il solito
aiuto, ma disgraziatamente mio padre era stato dannatamente chiaro: tutte le
volte che volevo un aiuto per mantenermi agli studi nella capitale, dovevo
presentargli il libretto universitario e dimostrargli che i miei esami erano in
regola, e da un anno a quella parte esami non ne avevo dati: ero stato troppo
impegnato a correre dietro alle ragazze e a tirare tardi con gli amici.
Conoscevo bene il mio augusto genitore e sapevo come la pensasse: se non
progredivo nel mio curriculum universitario, che mi arrangiassi! Più facile a
dirsi che a farsi.
Quando più
tardi decisi di intaccare i miei pochi spiccioli superstiti per concedermi al
bar una colazione con brioche e cappuccino, mi venne l'idea di come
arrangiarmi.
Qualcuno
aveva lasciato sul bancone del bar il giornale aperto alla pagina sportiva. Gli
ottocento crediti di cui disponevo ancora non erano sufficienti nemmeno per
pagare la metà dei miei debiti, ma se li avessi potuti moltiplicare piazzando
una buona scommessa! Scorsi il giornale. Di hussade
non ero un competente, era un gioco che non mi era mai piaciuto: due squadre di
tizi armati di buffetto, una specie di scopettone, che si muovevano su delle
passerelle di corda sopra una vasca piena d'acqua, cercando di spingersi e
buttarsi in acqua a vicenda con i buffetti. L'unico momento interessante era
quando una delle due squadre faceva punto segnandolo in modo caratteristico,
spogliando la sheirl, la ragazza
segnapunti della squadra avversaria. Si poteva trovare di meglio e in maniera
meno aleatoria in un qualsiasi strip tease.
Le gare con
le alide, quelle le trovavo più interessanti, ma ovviamente scommettere su
queste era più rischioso che sui giochi a squadre, le probabilità di azzeccarci
erano molto inferiori al cinquanta per cento, anche se logicamente si poteva
guadagnare di più.
Il
quiddich; quello era interessante. La cosa curiosa di questo sport è che il
nome e le regole sono stati inventati molto prima che fosse possibile giocarlo,
l'aveva inventato nei suoi romanzi una scrittrice degli inizi del XXI secolo,
J. K. Rowling, con le sue storie su di una scuola di magia, immaginando che gli
allievi lo giocassero a cavallo di scope volanti. La magia non ha mai
funzionato, ovviamente, ma la tecnologia si, e dopo l'invenzione delle alide
sono arrivate le mini – alide per giocare a quiddich, anche perché la gente
aveva preso ad appassionarsi a questo gioco dinamico e spericolato già quando
era possibile solo nella finzione cinematografica: è bastato aggiungere una
palla mossa da razzi e radioguidata da un computer, e il gioco è fatto. Decisi,
avrei provato con il quiddich.
Lazlo aveva il suo ufficio nel
retrobottega di un bar nella parte vecchia della città, la copertura o, come
gli piaceva dire, il front office delle sue molteplici attività non
tutte in regola con la legge, era un bar di quelli che la clientela elegante di
solito evita, ed è frequentato da tipi non troppo raccomandabili.
Se ne stava
appollaiato alla sua scrivania come un maiale, se un suino potesse stare
appollaiato: era un tipo grasso con qualcosa di osceno come hanno talvolta
certi tipi grassi, con il doppio mento che gli usciva dal colletto che sembrava
quasi soffocarlo, con un viso di luna piena dove la fronte si prolungava nella
lustra calvizie del cranio. Gli occhi, invece, erano scuri, vivi, serpentini ed
in quel momento mi stavano guardando con malevolenza.
«Ma mi stai
prendendo per scemo?», mi diceva. «Tu ti aspetti che ti presti tremila crediti
che conti di rimborsarmi sbancando il mio totalizzatore grazie ad una soffiata
che ti dovrei fare sul risultato della partita? Io ci rimetterei comunque.»
«Non è vero», dissi. «Prima di tutto, ti porto un po' di
liquidità...»
«Si, una
miseria di ottocento crediti.»
«E in più,
ovviamente, gli interessi sul prestito.»
«Sarei
proprio curioso di sapere come farai a pagarmeli», disse, «visto che non hai il
becco di un quattrino.»
