martedì 30 aprile 2013
lunedì 29 aprile 2013
IL MORBO di Matteo Bigarella
Era un morbo silenzioso e
implacabile quello che si abbatté sul Paese, seminando ovunque
rovina e devastazione. La scienza medica, allora come oggi, era
assolutamente impotente di fronte a una simile piaga. Oh, quanti
amici e parenti vidi cadere, piegati da quel male oscuro!
Non esistendo alcuna cura, si poteva soltanto cercare di evitare il contagio. Mi ritirai in una sperduta baita sulle Alpi, lontano dal consorzio umano. I mesi passarono, uno uguale all'altro, e con essi le stagioni. Nel tentativo di alleviare la noia, presi a fare lunghe escursioni nei boschi.
Un giorno, durante una di queste passeggiate, mi parve di udire una voce in lontananza. Mi voltai, spaventato. Tesi l'orecchio. Un frusciare di sterpi, stavolta più vicino, seguito dal rumore secco di un ramo spezzato. Non mi ero sbagliato, qualcuno si stava avvicinando. Che i contagiati si fossero spinti fin lì? L'istinto fu quello di scappare. Ma non vedevo altre persone da troppo tempo e la curiosità ebbe il sopravvento. Mi acquattai dietro un cespuglio di rovi, in attesa.
Dopo qualche secondo, vidi un ragazzo e una ragazza muniti di grossi zaini da campeggio. Entrambi belli, biondi e sorridenti. Lui la spinse da dietro per scherzo, lei gorgheggiò divertita e gli diede uno schiaffo affettuoso sul braccio. Non fecero caso a me, troppo presi dai loro giochi d'amore. Così come erano apparsi, proseguirono e scomparvero nella macchia. Il bosco portò via le loro risate.
L'apparizione dei due giovani mi lasciò turbato. Di più, irritato. Decisi di rincasare. Mentre ripercorrevo a ritroso il sentiero, realizzai che a colpirmi era stato soprattutto l'enorme squilibrio tra la mia condizione e la loro. Quei ragazzi avevano una vita davanti, una vita ricca di gioie e allietata dalla reciproca compagnia. Io ero solo e destinato a restarlo. Loro avevano tutto, e io niente.
Avvertii un rimescolio di budella, e una sensazione calda e dolorosa nel petto, come se qualcuno si divertisse a straziarmi il cuore con uno spillone incandescente. Era un sentimento nuovo eppure familiare.
Davanti al cancello di casa mi fermai, boccheggiante. Capii d'un tratto d'essere perduto.
Nonostante le mie precauzioni, il morbo, il terribile morbo a cui nessun uomo può sfuggire, mi aveva finalmente ghermito.
L'invidia era entrata in me.
Non esistendo alcuna cura, si poteva soltanto cercare di evitare il contagio. Mi ritirai in una sperduta baita sulle Alpi, lontano dal consorzio umano. I mesi passarono, uno uguale all'altro, e con essi le stagioni. Nel tentativo di alleviare la noia, presi a fare lunghe escursioni nei boschi.
Un giorno, durante una di queste passeggiate, mi parve di udire una voce in lontananza. Mi voltai, spaventato. Tesi l'orecchio. Un frusciare di sterpi, stavolta più vicino, seguito dal rumore secco di un ramo spezzato. Non mi ero sbagliato, qualcuno si stava avvicinando. Che i contagiati si fossero spinti fin lì? L'istinto fu quello di scappare. Ma non vedevo altre persone da troppo tempo e la curiosità ebbe il sopravvento. Mi acquattai dietro un cespuglio di rovi, in attesa.
Dopo qualche secondo, vidi un ragazzo e una ragazza muniti di grossi zaini da campeggio. Entrambi belli, biondi e sorridenti. Lui la spinse da dietro per scherzo, lei gorgheggiò divertita e gli diede uno schiaffo affettuoso sul braccio. Non fecero caso a me, troppo presi dai loro giochi d'amore. Così come erano apparsi, proseguirono e scomparvero nella macchia. Il bosco portò via le loro risate.
L'apparizione dei due giovani mi lasciò turbato. Di più, irritato. Decisi di rincasare. Mentre ripercorrevo a ritroso il sentiero, realizzai che a colpirmi era stato soprattutto l'enorme squilibrio tra la mia condizione e la loro. Quei ragazzi avevano una vita davanti, una vita ricca di gioie e allietata dalla reciproca compagnia. Io ero solo e destinato a restarlo. Loro avevano tutto, e io niente.
Avvertii un rimescolio di budella, e una sensazione calda e dolorosa nel petto, come se qualcuno si divertisse a straziarmi il cuore con uno spillone incandescente. Era un sentimento nuovo eppure familiare.
Davanti al cancello di casa mi fermai, boccheggiante. Capii d'un tratto d'essere perduto.
Nonostante le mie precauzioni, il morbo, il terribile morbo a cui nessun uomo può sfuggire, mi aveva finalmente ghermito.
L'invidia era entrata in me.
(Per gentile
concessione dell'autore)
domenica 28 aprile 2013
DIO E GESU' di Marco Viggi
Oltre i
mari e le terre, sopra tutto il creato, ci sono distese di nubi di piombo
grondanti di pioggia, in mezzo a ululati di venti taglienti sulla pelle.
L’oscurità è illuminata solo a momenti dalle corse di fulmini senza pace.
Lassù,
un volto di rughe profonde come le ere stringe gli occhi tra una barba
arruffata ed i lunghi capelli:
“Ma me
bono, guarda qua!”
Non ha
corpo, o forse ce l’ha ma non si vede. Non si distingue nulla lassù, la realtà
non è reale, o forse è quella la realtà, non si capisce.
“Capo,
scusa, ma lo sai com’è...”
“Non
rispondere!” Dieci tuoni accompagnano la frase. “Lo sai, mi devo sfogare.”
“Certo,
capo.”
L’ufficio
adesso è reale. Il volto ha un corpo, ora, e parla al piccolo essere in tunica
bianca:
“Guarda
queste carte: il mondo va a rotoli! Il totale mondiale di preghiere è in
flessione del sette per cento, anche quest’anno. La frequenza media di messa
pro-capite: c’è più gente in gelateria a Natale. Santo me, guarda!” Dio
sventola i fogli sotto il naso del suo angelo, gli occhi taglienti. Quello
china di più il capo biondo, mani in grembo. “E’ tutta colpa sua! Una volta,
mille anni fa, prima che fosse grande; quelli erano tempi. La gente mi temeva,
mi capisci? Diluvi, piaghe. Così si fa! Mi dovevano rispetto, onorarmi, o giù
botte, chiaro? Schiena dritta o mi faccio vivo, chiaro? E invece quello là...