Quello era
il punto più delicato di tutta la faccenda. Dandoci dentro come una bestia,
facendomi un fondoschiena da scimmia, potevo preparare un esame in un tempo
minimo di quindici giorni: quattro esami, due mesi, e avrei avuto un libretto
decente da presentare a mio padre.
«Dammi un
lasco di due mesi», dissi, «e ti restituirò i soldi alle condizioni che vuoi.
Lo sappiamo tutti e due benissimo che avremo il nostro utile, e che a rimetterci
saranno i gonzi che punteranno sulla squadra perdente.»
«Parli
come», disse, «se io sapessi in anticipo i risultati delle partite di
quiddich.»
Abbassai la
voce.
«Perché?»,
chiesi. «Non è così? Sappiamo che ti compri i risultati delle partite quando
vuoi.»
Mi fissò,
se possibile, con uno sguardo ancor più malevolo negli occhi serpentini.
«Ho
capito», bisbigliò. «Pensavo fossi un fesso e invece sei un dritto. Domenica
c'è l'incontro fra i Serpenti Volanti e i Goblin, i Serpenti Volanti sono
pagati per perdere, ma se te lo lasci scappare, troveranno la tua carcassa in
un vicolo. Quanto al prestito, si può fare: tremila crediti, un lasco di due
mesi, poi l'interesse del dieci per cento, naturalmente composto.»
«Mi sembra
ragionevole», dissi.
«Il dieci per
cento a settimana.»
«Il dieci
per cento a settimana, ma è una rapina!»
«Queste
sono le condizioni, bello, prendere o lasciare. Ti ricordo che i Goblin sono
dati tre a uno, e i Serpenti Volanti cento a settantacinque.»
Tre a uno,
ci si poteva fare un bel gruzzolo, naturalmente presi.
La giornata
era cominciata male: avevo litigato per telefono con Albertina, lei
naturalmente non capiva perché preferissi andare ad assistere ad «una stupida
partita di quiddich» invece di vedermi con lei. Non ve l'ho detto? L'incontro
era una semifinale di campionato e lo stadio era stracolmo di gente assiepata.
Io ero fra il pubblico in piedi negli spalti in fondo: un biglietto con posto a
sedere esorbitava dalle mie possibilità finanziarie, ma non mi sarei perso un
minuto della partita.
I giocatori
a cavalcioni delle loro mini – alide simili a piccoli siluri, si libravano
alcuni metri sopra le nostre teste, e le due squadre si fronteggiavano
minacciose.
Dopo il
segnale d'inizio, le due squadre si lanciarono all'inseguimento della palla
volante prodigandosi in una serie di piroette aeree. I Serpenti Volanti avevano
la casacca verde, quella dei Goblin invece era dorata, e mi venne da pensare
che dovevano essere tali e quali all'Hobgoblin di Spiderman.
Nonostante
il gioco fosse veloce e spericolato, i minuti per me passavano con una lentezza
plumbea. Le due squadre erano in una situazione di sostanziale equilibrio, ed a
metà partita ancora nessuna delle due aveva segnato punto. La difesa dei
Serpenti Volanti a un certo punto riuscì a bloccare un attacco dei Goblin con
una bellissima azione di contropiede. Era quello il comportamento di una
squadra comprata? Non mi pareva proprio!
Due rapide
azioni portarono a un punto per parte, poi la partita riprese a scorrere fra
mosse e contromosse in una sostanziale parità dei giocatori che volteggiavano a
mezz'aria piroettando in modo spettacolare sopra le nostre teste, ma senza
dimostrare molta voglia di impegnarsi sul serio.
Mancavano
dieci minuti alla conclusione, quando i Goblin fecero una pesante incursione in
avanti. L'attaccante della squadra dorata si trovò la palla fra le mani in
posizione ideale per segnare punto...e la passò direttamente al difensore
avversario. Certo, poteva essere una distrazione, ma per me era chiaro: non erano
stati i Serpenti Volanti ma i Goblin a vendersi la partita.
Una salva
di fischi partì dal basso, dagli spettatori delusi, ma per quel che valeva o
serviva a modificare il risultato!
Ero
schiumante di rabbia: Lazlo mi aveva dato volutamente l'informazione sbagliata,
i miei ottocento crediti avevano preso il volo assieme ai tremila che mi erano
stati dati in prestito.
I Serpenti
Volanti scattarono in un veloce contropiede, e segnarono un punto, poi ancora
un altro, prima che il fischio arbitrale ponesse fine alla partita.