Avrei dovuto usare il mio sistema, tirarlo su con mani di ferro. Invece,
Maria...” Si passa la mano sul volto: “Le voglio bene, ma lei ha il cuore
troppo tenero. Troppe concessioni, troppi vizi. Così più moscio di Budda mi è
venuto su! Già da ragazzo: prima quei capelli lunghi, ma tagliali! Poi sempre
vestito tutto stracciato, camicioni, fiori e pantaloni larghi: è la moda, mi
fa; l’ho inventata io, tu manco sai cos’è! Ma smettila! Ma poi arrivava sua
madre e... E sempre a bighellonare, a suonare la chitarra e girare nei prati, a
non far niente e guardare lontano e pensare. E sorrisoni e vogliamoci bene.
Avrei dovuto metterlo a lavorare sodo, altro che studiare.
E quando
è stato grande? E dai, e passagli l’attività di famiglia, e dagli una
possibilità. E poi lasciagli fare a modo suo. Così gli ho lasciato in mano un
mondo modello, capisci? Il mio popolo mi rispettava, sapeva che non c’era da
scherzare. Ero il primo dei suoi pensieri, sapeva quanto fossi severo. Amatemi
o sono dolori! E tutti sempre attenti, messa, preghiere, buone azioni. O giù
calamità. Invece...
Mi
ricordo quando mi fa: papo, me ne vado
sulla terra. Bello, mi dico. Che ti vuoi presentare tipo mega idolo d’oro e
piazzare qualche monito qua e là, gli chiedo. Sai che mi disse, eh? Ma no papo, devo camminare tra il mio gregge,
vivere come loro, vedere nuovi mondi, nuovi luoghi, trovare la mia via. E poi
farmi uomo di carne, essere debole e sofferente, come e più di loro. Dare
l’esempio di massima umiltà, di estremo sacrificio, immolarmi. Così sarò il
modello perfetto di amore cosmico, con la A maiuscola; e loro mi seguiranno.
Vivranno nell’abbraccio eterno dell’amore, in un idillio di felicità.
Ecco, in
quel momento ho pensato dovesse essere drogato, anche se non è possibile. Non
credo di essere riuscito a parlare per un po’. E lui? Sorrise, e mi disse tipo:
non è proprio cosmico? E la V con le dita... la V... Una cosmica idiozia, ecco
cos’era! E lui se l’è presa, pure: ma papo,
tu non capisci... I tuoi modi della scorsa era... I tempi cambiano, ti devi
adeguare...
E così è
andato sulla Terra. Ti giuro su di me, fui curioso di vedere fin dove sarebbe
arrivato. E così, invece che una bella guerra di religione, ad esempio,
condurre il popolo ad ammazzare qualche milione di infedeli, s’è ammazzato lui.
Trent’anni a predicare come un figlio dei fiori e poi... Mah, guarda, non farmi
continuare. E adesso? Che fa adesso?”
Lo
sguardo sull’angelo, che alza la testa:
“È nella
prateria del terzo cerchio, sta... cantando con le anime dei bambini...”
“E te
pareva! E canta, canta pure! Ma adesso basta, nuovo corso! Bisogna tornare alla
severità! Un bel periodo di austerità, rigore, impegno e lavoro. Ma bisogna
cominciare con qualcosa di forte. Gabriele! Dov’è Gabriele? Chiamatemelo!”
Batte le
mani ed il rumore è un tuono. L’ufficio si squaglia in nuvole di pece.
La
figura di Dio si gira e si allontana veloce. Il vortice di nubi e lampi perde
intensità. I tuoni si fanno più lontani. Rimane il piccolo angelo in un cielo
senza confine. Poi accanto a lui arriva da non si sa dove un ragazzo, poca
barba e capelli lunghi, jeans e camiciona mezza fuori, sandali. Guarda l’angelo
e sorride:
“Tranquillo,
poi gli passa al mio vecchio, vedrai.”
“Fosse
umano, direi che non gli fa bene alla salute.”
“Che ci
vuoi fare? Ha una certa età.” Si stringe nelle spalle: “Ti va una canzone?”
(Per gentile concessione dell'Autore)
sabato 27 aprile 2013
TUTTI VOGLIONO QUALCOSA di Giuliana Acanfora
Rudji
cammina scalza, i lucidi capelli neri intrecciati sulla testa come
serpenti.
L’uomo bianco le guarda il petto nudo, le forme acerbe dell’adolescenza intagliate nell’ebano della fanciullezza. Si deterge il collo con un fazzoletto, il sole ghermisce come un leone fuori dalla capanna di Mama Asha.
Rudji versa dell’acqua e gli offre da bere. A lui trema la mano mentre prende la ciotola. La ringrazia con un cenno del capo. Rudji si allontana.
Sono tanti, ogni giorno, quelli che aspettano di parlare con Mama Asha.
Tutti vogliono qualcosa.
Quando l’uomo bianco esce dalla capanna, lo sguardo che posa su Rudji contiene già l’arroganza di chi ha comprato. La soggezione che dava il desiderio si è dissolta nel presagio del suo compimento. Ma le parole di Mama Asha sono come i passi di un elefante. Vanno guardate. Lui non l’ha fatto.
La notte cade come una scure sul villaggio di Usubu.
I tamburi battono. Il grido di Mama Asha li sovrasta. Dalla savana si alza un frullio d’ali. Gli uccelli, svegliati dal riposo della notte, volano via in stormo. Resta il sussurro delle fronde e, a rispondere, il crepitio del fuoco davanti alla capanna.
I tamburi continuano a ritmare. Mama Asha grida e canta, contorce il corpo come una salamandra dentro al fuoco, le sclere rovesciate sono due lune piene nella notte della sua pelle.
L’uomo bianco ha già bevuto quello che crede un filtro d’amore.
“Domani il tuo cuore sarà suo”, gli ha detto Mama Asha.
È felice, non ha guardato parole. Ma le parole di Mama Asha sono come i passi di un elefante.
Domani Rudji contenderà il vento alle gazzelle, sfiderà le correnti del fiume, danzerà per la sua tribù. Domani potrà farlo.
L’uomo bianco sente il cuore che gli sfugge, come un uccello che evade dalla gabbia. Le parole sono i passi di un elefante e lo stanno schiacciando. Stringe la mano sul petto, lì dove il battito rallenta. Si accorge che la vita lo abbandona. Il suo grido di agonia è inghiottito dalla terra, si riunisce a quello di Mama Asha che lo libera in cielo. Domani, quando i dottori bianchi lo apriranno, vedranno che nel suo corpo manca il cuore, svanito come svanisce un’ombra al calare del sole.
Rudji sente già una forza nuova che si istilla nelle vene; col respiro che si fa più ardito, il profumo della savana le addolcisce il petto. Accarezza il riflesso del suo viso specchiato nella fonte. L’acqua trema e i lineamenti corrono in ogni direzione, poi la superficie si ricompone e nel dondolio lento e ipnotico le rimanda il sorriso.
Domani Rudji sarà guarita.
Tutti vogliono qualcosa.
L’uomo bianco le guarda il petto nudo, le forme acerbe dell’adolescenza intagliate nell’ebano della fanciullezza. Si deterge il collo con un fazzoletto, il sole ghermisce come un leone fuori dalla capanna di Mama Asha.