La collera
che ero riuscito per un po' a trattenere, ora mi esplodeva dentro con
un'intensità fisica, al punto da farmi star male.
Ero di
nuovo nell'ufficio di Lazlo, e quell'ammasso di lardo non mi era mai sembrato
tanto tronfio e ripugnante.
«Forse ti
credi furbo», gridai, «ma non lo sei. Mi hai fatto perdere il denaro che io
adesso non riuscirò a restituirti, sei peggio di una sanguisuga, sei una
sanguisuga scema!»
«Calma,
calma», disse Lazlo ostentando un sorriso pacioso fino alle orecchie. «Ci sono
molti modi di pagare un debito, non solo il denaro.»
«E cioè?»
«Tuo padre,
correggimi se sbaglio, è un dirigente di una grossa ditta di informatica, ha
accesso a molti segreti tecnici a cui, sono sicuro, le ditte concorrenti sono
molto interessate e disposte a pagarli bene.»
Adesso era
tutto chiaro: quel verme aveva intenzione di servirsi di me fin dall'inizio.
Non amavo mio padre, lo consideravo una fonte di sostentamento di cui
beneficiare al prezzo di una disciplina che trovavo intollerabile e di continue
umiliazioni, ma non mi andava l'idea di diventare una marionetta nelle mani di
Lazlo, un fantoccio che potesse muovere tirando i fili del ricatto.
«No», dissi.
«Te lo puoi scordare. Non diventerò un burattino, uno dei tuoi scagnozzi.
Denunciami per insolvenza, portami in tribunale, e vedremo come andrà.»
Lazlo
scostò la sedia, si alzò dalla scrivania e si diresse a passi pesanti verso di
me: era un uomo davvero grasso, esageratamente grasso, ma sotto quella massa
flaccida era nascosta una notevole energia.
Le sue mani
scattarono in avanti e mi afferrarono per la collottola.
«Stammi a
sentire, pivello», disse, «Conosco bene il tuo tipo. Tu sei uno di quei
giovincelli figli di papà che credono che tutto sia loro dovuto, che non si
sono mai dovuti impegnare per ottenere nulla, che non hanno mai dovuto lavorare
un giorno in vita loro. Tu vali quanto uno sputo!»
Non ho mai
sopportato che qualcuno mi mettesse le mani addosso; spinsi via quelle di Lazlo
che mi appioppò un ceffone.
Il nostro
diverbio si trasformò in una colluttazione, ed era incredibile quanto fosse
forte quell'ammasso di lardo. Casualmente, le mie mani annaspanti sfiorarono il
ripiano della scrivania incontrando un grosso tagliacarte, lo impugnai, lo
puntai contro la gola di Lazlo, poi spinsi con quanta forza avevo.
Gli
scagnozzi di Lazlo arrivarono subito dopo, attirati dal trambusto, ma ormai era
già tardi: Lazlo era morto con la carotide sfondata. Trovai stranamente ironico
che, dopo avermi pestato un po', quei gaglioffi chiamarono la polizia come dei
bravi cittadini.
Vi
risparmio tutto il resto: l'arresto, gli interrogatori e via dicendo. Lo
scandalo naturalmente fu enorme, occupò le prime pagine dei giornali e i
servizi degli ologiornali per mesi: il rampollo di buona famiglia che uccideva
lo strozzino ricattatore, era un argomento succoso, da romanzo russo di fine
ottocento.
Quando si
arrivò al processo, ebbi una brutta sorpresa, mi dovevo accontentare
dell'avvocato d'ufficio, papà si rifiutò di sborsare un credito per la mia difesa:
ero sempre stato una delusione, un buono a nulla, e ora avevo trascinato il
buon nome della famiglia nel fango, come mi disse nel corso dei cinque minuti
dell'unico colloquio che avemmo.
Le cose
andarono male fin dall'inizio del dibattimento che non fu molto lungo. Il
giudice, sua eccellenza Boghaz, era un tipo anziano dall'aria distinta, magro,
pelato, con un bel paio di baffi, tale e quale Moras, l'esploratore
interdimensionale e il busto di Vittorio Catani nella piazzetta sotto casa mia.