Rudji versa dell’acqua e gli offre da bere. A lui trema la mano mentre prende la ciotola. La ringrazia con un cenno del capo. Rudji si allontana.
Sono tanti, ogni giorno, quelli che aspettano di parlare con Mama Asha.
Tutti vogliono qualcosa.
Quando l’uomo bianco esce dalla capanna, lo sguardo che posa su Rudji contiene già l’arroganza di chi ha comprato. La soggezione che dava il desiderio si è dissolta nel presagio del suo compimento. Ma le parole di Mama Asha sono come i passi di un elefante. Vanno guardate. Lui non l’ha fatto.
La notte cade come una scure sul villaggio di Usubu.
I tamburi battono. Il grido di Mama Asha li sovrasta. Dalla savana si alza un frullio d’ali. Gli uccelli, svegliati dal riposo della notte, volano via in stormo. Resta il sussurro delle fronde e, a rispondere, il crepitio del fuoco davanti alla capanna.
I tamburi continuano a ritmare. Mama Asha grida e canta, contorce il corpo come una salamandra dentro al fuoco, le sclere rovesciate sono due lune piene nella notte della sua pelle.
L’uomo bianco ha già bevuto quello che crede un filtro d’amore.
“Domani il tuo cuore sarà suo”, gli ha detto Mama Asha.
È felice, non ha guardato parole. Ma le parole di Mama Asha sono come i passi di un elefante.
Domani Rudji contenderà il vento alle gazzelle, sfiderà le correnti del fiume, danzerà per la sua tribù. Domani potrà farlo.
L’uomo bianco sente il cuore che gli sfugge, come un uccello che evade dalla gabbia. Le parole sono i passi di un elefante e lo stanno schiacciando. Stringe la mano sul petto, lì dove il battito rallenta. Si accorge che la vita lo abbandona. Il suo grido di agonia è inghiottito dalla terra, si riunisce a quello di Mama Asha che lo libera in cielo. Domani, quando i dottori bianchi lo apriranno, vedranno che nel suo corpo manca il cuore, svanito come svanisce un’ombra al calare del sole.
Rudji sente già una forza nuova che si istilla nelle vene; col respiro che si fa più ardito, il profumo della savana le addolcisce il petto. Accarezza il riflesso del suo viso specchiato nella fonte. L’acqua trema e i lineamenti corrono in ogni direzione, poi la superficie si ricompone e nel dondolio lento e ipnotico le rimanda il sorriso.
Domani Rudji sarà guarita.
Tutti vogliono qualcosa.
(Per
gentile concessione dell'Autrice)
venerdì 26 aprile 2013
IL MOSTRO di Giuseppe C. Budetta
La platea si azzittì.
C’era ancora del movimento in sala. Alcuni s’affrettarono a
prendere posto sulle poltrone perimetrali, col lungo tavolo del
buffet posizionato di fronte al palcoscenico, a non molta distanza da
esso. Nelle prime file, alcuni si spostavano con le poltrone per dare
posto ai nuovi sopraggiunti. Da una porticina laterale sbucò il
grande Rigor Mortis mascherato. La maschera rendeva il volto
mostruoso: labbra enormi, zigomi brufolosi, il mento deforme e la
capigliatura arruffata da orango. Come un vero attore, Rigor
Mortis si portò al centro della scena. Si spensero le luci,
mentre solo alcuni riflettori agli angoli illuminavano il
personaggio. La voce cavernosa franse il silenzio tenebroso della
sala. Rigor Mortis disse:
“Sono un mostro diverso
dal solito e striscio nei veli dell’esistenza.”
La platea degli
spettatori aveva notato la reale tonalità femminile della voce,
benché contraffatta da una cupa sonorità, ampliata dalle vibrazioni
della bocca mascherata. Si trattava di Galla Placidia, travestitasi
da mostro. Il corpo slanciato e snello. Il padrone della villa dove
c’era il ricevimento serale con tanti ospiti di riguardo, aveva
avuto l’originale idea di far esibire la sua amante mascherata da
mostro sulla pedana da ballo. Il ricco padrone della villa le aveva
raccomandato di non esibire il volto alla gente e di andarsene via
dalla scena da mascherata. Girando lo sguardo qua e là, la bella
donna travestita da mostro continuò l’angosciosa cantilena:
“Sono un mostro che vaga nel buio. Amo restare nell’ombra che è
la parte più vera del mondo. Lavoro soltanto per dissipare. Amo le
feste insensate, il lusso dispendioso ed improduttivo. Io vivo nella
maledizione. Amo il riso, l’ebbrezza, l’efferatezza erotica, il
male ed infine la morte. Io amo tutto ciò che per gli altri è
impossibile.
Vivo nel Labirinto
ch’esiste da sempre. So cosa sono: un’entità di sole parole. So
dove sto e non ignoro il buio luogo da cui vengo. La mia origine è
nei viventi che sono al di là di questo mio mondo. Per quanto
percorra di giorno e di notte tutti gli anfratti che mi girano
attorno, non trovo l’uscita e non esco all’esterno, né raggiungo
la soglia del Labirinto, scavato nei Sogni. In me, la mente umana
spande rami profondi e forma per gemmazione nuove caverne, cunicoli e
anfratti. La mia esistenza è tra la vita e la morte, tra ordine e
caos, tra Essere e Nulla. Ognuno vorrebbe ignorarmi e non guardare il
mio loco. Sembra che nessuno mi veda, o ci faccia caso. Seppure
ignorato, scavo senza dolore nelle altrui caverne e nel momento in
cui lo scavo è completo, espongo il materiale sterrato alla luce del
sole. Si tratta di materia grumosa, informe e caotica che riempie gli
abissi dell’esistenza.
Vedete? Escrescenze e
protuberanze mi coprono il corpo di scaglie, aculei e piaghe. Sono un
mostro di…pura follia e senza specchiarmi da sempre lo so. Mi nutro
di gente nel mio Labirinto per caso caduta. Alcuni vi entrano senza
saperlo; s’aggirano cauti con apprensione, con paura ed angoscia.
Guardano gli anfratti, ascoltano eventuali rumori; a tentoni avanzano
entro le forre crepuscolari. Impauriti per chimeriche ombre, i miei
prigionieri elevano grida ed invocano aiuto. Nessuno sente, nessuno
risponde ai loro forti, continui richiami. La gente comune è
altrove. Altrove c’è gioia e benessere. La vita vera è oltre la
soglia del Labirinto, scavato nei sogni. Le mie vittime vagano senza
riposo in questi anfratti, cupi e profondi.
Tutti cercano con la
fuga l’uscita, la libertà, anelando la vita felice, ma nella trama
sottile e cangiante, cadono esausti ed hanno la morte. Li assalgo
famelico cogli artigli pungenti. Attanagliati dalla mia forza, li
sbrano con le fauci taglienti-sanguinolenti e l’ingoio nelle
viscere putrescenti. La gente lì fuori si ama e si aiuta, ma se cade
per caso in questa rete d’inconsce caverne è per sempre perduta.