Il difensore, anche se era solo un
avvocato d'ufficio, lavorò con un certo scrupolo, cercò di far derubricare il
reato da omicidio preterintenzionale ad eccesso colposo di legittima difesa; ma
non avemmo fortuna. Per quanto il pubblico ministero fosse d'accordo che Lazlo
era stato un individuo spregevole, quel tagliacarte era l'unica cosa nello
studio che somigliasse a un'arma, inoltre quello era un momento in cui
l'opinione pubblica esigeva un giro di vite verso i “nullafacenti e viziosi”, come mi definì il
pubblico ministero.
L'escussione
delle prove e dei testi richiese un paio di udienze: ero stato colto in
flagrante, altre due udienze andarono per il dibattimento e le arringhe
dell'avvocato e del pubblico ministero. In capo a una settimana il processo era
alla fine e sua eccellenza Boghaz si apprestava a pronunciare la sentenza.
Mi fissò
con uno sguardo che non lasciava trasparire emozioni.
«La
condanno a M.O.R.T.E.», disse brusco.
E batté il
martelletto sul tavolo.
Nessuno
viene più condannato da secoli alla pena capitale, nemmeno un serial killer
stupratore ed uccisore di bambini. M.OR.T.E. è in realtà un acrostico per
Meccanismi Olografici di Rimozione Traumatica dell'Es, però sapevo ugualmente che era lo stesso una pena molto
temuta.
Pensare che
i meccanismi M.OR.T.E. Erano stati inventati come uno dei perversi giochi così
diffusi nella nostra epoca, prima che ci si rendesse conto della loro
distruttività!
Era
trascorsa una settimana dalla sentenza, il tempo concesso all'avvocato per
ricorrere in appello, cosa che si guardò dal fare, ed a me per inoltrare una
domanda di grazia che fu respinta a stretto giro di posta.
Eccomi a
percorrere il miglio verde che separava il braccio della M.O.R.T.E. dalla cella
delle esecuzioni. Perché miglio poi? Non erano nemmeno cento metri scarsi, e
non aveva nulla di verde, solo il pavimento di linoleum grigio, e le pareti ed
il soffitto pitturati di un biancastro sporco.
«Venga, si
accomodi», mi disse la guardia, un robot di tipo Jenny con una piacevole voce
femminile ed un tocco di gentilezza esagerato, «Si sdrai lì.»
Mi sdraiai
sulla branda di fianco ad un macchinario dall'aspetto inquietante.
Rapida e
sollecita, Jenny mi fissò le cinghie, poi una quantità di elettrodi, infine la
vestizione vera e propria: i guanti, il casco, gli oculari.
Per
tradizione, per non alterare la bella sigla, si continua a parlare di
meccanismi olografici, ma in realtà quella che si usa oggi è piuttosto una
realtà virtuale.
Di colpo,
mi trovai a piombare in un universo fittizio generato da un computer.
La cosa
buffa era che non sembrava un posto tanto male: era una specie di soleggiata
pianura erbosa illuminata da una luce vivida; mi sembrava di respirare un'aria
piena di delicati effluvi e di sentire sulla pelle il tepore di un sole
primaverile.
L'erba era
costellata di piccoli fiori di ogni colore, e la pianura era qua e là
punteggiata da boschetti. Doveva esserci un ruscello sulla mia destra, perché
sentivo lo scorrere dell'acqua anche se non riuscivo a vederlo. Mi diressi da
quella parte.
Feci qualche
passo addentrandomi in un boschetto. Mi sentivo sereno: se la mia punizione era
tutta così, che mi punissero pure quanto volevano!
Me la
trovai davanti all'improvviso come un fantasma bianco fra i rami scuri degli
alberi: una ragazza dalle forme statuarie, perfette, coperte solo da una corta
tunichetta bianca semitrasparente che le evidenziava piuttosto che nasconderle,
i lunghi capelli biondi, un viso oltremodo grazioso illuminato da un sorriso
accattivante, ed uno sguardo dolce negli occhi grandi da cerbiatta.
Come mi
vide, mi voltò le spalle e si allontanò in una corsa che però non pareva troppo
affannosa. Prima ancora di pensare a quel che stavo facendo, mi misi a
rincorrerla.
La
raggiunsi in breve, e lei si voltò verso di me con un sorriso radioso. Mi
sentivo emozionato come un adolescente. Le cinsi con le braccia le spalle
sottili e lei mi posò le mani sui fianchi.
Senza dire
una parola, rotolammo insieme sull'erba tenera ed il muschio. Ci trovammo
avvinghiati in un amplesso selvaggio e tenero. Proprio mentre lei cominciava a
gemere di piacere intenso ed appassionato, io venni con un'intensità come mai
mi era accaduto: un'esplosione, una specie di lampo.
Ero tutto
preso da un intimo languore di soddisfazione e mi ero voltato verso la ragazza,
quando all'improvviso rimasi agghiacciato vedendo una trasformazione orribile:
di colpo la ragazza si era trasformata in una ghignante creatura scheletrica
dalla cui bocca sporgevano lunghe zanne, e le mani erano diventate simili alle
zampe di un uccello rapace munite di lunghi artigli.
Mi alzai in
piedi e mi misi a correre. Man mano che fuggivo, mi rendevo conto che il bosco
stava subendo una strana trasformazione, diventando sempre più fitto e più buio
come se gli alberi spuntassero all'improvviso dal terreno.
Ero solo
vagamente cosciente di trovarmi all'interno di una simulazione di una realtà
che esisteva solo come parte del programma di un computer e dentro la mia
mente, ma questa vaga consapevolezza non mi dava alcun sollievo, così come un
incubo non cessa di essere angoscioso se si ha la vaga consapevolezza del fatto
che si sta sognando.
Correvo a
perdifiato cercando di distanziare la cosa orribile in cui la ragazza si era
trasformata, cercando nello stesso tempo di evitare i rami bassi degli alberi e
le radici sporgenti dal terreno che minacciavano di farmi inciampare ad ogni
momento.
Il
paesaggio si faceva sempre più buio e lugubre, gli stessi rami degli alberi
sembravano artigli minacciosi che si protendevano verso di me.
Una serie
di bassi ululati mi fece gelare ulteriormente il sangue. Davanti a me c'era un
branco di lupi in caccia.
Avete mai
sentito vicino a voi il ringhio di un predatore stando da solo senza avere né
un riparo né un'arma?
Continuai a
correre dritto in avanti. Se non vedevo gli animali, non aveva senso svoltare a
destra o a sinistra.
Il bosco si
diradò improvvisamente ma l'atmosfera non si rischiarò: era notte ed il cielo,
almeno quel cielo fittizio e virtuale, era dominato da una luna piena la cui
luce rendeva spettrale ogni cosa.
Ero su di
un terreno sgombro ora, intervallato qua e là da ostacoli di forma strana che,
ora me ne accorgevo, erano lapidi e croci. In fondo, stagliate contro il disco
lunare, vi erano quelle che mi parvero le rovine di una chiesa o di una
cappella: ero in un cimitero, presumibilmente abbandonato, almeno dai viventi.
Dita e mani
scheletriche iniziarono ad affiorare dal suolo, poi i morti cominciarono a
uscire dalle tombe, alcuni erano scheletri coperti da luridi brandelli di
sudario, altri mummie dalla pelle incartapecorita più o meno ripugnante, altri
ancora cadaveri in vari stadi di decomposizione, e questi ultimi erano i più
ripugnanti, con nugoli di vermi che foravano loro la pelle, uscivano dalle
bocche, dalle narici, dalle orbite, strisciavano loro addosso, cadevano
lasciando una scia nauseabonda del passaggio di quegli orridi resuscitati.
All'unisono,
il macabro corteo si diresse verso di me.
Mi sembrava
di avere nel petto uno stantuffo invece di un cuore, agghiacciato dal terrore e
dal disgusto, feci l'unica cosa che potevo fare, fuggire ancora.
Dell'altro
mostro, quello che mi afferrò all'improvviso mentre cercavo di evitare quegli
zombi, riuscii ad avere solo una visione fuggevole, indistinta: due occhi
enormemente distanziati in una testa gigantesca che ardevano come due braci
rosse, un corpo enfiato, enorme, una bocca che era un'enorme selva di denti
affilati, due arti anteriori muniti di artigli adunchi che mi avevano trafitto
crudelmente, ed ora mi portavano alla gigantesca apertura dentata della bocca.
La poderosa
chiostra zannuta si richiuse su di me, trafiggendomi in ogni parte del corpo e
procurandomi un dolore atroce, insopportabile, che però continuava a crescere
d'intensità: sentivo il mio corpo trafitto e schiacciato. Quell'orrenda bestia
prese a masticarmi, lentamente e metodicamente. Il mio corpo era ridotto a
brandelli, a poltiglia, eppure non perdevo conoscenza mentre il dolore saliva a
un parossismo inimmaginabile.