Più si dimena contro il destino e più si avvicina alle mie
possenti, fameliche brame. La salvezza è altrove. Nella mia tela
tutta interiore, non c’è speranza. Sono il mostro che come il
ragno aspetta le prede nella sua trappola buia.
Nessuno sforzo aiuta i
perdenti, caduti per sempre nel Labirinto.”
Il cupo soliloquio era
terminato. Si erano accese le luci ed un lungo applauso accompagnò
la snella figura tenebrosa che si avviò verso la porticina da cui
era entrata, quasi di soppiatto. Qualcuno disse che era stato uno
spettacolo di cattivo gusto. Qualcuno disse che strideva con
l’ambiente festoso. Maria Bissettis disse: “Quelle parole mi
mettono i brividi addosso.”
Il padrone della villa
disse: “Il mostro non farà vittime. Ci sono qua io a proteggere
tutti.”
La bella Koschignotis,
occhioni scuri su una pelle diafana, sottolineati dal trucco smoky,
estrinsecò il dubbio: “Secondo me, è una donna mascherata da
mostro.”
Era ripreso il chiacchiericcio tra gli ospiti che consumavano
sciampagna ed altre bibite. Luce soffusa e tenebrosa nella grande
sala. Ripensando alle parole ascoltate dalla persona mascherata da
mostro, qualcuno aveva i brividi addosso.
(Per gentile concessione
dell'Autore)
giovedì 25 aprile 2013
LA CODA DEL DIAVOLO di Sergio Bissoli
“La gallina del diavolo! La
gallina del diavolo...” grida la donna entrando di corsa dalla
cucina.
L’oste suo marito da dietro il bancone indaffarato a riempire i gotti di vino, cerca di minimizzare la faccenda:
“Macché diavolo, ma stai a vedere che dovremo far venire il prete adesso, solamente per una gallina...”
Ma la moglie, una grassona tutta agitata e sudata, non dà segno di volersi calmare:
“É indemoniata ti dico, Amedeo, non è una gallina come tutte le altre; ha fatto scappare il nostro cane, non è neppure una gallina quella...”
Il marito anche lui grasso e in più calvo seguita a brontolare sottovoce per calmarla:
“Ma che razza di discorsi vai a tirar fuori, sono assurdità, sciocchezze... Tu e i tuoi ragionamenti strampalati...”
L’osteria è piena di uomini tutti mezzi ubriachi che giocano a carte e discutono tra di loro, e nessuno, credo, fa attenzione a questo dialogo.
Io sono da poco entrato in questo locale basso e incatramato dal fumo delle lucerne e delle pipe. Mi faccio largo fra un gruppo di vecchi avventori avvicinandomi al grosso banco con il ripiano in granito.
La donna sta cuocendo i cotechini. Il camino ha poco tiraggio poiché c’è un gran vapore che si spande dall’acqua in ebollizione. Portacandele, sale e un macinino del caffè stanno sulla mensola.
“Che cosa ha di tanto strano, eh, questa gallina?” incomincio con tono rassicurante.
La donna si volta di scatto. É ancora sotto l’effetto di uno spavento subìto, lo si nota bene.
“Misericordia signore, c’è la gallina del diavolo nel nostro pollaio!”
“Ma cos’ha di tanto diverso dalle altre?” insisto a chiedere.
“Ha gli occhi rossi, come il fuoco. É cattiva. Non è né maschio né femmina, e aggredisce il nostro cane che ha paura.”
“Oh questa poi! Non mi sembra possibile” dico per stimolarla a parlare.
“Le assicuro che è così signore, è proprio così. C’è il demonio le dico...”
E alla mia espressione di curiosità mista a incertezza prosegue: “Anzi, venga a vedere, venga a vedere anche lei giù nel pollaio!”
Passiamo in un retrocucina semibuio, umido e stipato di scatoloni e bottiglie.
Da un sottoscala si scende in una vecchia lavanderia. Dalla finestrella non entra quasi più luce ormai e il freddo si fa sentire pungente in quello stanzone pieno di spifferi alle fessure. Quasi mi spiace di aver abbandonato il tepore fumoso della taverna per scendere fino qui. Cammino fra le vasche sulle pietre consumate e insudiciate dalle sciacquature.
La donna tira i catenacci e spalanca una porticina là in fondo.
Un cortile grigio appare rischiarato dalla luce color cenere di un pomeriggio di gennaio. Freddo intenso e tagliente intorno a noi.
“Guardi là, è quella” indica la donna.
Nel cortiletto incassato fra la vegetazione brulla e i vecchi edifici, razzolano alcune galline spennacchiate che a prima vista sembrano tutte uguali. Mi volto per guardare il braccio teso della donna e allora di colpo, la vedo.
É diversa dalle altre, sì, senza alcun dubbio.
Le altre galline sono tutte radunate a pochi passi da noi ma quella invece sta da sola, all’estremità del cortile. Al contrario delle altre galline, questa ci ignora completamente così mi azzardo a spingermi un po’ più in là per osservarla meglio.
Ha la forma diversa, più tozza per le penne che formano la coda forcuta e rivolta verso il basso. Sulla testa ha una cresta piumata appena accennata. É brutta. Con gli occhi rossi. Séguita a camminare a destra e a sinistra laggiù, con superiorità, come se noi non esistessimo.
Mi giro con comprensione verso la donna accennandole di aver visto abbastanza.
Allora rientriamo con un sollievo e lei rinchiude in fretta la porticina che ci protegge e lascia fuori quella cosa diabolica.
L’oste suo marito da dietro il bancone indaffarato a riempire i gotti di vino, cerca di minimizzare la faccenda:
“Macché diavolo, ma stai a vedere che dovremo far venire il prete adesso, solamente per una gallina...”
Ma la moglie, una grassona tutta agitata e sudata, non dà segno di volersi calmare:
“É indemoniata ti dico, Amedeo, non è una gallina come tutte le altre; ha fatto scappare il nostro cane, non è neppure una gallina quella...”
Il marito anche lui grasso e in più calvo seguita a brontolare sottovoce per calmarla:
“Ma che razza di discorsi vai a tirar fuori, sono assurdità, sciocchezze... Tu e i tuoi ragionamenti strampalati...”
L’osteria è piena di uomini tutti mezzi ubriachi che giocano a carte e discutono tra di loro, e nessuno, credo, fa attenzione a questo dialogo.
Io sono da poco entrato in questo locale basso e incatramato dal fumo delle lucerne e delle pipe. Mi faccio largo fra un gruppo di vecchi avventori avvicinandomi al grosso banco con il ripiano in granito.
La donna sta cuocendo i cotechini. Il camino ha poco tiraggio poiché c’è un gran vapore che si spande dall’acqua in ebollizione. Portacandele, sale e un macinino del caffè stanno sulla mensola.
“Che cosa ha di tanto strano, eh, questa gallina?” incomincio con tono rassicurante.
La donna si volta di scatto. É ancora sotto l’effetto di uno spavento subìto, lo si nota bene.
“Misericordia signore, c’è la gallina del diavolo nel nostro pollaio!”
“Ma cos’ha di tanto diverso dalle altre?” insisto a chiedere.
“Ha gli occhi rossi, come il fuoco. É cattiva. Non è né maschio né femmina, e aggredisce il nostro cane che ha paura.”
“Oh questa poi! Non mi sembra possibile” dico per stimolarla a parlare.
“Le assicuro che è così signore, è proprio così. C’è il demonio le dico...”
E alla mia espressione di curiosità mista a incertezza prosegue: “Anzi, venga a vedere, venga a vedere anche lei giù nel pollaio!”
Passiamo in un retrocucina semibuio, umido e stipato di scatoloni e bottiglie.
Da un sottoscala si scende in una vecchia lavanderia. Dalla finestrella non entra quasi più luce ormai e il freddo si fa sentire pungente in quello stanzone pieno di spifferi alle fessure. Quasi mi spiace di aver abbandonato il tepore fumoso della taverna per scendere fino qui. Cammino fra le vasche sulle pietre consumate e insudiciate dalle sciacquature.
La donna tira i catenacci e spalanca una porticina là in fondo.
Un cortile grigio appare rischiarato dalla luce color cenere di un pomeriggio di gennaio. Freddo intenso e tagliente intorno a noi.
“Guardi là, è quella” indica la donna.
Nel cortiletto incassato fra la vegetazione brulla e i vecchi edifici, razzolano alcune galline spennacchiate che a prima vista sembrano tutte uguali. Mi volto per guardare il braccio teso della donna e allora di colpo, la vedo.
É diversa dalle altre, sì, senza alcun dubbio.
Le altre galline sono tutte radunate a pochi passi da noi ma quella invece sta da sola, all’estremità del cortile. Al contrario delle altre galline, questa ci ignora completamente così mi azzardo a spingermi un po’ più in là per osservarla meglio.
Ha la forma diversa, più tozza per le penne che formano la coda forcuta e rivolta verso il basso. Sulla testa ha una cresta piumata appena accennata. É brutta. Con gli occhi rossi. Séguita a camminare a destra e a sinistra laggiù, con superiorità, come se noi non esistessimo.
Mi giro con comprensione verso la donna accennandole di aver visto abbastanza.
Allora rientriamo con un sollievo e lei rinchiude in fretta la porticina che ci protegge e lascia fuori quella cosa diabolica.
(Per gentile concessione dell’Autore)
mercoledì 24 aprile 2013
COMMENSALI di Paolo Secondini
«Mangiare
con voi è un vero tormento, un qualcosa di insopportabile. A
chiunque fareste passare l’appetito o venire il voltastomaco.
Perfino un branco di cani famelici trangugerebbe il cibo in modo
sicuramente più decente.»
«Mboum
unfan vulf mank kom… unl…»
«Mugugni!
Solo mugugni!... Le vostre luride gole non sanno emettere altro.
Siete bestie! Non si può conversare con voi. Vedervi divorare quel
pasto sarebbe meno disgustoso se foste capaci di un qualche
discorso.»
«Monk ounar
mbuen felm… gnoral mord volan…»
«Macché!
Non si capisce un bel niente!… Vi sbrodolate senza ritegno, vi
imbrattate le mani, il viso, i capelli e i vestiti di sangue... Che
spreco! La parte migliore sciupata. Non siete per nulla raffinati, né
buongustai. Pensate soltanto a riempire più che potete gli stomaci
immondi.»
«Womb kunf
olak sint lumak detel on…»
«Abbiate
almeno la decenza di chiudere la bocca quando masticate. Pezzi di
fegato e cervello schizzano fuori tra i denti e cadono sul desco,
macchiando la bianca tovaglia di Fiandra tutta ricami e merletti.»
«Verm lon
okal sener… tuon offl…»
«Ma già!
Cos’altro c’è da aspettarsi da voi, putridi zombie?»
«Kuom unt?»
«Prendete
esempio da noi, dalla nostra indiscussa squisitezza. Osservate,
elegante e compìto, il nostro onorevole pari, il conte Dracula, con
quanta impareggiabile grazia sorseggia la sua coppa di sangue.»
martedì 23 aprile 2013
VICOLO CIECO di Sergio Bissoli
Il vento soffia giù nel vicolo stretto e mal
lastricato, portandomi in faccia la fuliggine e il fumo dei comignoli.
Cammino in fretta sfiorando i muri di case scurite
alte e storte. L’ultima luce del crepuscolo di febbraio spande un chiarore
gialliccio.
Cammino sul marciapiede sfondato in più punti e pieno
di pozzanghere. Gatti rognosi strisciano negli angoli delle vecchie case da
dove proviene odore di urina. N° 515 un barbiere, Rossene. L’insegna sbatte al
vento tagliente di tramontana. Più sopra abita la vecchia Boa, quella che lava
i morti. Ancora più in su un vestito viola sta appeso alla finestra.
La notte scende nel vicolo, fredda e ventosa, una
notte degli ultimi giorni di carnevale.
Dopo l’angolo di un barbacane la finestrella quadrata
sfavillante di luce getta una pioggia d’oro sulle pietre di basalto del
selciato. Ombre di persone che danzano si vedono all’interno. La festa
dell’ultimo di carnevale dell’amico Livio è già cominciata, e adesso sono
arrivato.
Spingo la porta che è solo accostata e subito sono
preso dall’atmosfera della festa. Luce, caldo, vertigine... L’aria è satura di
profumi, stelle filanti cadono dal soffitto.
Mi tolgo il cappotto e vado verso l’amico Livio che ho
intravisto insieme ad altri con un bicchiere in mano. Ma prima di arrivare un
brutto pirata intabarrato mi sbarra il passo. Una manciata di coriandoli mi fa
chiudere gli occhi. Il pirata si allontana nella folla insieme a una bambina
con i seni da donna.
Le luci calano di intensità. Ancora coriandoli e
stelle filanti. Grida e risate.
Una ragazza con la mascherina azzurra mi viene vicino
e mi guarda con insistenza. É snella con i lunghi capelli biondi.
“Chi sei?” chiedo.
“Ah ah...” Mi viene ancora più vicino e mi mette una
mano sulla spalla. Sento il suo profumo dolce che fa stordire.
“Non mi riconosci... ah ah...”
La voce anche se contraffatta mi è familiare... Uno
spintone e subito sono preso tra il flusso di folla di nuovi arrivati, cosicché
non vedo più la mascherina.
Ritrovo la ragazza a metà della serata, quando la luce
è ancora più bassa e le stelle filanti formano una ragnatela sopra di noi. Il
suo vestito è un velo lungo e ne tiene una parte davanti alla bocca:
“Ah ah... Pietro...”
“Sei Chiara?”
Fa segno di no con la testa.
“Sei Stella?... Ma chi sei...?”
“Sarà tua moglie, Pietro...” risponde un amico di
passaggio.
“Non ti ricordi più di me, Pietro?” lei sussurra con
voce argentina.
“Sì, io ti conosco, ma adesso...”
I vetri delle finestre sono tutti appannati e vi
appaiono strane figure di fiato come in un paese di sogno.
A mezzanotte, quando ormai credevo di non rivederla
più mi ritrovo vicino alla ragazza, sempre più attraente, sempre più
misteriosa...
Sento di essere vicino a svelare il segreto, infatti
lei si appoggia al mio corpo mormorando qualcosa e sta per togliersi la
mascherina...
La luce si spegne. Colpi di bottiglia, tonfi, rumori,
gran baccano. Musica discordante e indiavolata.
La luce si accende e si spegne più volte. Dov’è,
dov’è... mio Dio! Mi appoggio a un divano per versarmi da bere.
L’alba versa la sua luce malata dalla finestra facendo
impallidire i lumi.
Qualcuno ha vomitato giù nel vicolo. Rumori di bidoni
che vengono spostati e cozzano fra di loro. Una forchetta alla quale manca un
dente sta sul marciapiede e la sposto con un calcio.
Dalla fogna sgorga un liquido scuro davanti alla
bottega del ciabattino. Freddo pungente e rumore di passi che si allontanano.
Nauseato percorro in fretta il vicolo. Quando alzo gli
occhi vedo una bambina che disegna un cuore sul vetro appannato di una
finestra.
Alcuni giorni dopo sono costretto a dover passare
ancora di lì. Una tosse catarrale accentua il silenzio della mattina bianca e
lucente.
Il gelo della notte ha fatto scoppiare le tubature in
casa di Livio e gli operai stanno lavorando per sostituirle. Sollevano il
pavimento e sotto ci sono ossa e scheletri umani.
“Credevo di essere solo e invece ero in compagnia”
commenta Livio.
(Per gentile
concessione dell’Autore)
domenica 21 aprile 2013
VENDETTA di Paolo Secondini
In un grande palazzo avito, verso la fine del XVII
secolo, il nobile signore Gherardo Dasseni, comodamente seduto in una poltrona
vicino al camino della sala, osservava in silenzio la sua unica figlia, Adelasia,
che ricamava accanto a lui.
Era una ragazza ventenne, bionda, graziosa, che il
padre voleva maritare il prima possibile, sperando, ovviamente, in un buon
partito.
Nella sala, piuttosto in penombra, non si udivano altri
rumori oltre al crepitare dei ciocchi accesi, che diffondevano attorno un
piacevole calore.
«È meglio per te se ti levi dalla testa quel mascalzone!»
gridò d’un tratto Gherardo facendo sobbalzare la figlia. «Un uomo senz’arte né
parte dovrebbe sparire dalla faccia della terra.»
«Ma io… io l’amo, padre,» azzardò la ragazza alzando
la testa dal ricamo.
«Tu amare uno sciocco perditempo, un vagabondo, uno
squattrinato?» sbraitò Gherardo schiumante di rabbia. La sua voce risuonò
cupamente nell’alto soffitto della sala. Poi l’uomo parve calmarsi. Con voce
meno aggressiva: «Io credo, figlia mia, che ti abbia dato di volta il cervello…»
«Ma, padre… io… io…»
«Tu niente! Farai ciò che ti dico, se non vuoi essere
diseredata.»
Ma Gherardo Dasseni era sicuro che quella minaccia, da
sola, non sarebbe bastata a indurre Adelasia
a cambiare idea. Era troppo innamorata di quel miserabile Enrico Tomei.
Che fare?
La soluzione più ovvia gli parve quella di toglierlo
di mezzo una volta per sempre. Non di persona, ovviamente. Sarebbe stato troppo
rischioso e compromettente. Bastava assoldare qualche bravaccio che, per un bel
gruzzoletto di denaro, avrebbe volentieri svolto quel lavoro.
Così fu, infatti.
Una notte, il povero Enrico Tomei fu trafitto alla
schiena dalla lama di una spada. Le ultime parole che egli sentì, prima di
morire, furono le seguenti:
«Questo da parte del nobile Dasseni, che spera tu vada
dritto all’Inferno.»
Ma a essere ucciso, poco dopo, fu anche lo stesso Gherardo
il quale, spilorcio com’era, si rifiutò di dare al bravaccio tutta la somma di
denaro che era stata pattuita.
* * *
Il caso volle che le tombe dei due assassinati venissero
a trovarsi l’una vicino all’altra, nel vecchio cimitero del paese.
E avvenne che, nottetempo, mentre intorno regnava il
silenzio più assoluto, dal terreno dov’era sepolto il Tomei venne fuori una
mano, poi l’altra, poi la testa, infine il corpo.
Con un’espressione
crudele sul volto, il cadavere s’inginocchiò
vicino alla tomba di Gherardo Dasseni e si diede, furiosamente, a scavare la
terra con le unghie, finché non raggiunse la bara del nobile signore.
L’aprì e, con morsi furenti, bestiali, fece scempio
del corpo in essa contenuto. Quindi, soddisfatto, se ne tornò nella sua tomba,
deciso ogni notte a uscirne per cibarsi del cadavere del nobile signore, fino a
quando non fossero rimaste che le ossa.
sabato 20 aprile 2013
LE DUE PORTE di Giuseppe Novellino
In cima alla scala della villa
antica, sul ballatoio due porte si fronteggiano. Una immette nel salone a
volta; l’altra nel buio corridoio che porta al mezzanino. Custode della casa,
sono inquieto. Mi incute soggezione questa vecchia costruzione un tempo
signorile.
Lei esce da una porta, in abito
antico; dall’alto mi guarda, il volto illuminato dal candelabro che tiene nella
mano. Passa sospesa e varca l’altra soglia. È una donna bellissima… Ora è nel
salone a volta? Un impulso. Ma mi arresto a metà della scala.
Le due porte, là sul ballatoio,
portano da un nulla a un altro nulla.
(Per Gentile concessione dell’Autore)
venerdì 19 aprile 2013
DESERTO di Sauro Nieddu
Ordino alle
mie mani di accendere il portatile. Le costringo a consegnarmi un foglio bianco
su cui scrivere. Le mie mani stesse sono dei fogli bianchi. Ordino al foglio
bianco di riempirsi della mia angoscia, dei miei incubi a occhi aperti. Non
ottengo niente; il foglio resta bianco e tutto ciò che si agita dentro di me
continua a tormentarmi.
So che esiste
un altro sistema. Dovrei razionalizzare ogni argomento del dolore, separarlo
dagli altri, dargli un ordine. Poi dovrei prendere ciascuno di quei foglietti
accartocciati, ognuno dei quali non rappresenta, ma è esso stesso uno dei miei
vuoti, e spiegarlo con attenzione fino a che risulti leggibile. Solo allora
potrei vedere che si tratta solo di scarabocchi incomprensibili.
Allora potrei
provare a tradurli in un linguaggio che tutti possano capire, ma si tratta di
un lavoro lungo e faticoso; varrà la pena? Non ho nient'altro da fare. Non so
se ne valga la pena ma decido di farlo lo stesso; così, per passare il tempo.
* * *
Svolto il
lavoro, osservo con attenzione il risultato. Il risultato è un foglio coperto
di scarabocchi incomprensibili. Lo appallottolo e lo getto nel cestino.
Ho lavorato
per niente. Eppure... potrei essere comunque nel giusto! Forse ho semplicemente
sbagliato il foglio da decifrare, forse prendendone un altro il risultato
potrebbe essere migliore.
Così prendo
un altro foglio accartocciato, lo bagno col sudore che mi cola dalla fronte,
resto sveglio notti e notti nel tentativo di trasformarlo in un’espressione coerente
del mio essere.
Poi prendo il
frutto del mio lavoro, lo appallottolo, lo scaglio con rabbia, nel cestino.
Eppure sono
tanti, quei fogli accartocciati da controllare, sporcare di sudore nel
tentativo di esplicarli. Sarebbe stato un colpo di fortuna trovare quello
giusto appena al primo o al secondo tentativo.
Non mi va di
stare a spulciarli uno per uno. Non mi va di grondare sudore per un risultato
forse possibile, ma tutt'altro che certo. Però non ho niente di più importante
da fare e mi sentirei in colpa ad abbandonare così l'impresa.
Passano
giorni, anni... ora mi trovo in una stanza ricolma dei fogli che,
insoddisfatto, ho preso e gettato alla rinfusa attorno a me. I fogli mi
guardano. Mi giudicano senza emettere nessun verdetto.
Quei fogli
sono la mia vita, i tanti mattoni della mia sofferenza che invece di ridursi si
sono accumulati fino quasi a soffocarmi sotto il loro peso. Quello che ho in
mano potrebbe essere l'ultimo, quello il cui peso potrei non riuscire a
sopportare.
È per questo
motivo che lo soppeso bene prima di gettarlo; se fosse l'ultimo, il suo
significato intrinseco potrebbe dare un senso a tutta questa vita, incomprensibile
per chiunque forse, ma carico di implicazioni a un livello superiore.
Solo allora
un barlume di luce si fa strada nei miei pensieri; forse ho cercato una
soluzione troppo immediata. Forse le cose non sono così semplici. Forse non
devo concentrarmi su ogni singolo punto, ma lavorare per cercare dei
collegamenti che diano un significato a tutto l'insieme.
Mi guardo attorno,
e pensare di fare ordine del caos che mi circonda, sembra impossibile; ci
vorrebbe una vita intera. Ma come al solito non ho altro da fare e pian piano
mi metto all'opera.
Inizio a
catalogare tutto, riponendo in ordine i fogli che mi sembrano importanti,
gettando dalla finestra quelli che invece appaiono irrilevanti oppure ripetono
concetti già espressi altrove.
Dopo un’intera
giornata di lavoro non ho fatto praticamente nulla; una goccia nel mare, un
granello di sabbia. Mi lascio prendere dallo sconforto, crollo disfatto dalla
fatica.
Quando mi sveglio,
mi guardo attorno. La situazione non è cambiata ma devo pur passare il tempo,
in qualche modo. Cerco di farmi forza pensando che dopotutto una spiaggia è
fatta da granelli di sabbia.
La mente è
tanto stanca che mi duole in ogni sua parte, ho delle fitte insopportabili alla
memoria e un dolore cupo e pulsante ai sentimenti, la creatività brucia di un’infiammazione
letale.
Nonostante
tutto cerco di scuotermi per portare a termine ciò che ho iniziato.
Intanto il
tempo continua la sua marcia inarrestabile; non esistono ancora dei calendari
capaci di misurarne la reale essenza.
Io sono
ancora qua, che sistemo i miei fogli e ogni tanto prendo qualche appunto. Il
lavoro è ancora ben lontano dall'essere finito, ma un mucchietto di sabbia fa
bella mostra di sé, proprio al centro della stanza. La mia barba e i miei
capelli sono lunghi e hanno un aspetto candido e selvaggio, la pelle è solcata
di rughe.
Poi un giorno
mi sveglio e sento in me qualcosa di diverso. Mi frugo per capire cosa sia
cambiato e lo trovo subito. Dentro di me si è creato un grosso spazio vuoto,
questo vuoto ha preso il posto che prima era occupato da quell'angoscia
insopportabile. Un senso di libertà mi pervade l'anima.
Dalla
finestra socchiusa filtra un raggio di sole, la spalanco e mi affaccio a
guardare il mondo, dopo tanto tempo. Guardo fuori e cerco il mondo con lo
sguardo, ma non c'è più alcun mondo là fuori, solo un’infinità di fogli
accartocciati, macchiati d'inchiostro e sudore, intrisi di solitudine. La mia
angoscia ha preso la forma di un deserto bianco sporco che si estende a perdita
d'occhio.
Chiudo la
finestra e torno a stendermi nel letto; il lavoro è finito e ormai non ho più
molto da fare.
(Per gentile concessione dell’Autore)
giovedì 18 aprile 2013
URANIA di Giuseppe Novellino
Ogni otto giorni correvo in edicola a
comprare il nuovo numero di Urania. Negli anni ’60 era settimanale:
cinquantadue promesse di meraviglie rigorosamente mantenute.
E tutto cominciava con la sorpresa della
copertina. A quell’epoca il disegnatore era Karel Thole. Nei celebri cerchi in
campo bianco, l’artista ci dava un vago assaggio della storia, ma soprattutto
ci stupiva con quelle immagini surreali. L’occhio veniva gratificato prima
della mente.
Correvo a casa e mi mettevo subito a
leggere. Ma spesso la giornata era caotica; allora aspettavo la sera e mi
mettevo il libretto sotto le coperte e facevo scorrere le pagine al lume di una
torcia elettrica. Non era raro che mi immergessi nella lettura durante i compiti,
tralasciando una versione di latino che poi avrei dovuto copiare
frettolosamente il mattino dopo dal quaderno di un compagno compiacente. E ci
fu quella volta che il professore di filosofia mi beccò mentre sbirciavo un
numero di Urania che tenevo aperto sotto il banco: era il modo per sopravvivere
a una delle sue micidiali lezioni frontali.
Quello che mi capitò la prima volta fra le
mani fu il numero 399, del 29 agosto 1965. Era una raccolta di racconti di
Ballard dal titolo “Passaporto per l’eternità”. Fu una folgorazione. Ero stufo
di leggere romanzi di fantascienza avventurosa per adolescenti, reperiti per lo
più nella biblioteca scolastica. Opere come “XP-15 in fiamme” di P. Devaux,
oppure “La conquista dell’Almeriade” di H.G. Viot cominciavano a farmi
sbadigliare. Il mio palato si era raffinato, dovevo nutrirmi meglio. Leggevo
anche altro, i grandi classici della letteratura, ma la mia fame di
fantascienza era cresciuta.
E Urania fu fondamentale.
Di quelle prime letture, capaci di introdurmi
in un mondo ricco di immagini e di idee, ricordo altri titoli che nella mia
mente riemergono come degli archetipi. Sono ancora in grado di rievocare la
paura che mi suscitò “I giganti di pietra” di Donald Wandrei (Urania n° 410),
oppure l’agghiacciante sorpresa provocata da “Dalle fogne di Chicago” di
Theodore L. Thomas e Kate Wilhelm (Urania n° 436). Ma potrei elencare altri
miei incontri con i mondi dell’impossibile o dell’improbabile: “Cronache del
dopobomba” di Philip K. Dick (Urania n° 409), “Oltre l’invisibile” di Clifford
D. Simak (Urania n° 414), “La casa senza tempo” di A. E. Van Vogt (Urania n°
420).
Nel corso degli anni ’60, la cura del
periodico fu affidata a Carlo Fruttero e a Franco Lucentini. Allora i due nomi
non mi dicevano nulla; più tardi avrei scoperto che la direzione era stato data
a due letterati di gran classe, che prima di essere autori erano lettori
appassionati e curiosi… sì, anche di fantascienza.
Le pubblicazioni vedevano l’alternanza di
queste tre categorie: i romanzi, i capolavori, le antologie. Tre modi per
godere della narrazione fantascientifica attraverso la brevità, la novità e la
riedizione di opere che erano già entrate nel mito. E poco importava, a
quell’epoca, se a volte i testi non erano integrali.
Ho continuato a leggere Urania
negli anni successivi, ma non con la stessa assiduità. Comunque per me rimase
un punto di riferimento.
Oggi, con i suoi sessant’anni e i suoi
1594 numeri, rappresenta un segno indelebile per la divulgazione fantascientifica.
(Per gentile concessione
dell’Autore)
mercoledì 17 aprile 2013
IL TESCHIO di Giuseppe C. Budetta
Nel 1846 il Giornale del Regno delle due
Sicilie pubblicò la notizia della scomparsa del marchese Leopoldo
Santacroce, morto all’età di trent’anni. L’articoletto descrisse i solenni
funerali in Santa Chiara. Il rapporto del commissariato Quartiere - Porto
specificò che il Santacroce era precipitato in mare inciampando sul teschio di
un cadavere ivi trasportato dalle acque torrenziali insieme con altro ossame
proveniente dalla prospiciente grotta del Chiavicone. Il rapporto della
polizia ammise un particolare importante: il teschio apparteneva a persona
giovane perché aveva tutti i denti intatti, tranne un incisivo troncato a metà.
Dalla circonferenza della scatola cranica, poteva dedursi l’appartenenza ad una
donna. Un commissario più acuto avrebbe facilmente rapportato il teschio con
dente spezzato alla scomparsa di una giovane l’anno prima. All’epoca dei fatti,
testimonianze accurate e dicerie non mancarono. Può essere che la polizia non
indagò oltre per evitare di compromettere il ricordo del marchese morto in modo
tragico. Né la polizia tenne conto di testimoni che videro il marchese buttarsi
in mare, urlando stralunato come un pazzo. Adesso è facile ricucire i fili di
quella vicenda oscura.
* * *
Nel 1845, il marchese s’invaghì di una
giovane ventenne sfortunata e povera di nome Giulia. Era figlia di un certo
Rocco Damiano finito in carcere perché in un momento d’ira aveva ammazzato la
moglie con un colpo d’ascia. Toccò a Giulia mantenere le due sorelline ed il
fratellino, rimasti soli. Fu operaia in uno dei capannoni del marchese in Via
Medina. La ragazza era cucitrice insieme con una ventina di coetanee. Come le
altre operaie era diretta da una sarta di professione, madama Durso. Giulia
ricuciva i pezzi di stoffa ritagliati da madama. La ragazza era alta e ben
fatta. Aveva solo un dente rotto in bocca. Anni prima dei monelli le avevano
lanciato pietre e reciso a metà uno degli incisivi. Il marchese Leopoldo la
notò lavorare e s’infiammò per lei. Giulia per necessità o perché non si poté
sottrarre, fu amante del marchese. Dopo alcuni mesi era incinta. La poveretta
non poteva nascondere il fatto ai parenti e non sapeva come fare. Il marchese
stravolto la uccise e di notte buttò il cadavere nel Pertugio parte iniziale
del Chiavicone, un ampio condotto sotterraneo. Questo canalone passava
sotto Via Toledo e finiva a poca distanza dal mare in Via Chiaia, convogliando
le acque dagli avvallamenti di Monte San Martino.
Lo storico Carlo Celano riferisce che
durante la peste del 1656 a
Napoli ci furono oltre duecentomila morti su una popolazione di poco più di
400.000. Non si sapeva dove seppellire i cadaveri. I becchini promettevano di
dare sepoltura ai morti in un luogo sacro e invece li buttavano nel Chiavicone.
Nei secoli successivi, il canale fu usato come immondezzaio. D’estate in
particolare, miasmi melensi di morte emanava la forra piena di sorci.
Il 14 agosto 1846, ci fu a Napoli un
terribile temporale. Piovve e grandinò con tuoni e fulmini dal primo mattino.
Si formò un devastante torrente che s’incanalò nel Chiavicone dove trovò
ostruito il percorso al mare. La massa d’acqua fracassò le pareti del condotto
e penetrò nelle fondamenta delle case prospicienti facendole crollare. Crollò
anche il collegio di S. Tommaso e l’antica costruzione del Monte dei Poveri
Vergognosi. La gran parte degli scheletri che il Chiavicone custodiva,
si riversò in strada e Via Toledo ne fu piena. Dopo il temporale che cessò
verso il pomeriggio, alcune carrozze transitanti per quella via non poterono
evitare di passare su carcasse e scheletri umani. Il marchese Lorenzo
Santacroce andava dalle parti di Via Chiaia a vedere come stava sua madre. Il
cocchiere fermò la carrozza perché doveva rimuovere uno di quei cadaveri
espulsi dal Chiavicone. Incuriosito e schifato dall’insolito e tragico
spettacolo, scese anche il marchese che si trovò davanti ai piedi un teschio
con resti di lunghi capelli neri e pelle. Il teschio sembrava sorridergli con
quei denti incisivi in bella mostra, si era conservato anche un occhio
nell’orbita ossea che sembrava fissare l’incerto cielo. Il marchese notò subito
l’incisivo tronco della sua vittima e fu stravolto. Urlando si gettò in mare.
Nel 1890, un prete discendente del marchese
fece pubblicare a proprie spese il diario dell’avo in cui era descritto
l’infame delitto di Giulia Damiani. Il marchese Leonardo Santacroce scrisse il
diario forse per mettere a tacere la coscienza ed il prete volle far luce su
tanta infamia.
(Per gentile concessione dell’Autore)
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