Avrei
voluto impazzire, morire, cessare di esistere, eppure, in quella sofferenza
atroce e interminabile, l'istante benedetto della perdita di conoscenza non
arrivava mai.
Un momento,
un istante sottilissimo prima dell'agognato oblio, improvvisamente compresi
appieno, o mi parve di comprendere finalmente appieno cosa significa Rimozione
Traumatica dell'Es: bruciare i circuiti delle reazioni istintive di base:
erotismo, paura, dolore, sovraccaricandoli.
Riemersi
alla coscienza e fu come risalire attraverso un gorgo di profonda acqua nera.
Abili,
veloci, precise dita di androide mi sfilarono il casco, i guanti, gli oculari,
poi tolsero gli elettrodi e mi slacciarono le cinghie.
Il robot
Jenny mi aiutò a rimettermi in piedi.
«Venga», mi
disse con quella sua voce femminile dal tono stranamente materno.
Mi
accompagnò in un ufficio lì vicino e prese una voluminosa busta da uno
scaffale, vidi che conteneva tutte le mie cose che mi avevano tolto al momento
dell'arresto; mentre mi cambiavo vidi persino che nella tasca dei pantaloni
c'era ancora la contromarca della mia puntata su quella maledetta partita di
quiddich.
Il robot
Jenny mi accompagnò alla porta.
«Può
andare», mi disse, «è libero.»
In quel
momento mi sembrò di averli beffati, di averli battuti, se preferite. Il
trattamento M.O.R.T.E. avrebbe dovuto cambiare in qualcosa la personalità di un
individuo, beh, con me non aveva funzionato, qualcosa era andato storto, io mi
sentivo esattamente lo stesso di prima. Avrei dovuto provare un senso di
trionfo, ma mi sentivo solo svuotato.
Ovviamente,
sbagliavo.
L'essere
umano, almeno l'essere umano normale non si rende conto fino a che punto la sua
vita sia scandita da coloriture emotive: questo o quello ci piace o non ci
piace, ci attrae o ci disgusta; ci si sveglia di buon umore o depressi all'idea
di affrontare la giornata.
Tutto
questo non esiste più per chi ha subito la Rimozione Traumatica dell'Es.
Non
riuscite a comprenderlo? Provate a immaginare che state mangiando un piatto
della vostra pietanza preferita: è quello, vi accorgete che è squisito, che è
stato preparato con cura usando gli ingredienti migliori nelle dosi giuste, ma
il piacere che provate gustandolo, è lo stesso che provereste mangiando del
polistirolo.
Dopo una
telefonata burrascosa, ero riuscito ad avere un appuntamento con Albertina e
l'avevo convinta a salire nella mia stanza.
Ci abbiamo
provato, oh se ci abbiamo provato! Inutile, l'appendice fra le mie gambe è
rimasta un pezzo di carne flaccida. Il fatto è che l'erezione non dipende da
meccanismi volontari. Per riuscire ad averla, un uomo deve mettersi in un
particolare stato d'animo, ma mettermi in uno stato d'animo è proprio quello
che non posso più fare.
Senza
parlare, Albertina si è alzata e rivestita.
«Beh,
allora addio», ha detto arrivata alla soglia.
«Addio», ho
risposto atono.
Mentre la
guardo allontanarsi, uscire dalla mia porta e dalla mia vita, so che dovrei
provare un senso di rimpianto.
Ma la
verità è che non sento niente.
Molto bello, avvincente, scritto magistralmente.
RispondiEliminaNon potevi fare, Fabio, omaggio migliore a Vittorio Catani, al suo romanzo.
Racconto d'ampio respiro, ben scritto e coinvolgente. Delinea un ambiente davvero inquietante e scava nella psicologia del personaggio principale. E' interessante anche per le idee strettamente fantascientifiche che, se non del tutto nuove, riescono a destare la curiosità del lettore... e ad appagarla, naturalmente. L'esempio più eclatante è dato dal dispositivo M.O.R.T.E. con il quale viene effettuata la punizione del proptagonista. Divertente e simpatica l'idea di un busto a Vittorio Catani.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino