mercoledì 6 luglio 2016

IN ATTESA CHE ARRIVI FIORENZA (Seconda Parte) di Renato Pestriniero

Dìkaia
Sta al telefono da oltre mezz’ora. È stato lui a chiamarla. All’inizio hanno parlato delle solite cose, il lavoro, i problemi del quotidiano, insomma argomenti comuni a tutti e sui quali tutti si trovano d’accordo. Ma appena passati alle rispettive relazioni personali, era stato inevitabile entrare nella sfera del privato. Sono cominciati allora gli attimi di silenzio prima di una risposta, la scelta delle parole per non rivelare certi dettagli.
Dìkaia stava uscendo dalla doccia quando lui ha chiamato. È ancora avvolta nell’accappatoio, i capelli stretti in un asciugamano sistemato nell’abituale aggroppamento a turbante. Con gesti meccanici la donna stringe il collo dell’accappatoio, si friziona una spalla, insiste nel sistemare capelli ribelli che escono dall’asciugamano intrecciato. Indugia con la mano all’interno dell’accappatoio per godere dell’umidore della pelle. Succede che, inoltrandosi nel discorso, la mano accarezzi levigatezze rese ancora più morbide dalla posizione rilassata del corpo sulla poltrona. La mano reagisce alle parole che lui vorrebbe dire. A occhi chiusi, Dìkaia risponde a monosillabi.
Il tempo fluisce veloce, vengono colte sfumature che solo una profonda conoscenza reciproca può permettere, benché non derivata da assidua frequentazione. Poi lo scambio filtra su livelli più personali. Dettagli vengono prima sfiorati, poi trattenuti, quindi approfonditi. Il tempo ha ormai perduto significato. Con la complicità della distanza, entrambi si lasciano andare. Misura e inibizioni vengono allontanate nella consapevolezza che, ormai, quel momento magico non può più essere interrotto. Ma c’è ancora un muro da abbattere, ed è un muro di notevole spessore. Sarebbe più esatto dire che la difficoltà di abbatterlo non sta nello spessore quanto nel materiale di cui è fatto.
Lui si sente in dovere di mantenere l’iniziativa per atavica sindrome maschile, ma risulta evidente che ha bisogno di lei per poter continuare. E per lei, che si trova a dover resistere solo per sindrome identica ma antitetica, è difficile evitare sfumature capaci di indebolire ciò che entrambi si son trovati a costruire.
L’aspetto singolare – in un certo senso buffo – è che lui l’ha chiamata solo per non lasciar morire quel giorno nello stesso grigio silenzio di tutti gli altri giorni.
- I tuoi problemi – sta dicendo Dìkaia. – Sono i miei, le radici da cui provengono sono le stesse. Ci toccano in modo diverso in quanto tu sei uomo e io donna, ma la sostanza non cambia.
- Non so. Non credo tu riesca a capire quanto sia insopportabile l’impossibilità di…
- Di… amare?
- Sì
Un lungo silenzio. È Dìkaia a riprendere: - Non ci siamo frequentati molto ma avevo capito. Solo chi vive certe situazioni sulla propria pelle può intuire certe cose.
- Cosa intendi dire?
- Tu lo sai quanti anni ho. Eppure anch’io sono ancora vergine.
La nuova parentesi di silenzio è lacerante. Poi le parole scrosciano e si intrecciano veloci, le frasi si accavallano, il tempo adesso vola nella sua relatività beffarda.
Dopo che, finalmente, tutto è stato detto, lui chiede: - Ne sei convinta veramente?
- Penso sia un nostro diritto.
- Però dobbiamo aspettare fino a domani. In questo frattempo ciò che adesso sembra chiaro e definitivo potrebbe… e poi c’è una notte da passare… di notte tutto si trasforma… Se dovesse succedere mi chiamerai?
- Sì.
Luis
Non era ancora sceso dalla macchina che la vide affacciarsi alla porta. Durante la notte non c’erano state telefonate. E l’alba era giunta cancellando le lunghissime ore del buio, frastagliate di tradizionalismi, perplessità, ambiguità etiche. Poi l’attesa della sera. E adesso Dìkaia era lì ad aspettarlo, affascinante come mai gli era apparsa per la luce che traspariva dai suoi occhi. In essi c’era trepidezza, struggimento mal trattenuto. Sentì il respiro farsi affannoso ma, per la prima volta, non fece nulla per nasconderlo e, anzi, provò gioia nel poter rivelare l’ansia che aveva sempre costituito il suo limite.
La lampada a stelo accanto al divano era schermata da un pesante scialle damascato. Nella semioscurità della stanza i mobili emergevano come masse dai contorni confusi. Dìkaia gli porse una vestaglia. – Fa con comodo, io torno subito.
Luis cominciò a spogliarsi. Quando fu completamente nudo indossò la vestaglia. Provò eccitazione per le carezze del raso. Nel sedersi sul divano, un lembo della vestaglia scivolò scoprendogli una gamba. Si ricoprì e, per evitare che si ripetesse, tenne la mano sul ginocchio. Sopra un tavolo c’erano due bicchieri, una bottiglia di Gilbey’s intatta e una di Jack Daniel’s vuota per un terzo.
- Ieri sera era piena. – Disse Dìkaia alle sue spalle.
Lui si voltò di scatto. – Non così forte, potrebbe…
La donna scosse la testa: - Non preoccuparti, nemmeno se accendiamo la televisione a tutto volume può svegliarsi. All’ospedale sappiamo cosa usare per certi malati. – Dìkaia fece per spostare la borsa di Luis posata in un angolo. – Ma che ci tieni dentro! – Esclamò.
- Oh, roba d’ufficio, il portatile, quasi un archivio. – Si sforzò in un sorriso.
- Direi che ci tieni pure i mobili.- Si aggiustò il collo dell’abito. Il debole chiarore faceva rilucere l’indaco della seta. Era un abito dal taglio semplicissimo che le scendeva morbido fino ai piedi esaltando con giochi d’ombre ogni movimento del corpo e la trasformava, agli occhi di Luis, in una stupenda sconosciuta. Finalmente, di fronte alla disponibilità di una donna, provava un’emozione pulita, normale. – Hai detto che ieri sera quella botiglia era piena.
- Ho voluto stordirmi per dormire e non correre il rischio di telefonarti. Il bourbon ha fatto il suo dovere anche se stamane avevo la testa di piombo. – Scrollò le spalle. – Ma sono bastate venti gocce per rimettermi a posto.
Luis le appoggiò le mani sulle spalle. – Siamo maledettamente uguali anche nelle piccole cose.
- Anche tu Jack Daniel’s?
Luis annuì. La guardò negli occhi, poi fece scorrere lo sguardo lungo quel corpo inaspettatamente insolito. Una cintura sottile la cingeva ai fianchi. Avrebbe voluto slacciarla per accertarsi che, come la seta faceva intuire, Dìkaia fosse nuda.
Lei sorrise. – C’è anche del gin. - Versò il Gilbey’s nei bicchieri. Poi sedette sul divano. La vestaglia di Luis tendeva ad aprirsi e lui si sforzava per trattenerne i bordi.
– Ti sentirai un po’ a disagio – disse la ragazza. - Ma meglio eliminare qualsiasi causa… - Fece un gesto con la mano per esprimere parole che non trovava.
- Sì, impedimenti, intralci… sei ammirevole per il modo in cui hai affrontato questa decisione.
- Non sei il primo che ha indossato quella vestaglia, solo che…
- Non dire altro. – La interruppe Luis.
- Ma io voglio dirlo! Io so cosa vuole un uomo, io attraggo gli uomini e…
- Sei una donna bellissima, lo sei sempre stata.
- La bellezza non conta, anche una statua può essere bella. Io sono fatta di carne e sangue che però diventano marmo appena la mano di un uomo mi sfiora.
- Adesso siamo insieme.
Dìkaia ebbe un sorriso triste: – Devi aiutarmi. Devi aiutarmi molto.
Luis depose il bicchiere, le prese le mani e le strinse forte tra le sue.
 Luis e Dìkaia
Seduti l’uno accanto all’altra, Luis le accarezzava i capelli, le spalle, e solo quando fu lei a guidargli la mano sul seno, riuscì a introdursi fra le morbidezze della seta e della pelle. Teneva il volto affondato nell’incavo del collo lasciato scoperto dai capelli che Dìkaia aveva scostato, ne aspirava il profumo, continuava a mormorare il suo nome.
- Mi fai sedere sulle tue ginocchia? – Disse Dìkaia con voce quasi aspra. E senza aggiungere altro si alzò e con una torsione del busto e un ampio veloce arco della gamba fu seduta su di lui. –Così siamo più vicini – gli sussurrò all’orecchio. – E possiamo evitare di guardarci. Vorrei che tu non mi guardassi… - Dìkaia lo strinse forte per impedirgli di mutare posizione, per non lasciarsi sfuggire l’ultimo appiglio e naufragare.
- L’unica cosa che dobbiamo fare – Luis le frusciò tra i capelli. – È dimenticare che io sono tuo fratello e tu sei mia sorella. In questo momento tu sei una donna e io un uomo, nient’altro, una donna e un uomo che devono aiutarsi per sopravvivere.
Dìkaia assentiva in silenzio alle parole del fratello, lasciando libero il pianto che si era ostinata a trattenere. – All’ospedale qualcuno aveva sparso la voce che sono lesbica, ma non è vero, io ho sempre desiderato un uomo, e so cosa vi spinge a… vedi? – E con adorabile ingenuità abbassò la voce quasi a un sussurro – Ho scelto calze fumé autoreggenti perché so che questi particolari sono importanti, vero… vero? – E poi guardò Luis negli occhi, lo sguardo annebbiato dalle lacrime. – Ma devi essere dolce, amore mio, noi non siamo come gli altri.
Alfredo
21 marzo
Fiorenza carissima, questo diario sarà un colloquio con te in attesa che tu arrivi. Non so quando succederà, ma quel giorno io sarò qui ad accoglierti. Ho voluto cominciare oggi questo diario perché è il primo giorno di primavera. Anche il tuo nome sa di primavera. C’è il sole, i primi tepori nell’aria. Sono felice.
A volte sento dei bisbigliamenti e il mio pensiero corre subito a te, ma poi mi rendo conto che non è possibile, è ancora troppo presto.
Mia diletta Fiorenza, nell’attesa vivrò parentesi di anamnesi, scenderò gradino dopo gradino fin nel profondo per interpretare e vivere e godere i momenti che ci hanno fatti incontrare.
Alfredo
26 aprile
È passato poco più di un mese eppure mi sembra un’eternità. È sempre così quando si attende qualcosa di molto importante, il tempo ha la facoltà maligna di dilatarsi per creare tormenti.
Sempre più spesso sento scricchi e crepitii, a volte dal pavimento, a volte dalle pareti. Ho eliminato tutti i mobili per rendere echeggiante il minimo fruscio e così la casa possa parlarmi, stabilire un dialogo al quale purtroppo non riesco ancora a partecipare. Però il significato lo conosco, la casa mi sta parlando di te, Fiorenza, e ogni giorno riesco a imparare qualcosa.
Quando ho deciso di stabilirmi qui, mi sono fornito delle cose essenziali e ho tagliato il cordone ombelicale che mi teneva legato al mondo esterno. Da quel giorno, e ormai è passato più di un anno, mi sono dedicato esclusivamente a curare ogni dettaglio per il tuo arrivo. Adesso la natura sta sbocciando, ci sono colori e profumi, però i miei occhi sono solo per quel verde cespuglio, lo guardo per ore, lo spio quando il buio della notte me lo nasconde, e la prima ombra che vedo uscire all’alba sono i suoi rami che si rinforzano, le sue foglie che dilagano e avviluppano.
Ti sento sempre più vicina, Fiorenza, ti vedo nei fiori che stanno macchiando il cespuglio, ti sento nei respiri che la casa mi trasmette soprattutto di notte. Questi sussurri notturni mi hanno riportato alla memoria un’esperienza della mia infanzia, quattro anni, forse meno. Una notte mi svegliai e sentii provenire dalla stanza della mia mamma un respiro affannoso, dei lamenti. Pensai fosse entrato qualcosa di orrendo per farle del male. La porta della sua camera era socchiusa, e vidi che mio padre le era addosso e quell’ansito era il suo respiro e i lamenti provenivano dalle labbra di mia madre. Non c’ era nessun mostro. Cercai di riprendere il sonno coprendomi la testa con le lenzuola ma non ci riuscii, nelle orecchie avevo quei respiri e quei lamenti e negli occhi l’immagine terrificante dei miei genitori che, improvvisamente, si erano trasformati in due persone sconosciute.
Quella notte mi sentii solo perché avevo scoperto che, durante il giorno, il mio papà e la mia mamma portavano una maschera per farsi vedere da me come volevano loro.
Fiorenza adorata, prima ho parlato di taglio di cordone ombelicale. È solo una frase fatta perché nessuno può separarsi dal proprio passato, tutt’al più può metterlo da parte, se ne renda conto o meno.
Anche stanotte ho sentito bisbigli, ma, contrariamente a quelli che mi sconvolsero quand’ero bambino, questi mi recano gioia, e cerco di carpirne le minime sfumature. Sei tu, Fiorenza, che ti stai avvicinando.
 Alfredo
12 maggio
Ieri qualcuno ha bussato. Non so chi fosse, non mi sono curato di aprire né di guardare attraverso i fori che ho praticato nelle imposte. I fori li ho fatti per seguire le piante durante il giorno. Da loro vado solo quando è buio. Ormai le conosco come fossero mie creature, e in un certo senso lo sono. Hanno messo radici talmente profonde e robuste che niente può impedire la loro espansione. Già tutto il tratto del muro a oriente ne è damascato, e anche la parte della casa che dà sul giardino è ormai imprigionata da una ragnatela di rami e foglie e da fiori mai visti da queste parti. Pensa, Fiorenza, che devo bucare continuamente le imposte a mano a mano che i fori vengono coperti dalle nuove foglie. Questo mi dà un immenso piacere.
Dicevo che ieri qualcuno ha bussato. Poi ho sentito il rumore di una macchina che si allontanava. Più tardi ho visto una busta fatta passare sotto la porta. Sarà stato un altro avviso. Ho buttato nei rifiuti anche quella busta. Ormai telefono, luce, gas e acqua sono stati staccati. Per lasciare più spazio possibile ho eliminato anche i vecchi elettrodomestici che usava mia madre. Per muovermi di notte da una stanza all’altra non ho certo bisogno di lampadine o di torce elettriche, la casa la conosco in ogni sua minima parte. In realtà, non è che durante il giorno ci sia molta più luce con tutte le finestre sigillate. Solo attraverso i fori filtrano lame luminose che creano strani giochi di chiaroscuro. Mi piace guardarli e parlare con loro.
Una volta alla settimana vado a comperare un po’ di roba in scatola e qualche bottiglia d’acqua in quell’ipermercato che rimane aperto anche di notte. È faticoso perché ho dovuto vendere la macchina, ma non è un grosso problema.
Mi sento sempre più sereno, Fiorenza. Il vivere in questa oscurità appena trafitta da qualche filo lucente mi dà la sensazione di viaggiare a ritroso nel tempo, e più torno indietro e mi riavvicino a una nuova nascita più mi sento sereno.
A mano a mano che le ore e i giorni passano – l’orologio è l’unico oggetto che mi permette di indicare le date sul diario – mi ritrovo. Dormo dove e quando voglio, mi denudo se sono spinto a farlo, a volte mi piace giocare con i miei escrementi. Sento che tutto si concluderà tra poco, Fiorenza. Le piante stringono la casa in un abbraccio sempre più affettuoso.
Alfredo
7 giugno
Devo state molto attento perché se qualcosa dovesse danneggiare le piante sarebbe la fine. Per esempio mi sono accorto che un cane riusciva a infiltrarsi all’interno del giardino. Ho pensato che avesse scavato una buca sotto il muretto ma non ne ho trovato traccia.
Ad ogni modo ho studiato attentamente i punti dove il cane si soffermava e ho preparato una trappola. Ho applicato a una tavoletta di legno massiccio un sistema di lame trattenute da molle, ventidue lame lunghe quarantasei centimetri, diciotto sistemate lungo i lati e quattro al centro. Ho sotterrato la trappola sotto due o tre centimetri di terra, mascherata con foglie e sassi mescolati a cibo per cani. Poi mi sono appostato a osservare attraverso i fori. La prima volta non è successo niente, il cane è andato a ficcanasare altrove. Forse non aveva fame. Ma la volta successiva è passato sopra la tavoletta e in un attimo il suo corpo si è trasformato in un grumo di visceri lacerati. Ho aspettato che facesse buio, quindi ho messo tutta quella roba dentro un sacco di plastica e l’ho buttata sotto la tangenziale.
Mi dispiace aver dovuto uccidere quel cane. D’altra parte non posso permettere che le piante vengano danneggiate. Ucciderei chiunque.
Questa notte mi è sembrato di sentire un raschiare alla porta, poi ho capito che il rumore proveniva dalla parte prospiciente il giardino. Ho acceso una candela e sono andato a vedere. E finalmente, Fiorenza, c’è stato il primo segno: un pezzo di intonaco si era staccato e dalla porzione di muro lasciata scoperta ho visto che i mattoni avevano lasciato passare un ramo di Darlingtonia. Adesso sono contornato da bisbigliamenti, scricchi e crepitii, suoni che ho cominciato a sentire quando le piante si apprestavano a prendere possesso dei muri.
Era stata la mamma a voler chiudere la rientranza nel muretto, diceva che vi vedeva la faccia di nostro padre. È stata lei a voler mettere le piante per coprire ogni macchia che potesse ricordarle la sua faccia. E io, Fiorenza, mio fiore, ho fatto quello che lei desiderava. Lei diceva che nostro padre era pazzo, ma tu sai che non era così. Lui non riusciva a vivere nella realtà, e ha sempre cercato di trascinare anche la mamma in quel suo mondo fatto di giustizia e di sogni, di immaginazione. Ricordi cosa diceva? Solo la fantasia è vita, e un’esistenza senza fantasia è convivere con la morte. I nostri nomi, per esempio. Aveva voluto chiamare te Dìkaia e me Jorge Luis. Appena se ne andò, la mamma ha cominciato subito a chiamarci con i nomi che avrebbe voluto darci lei, Fiorenza e Alfredo.
La mamma ha fatto molto male a te, sorella cara, a causa di quella sua morbosa determinazione di isolarti, convinta com’era che dentro di te potesse germogliare la stessa visione del mondo che aveva nostro padre, e ha fatto molto male anche a me, il suo Alfredo, Alfreduccio, il suo Duccio.
 Alfredo
16 luglio
L’ultima volta che ho scritto era il 7 giugno. Non mi rendo conto che sia passato tanto tempo, forse il mio orologio si è rotto. Ma ormai per me il tempo non ha più significato. Le pareti interne della casa hanno partorito centinaia di rami e foglie e fiori. La mamma voleva piante che coprissero il muretto e io ho scelto le specie delle Sarraceniacee. Dalle pareti sono spuntate decine di ascidie gonfie come piccole anfore, misteriose come urne, trasformazioni delle foglie di Nepente, di Sarracenia, di Utricularia, piccole trappole che portano ancora dentro di sé i resti di ciò di cui si nutrono. Io le osservo e so tutto di loro, indago nel loro sacco branchiale, nei loro sifoni boccali e cloacali, spio il loro sbocco sessuale.
È venuto il momento del tuo arrivo, Fiorenza, lo sento, sei vicina, forse domani. Intanto scruto questi fiori che spuntano dalle pareti dopo aver lottato per infiltrarsi tra pietra e pietra con forza lenta ma tremenda, facendo gemere la casa. Adesso carezzo i loro sepali, i petali gialli e rossi, i pistilli muniti di ovario, i loro frutti a capsula, le foglie a imbuto.
Fiorenza, tra poco sarai anche tu fra questi fiori e ci riuniremo. Quella sera in cui proprio qui, in questa stessa stanza dove ora mi trovo a scrivere accanto alla vestaglia di raso – che uso come giaciglio –, abbiamo trovato insieme la forza di amare, il tuo corpo ha avuto solo un trasalimento quando la lama ti penetrò. Tutto era pronto, Fiorenza dolcissima, le piante erano in attesa di essere messe a dimora, e non potevano trovare dimora migliore se non nelle tue membra divise. Ricordi come pesava la mia borsa? E il giorno dopo, quando la mamma, uscita dal torpore che le avevi procurato, scoprì che la rientranza nel muretto era stata coperta dalle piante e non avrebbe più visto la faccia di nostro padre, disse Duccio caro mi hai fatta felice.
 Alfredo e Fiorenza
18 luglio
Non c’è più ragione di continuare questo diario perché sei arrivata.
È successo questa mattina, solo poche ora fa. Nel sacco branchiale di un fiore di Nepente ho trovato un frammento di te. Ho staccato il fiore e l’ho assunto come comunione con quanto di prezioso esso conteneva.
Benvenuta Fiorenza.
 

 

lunedì 27 giugno 2016

DIALOGO TRA DUE ALIENI di Paolo Secondini e Peppe Murro

Pianeta Holigonian III.
Holigoniano: Urp cusp trask olegh mal.
Terrestre: (Sollevando le spalle) Beato chi ti capisce!
Holigoniano: Arp semp ninf dicol gulp.
Terrestre. (Spazientito) Uffa! Come devo dirti che non ti capisco?
Holigoniano: Non…
Terrestre: Non che?
Holigoniano: Che…
Terrestre: Cosa?
Holigoniano: Cosa…
Terrestre: Mi fai l’eco, ora?
Holigoniano: Ora…
Terrestre. (Ironico) Su Terra sono le 12,30; su questo tuo stupido pianeta non so.
Holigoniano: So…
Terrestre: Sai? Cos’è che sai? Un bel niente, sai. Te lo dico io.
Holigoniano: Io…
Terrestre: (Fa un gesto con la mano) Sì, buonanotte!
Holigoniano: Buonanotte…
Terrestre: (Oltremodo irritato) Uffa! Uffa! Uffa!
Holigoniano: Uffa…
Terrestre: Sei uno scemo!
Holigoniano: Scemo…
Terrestre: Ehi, dico: non cominciamo a offendere.
Holigoniano: Offendere…
Terrestre: Basta, sono stanco di tutto questo! Non capisci nulla. Sei soltanto uno scemo che continua a offendermi
Vede l'holigoniano mutar nell’aspetto; sente gracchiare qualcosa intorno, mentre quello diventa un arcobaleno di colori. Con una specie di rantolo, il terrestre si sente rispondere:
«Ssseiiii uuunnnoooo sckemoooo chhh kontiiiinuuuaaa a oooffffeeddeermiiiiiii.»
Poi, d’un tratto, un silenzio irreale, mentre lentamente il suo quasi interlocutore si erge lentamente in tutta la sua statura e con calma, quasi con piacere (almeno così gli sembra) piega l'avambraccio nel segno dell'ombrello.
E di fronte al suo stupore, l’holigoniano si gira e, con le sue quattro braccia, gli fa segno di andare da qualche parte… magari a quel paese.
Terrestre: Vado, vado. Vuoi che ti porti qualcosa? Un accidenti, magari. Sì?
Holigoniano: Sì…
Terrestre: Con molto piacere.

 

venerdì 24 giugno 2016

DATA DI SCADENZA di Paolo Durando




“La luna si vede bene.”
“La luna! Sai che poesia...”
“Non capisco. Tu ti sei accorta come siamo arrivati qui?”
“Mi sento confusa, molto confusa…”
Manca poco a mezzanotte e siete arrivati. Da soli, in piccoli gruppi.  E’ un bello spettacolo.  Cercate di ritrovare un filo, disorientati. Da tempo qualcosa sta cambiando nelle vostre vite e l’avete capito. Ma non sapete cosa vi aspetta.
“Anna?”
“Sì, sono qui, non mi allontano.”
“Tienimi la mano stretta.”
“Stamattina c’era un bel cielo… Mi pareva quasi che tutto fosse di nuovo come prima.”
“Prima di…”
“Senti? Ci sta chiamando.”
“Ma chi?”
“Amore, non riconosci la voce di nostro figlio?”
“Mamma!”
“Andreino, vieni, corri qui!”
“Ce li hai i kinder?”
“Li andremo a comprare, appena usciremo da qui.”
“Davvero? Verrai anche tu al centro Le Terrazze, papà?”
“Certo, compreremo due confezioni da otto barrette.”
“Le trombe allora suoneranno e tutta risponderà la valle, dalla quercia alla formica.  Poi si udrà dal cielo la voce del Figlio e sarà separato il grano dal loglio.”
“E questa chi è, papà?”
“Giocheranno i lupi con gli agnelli, canteranno i leoni e risplenderanno le città, le pianure in rigoglio. Si spaccheranno le montagne e ne scaturiranno le dolcezze dell’abbrivio.”
“Una vecchia pazza.”
“Che puzza di capelli!”
Sta accadendo ovunque  e ancora non ve ne rendete conto. Ma questa è solo la seconda retata, in fondo. Arrivati alla terza, comincerete a prendere coscienza. E allora il gioco si farà davvero divertente.
“Pazza come un cavallo…”
 “Guarda, Nino. Lavatrici, forni a microonde, tablet… Tutti quei comodini accatastati. I miei occhi si stanno abituando.”
“Anche i miei. Sembra una discarica. Ma come ci siamo finiti?”
“In ogni pietra e stelo risuonerà l’avvento. Scorreranno i rivi tra i fiori, danzeranno lievi le farfalle. E si vedrà chi aveva avuto ragione! Crolleranno le menzogne, vasto si spalancherà l’averno.”
“C’è qualcuno? Dove siete?”
“Aiuto!”
“Senti? Ci sono altri. “
“Sì…  E li vedo. Tanti, tantissimi!”
“Ma quando andiamo a comprare i kinder?”
“Qualunque cosa succeda, io ho amato soltanto te.”
“Ti ricordi quando ci siamo incontrati la prima volta? Falling into space at the end of time black as the black in your eyes …” *
“Che strano pensare alla nostra canzone in questa oscurità.”
Tu e lei, lei e tu. Vi illudete ancora di ritrovare la vostra ottusa quotidianità. Tu che ami te stessa in lui. E tu che ti adori nella sua fica. Che pena  le vostre braccia che si agitano, le vostre mani che brancolano.    E  il cucciolo che avete elaborato in una stomachevole notte di passione, la budinosa precarietà della sua movenza, l'insufficienza dell'età   in nervi e tendini.                                        
“Mi chiamo Valentina Ognibene, mi sono persa in questa discarica. Non ricordo come ci sono arrivata. Lei, signora, si ricorda? Come si chiama, signora?”
“Io sono Anna. Nemmeno io ricordo nulla.”
“Non ci siamo arrivati. È stata una deportazione.”
“Lei dice, signore? Io non saprei. Le mie amiche mi chiamavano Smemoranda, come l’agenda. Non mi accorgo delle cose. Arrivo in un posto e non so come.”
“C’è proprio tanta spazzatura, intorno.”
“E noi, signore, siamo spazzatura?”
Questa vostra lingua che è quasi la mia non basta, il più delle volte. Come  esprimere tutto lo scompiciarmi che il solo percepirvi mi procura? Flaccidi, imprecisi, caracollanti, sputacchianti. L’insolubile approssimazione di ogni vostro gesto e parola.
 “Io ci abitavo, vicino ad una discarica. I miei dicevano che non se ne poteva più per l’odore. Mi affacciavo alla finestra e vedevo quelle montagne di cucine, i materassi lerci, i monitor… “
“…perché arriveranno i cavalieri dell’Apocalisse e le loro barbe sfideranno il fuoco, il male dispiegherà le sue folgori attraverso le nubi aperte. Ma il canto dei giusti avrà ragione di ogni tardivo pentimento di ignavi.”
 “Ehi! Ci siamo anche noi!”
“Cazzo! C’è qualcuno?”
“E se li vendessero anche qui i Kinder? Eh?”
Quelle donne insaccate, quegli uomini intubati che si aggirano tra i rifiuti. La loro vista mi brucia gli schermi. Il loro effluvio immondo mi intossica i ricettori.
“Attenta a dove metti i piedi.”
“Sì, è tutto pieno di marciume, anche il muro è appiccicoso.”
“Stringimi, amore.”
 “Sapevo una conta:
Uno due tre
pavoni del re.
Nella bilancia
metti l’arancia.
Le piacciono le conte, signora?”
 Abbiamo riflettuto a lungo sulla soluzione migliore. Non è che una sequenza di numeri. Otto, per l’esattezza.  A ciascun branco secondo i meriti, la docilità e l’adattabilità.  O per puro, insindacabile capriccio. 
La data di scadenza. L’avreste mai detto?
 “Quando ero piccola mi dimenticavo sempre l’astuccio a casa e la maestra mi sgridava. Forse qui è pieno di cose dimenticate. Non pensa, signora, che qui potrebbero esserci tutte le cose perdute e mai trovate?”
“Non lo so, però adesso stai zitta. E tu tieni stretta la mano di papà, non toccare niente!”
 “Beati i poveri, i malati, che conosceranno la ricchezza e la salute nella comunione dei santi, in Terra prima che in Cielo, nella città terrena prima che in quella Celeste.”
“Sono Silvio! Silvio Moneta! Dove siete tutti quanti?”
“Mi dicevano Smemoranda anche perché dimenticavo i nomi dei personaggi delle favole. Ma forse, signora, era solo un gioco. Giocavo sempre. Tu ci giocavi a fare la scema da piccola?”
La chiamavate ‘singolarità’. La temevate e ci scrivevate dei libri.  Adesso è qui e non vi capacitate, nel consueto scollamento tra parole e cose.  
“Nino!”
“Sono qui.  Non senti un rombo strano?”
“Sembra un motore. Io avevo un go-kart col motore, una volta. Ci giocavo sempre, signore. Non mi dimenticavo ancora di niente.”
“Non è un motore. Sono i passi. Migliaia di passi. La folla.”
La Terra sarà l’humus della nostra partenogenesi.  Oltre ai masselli, naturalmente. Una volta ottenuti, questi  lingotti umani ci saranno preziosi per molto tempo.
“Uno due tre
pavoni del re.”
Porzione dopo porzione, costituiranno un buon nutrimento, ma anche pasta per sculture e varia oggettistica, distillati per lubrificanti neuronici. Ci apparterremo a fondo, noi e voi.
Oh sì. Diverremo tutt’uno. 
“Seguirà il silenzio dei mondi e dei demoni. Si dispiegherà la pace del millennio. Le stagioni si susseguiranno nella felicità delle moltitudini.”
“Adesso me li comprate, i Kinder.”
“…”
“…”
Scaduti.
È il momento di procedere.
Il mio led frontale occhieggia, alla massima frequenza.  Tengo i nanofasci in stand-by.  Le leve si abbassano. Ecco.
Aziono la pressa.

 
*Duran Duran - Big Bang Generation
 
 

lunedì 20 giugno 2016

L’UNIVERSO E LA STUPIDITÀ UMANA di Paolo Secondini - Peppe Murro

«E voglio concludere,» disse il grande scienziato dai lunghi capelli bianchi, «con la mia massima abituale: Due cose sono infinite, l’universo e la stupidità umana, ma quanto all’universo ho ancora qualche dubbio
La sala risuonò degli applausi scroscianti dei molti spettatori – uomini e donne – entusiasti. E quando, dopo alcuni minuti, essa si vuotò, Helene Dukas, la segretaria, si avvicinò a Einstein, e in tono confidenziale gli disse:
«Possibile, Albert, che ogni volta tu debba terminare la conferenza con quelle parole? Sono noiose, dopotutto.»
«Noiose?!... Non sono affatto noiose, mia cara. Ognuno di noi, a cominciare da me stesso, ha bisogno di sentirsele dire, continuamente… Giudica tu, Helene, da quanto m’è capitato di vedere: dimmi se non ci sono stupidi, in gran quantità, sul nostro pianeta.»
«Stupidi in gran quantità, Albert?» La segretaria incrociò le braccia sul petto. «E va bene, sentiamo. Cos’è che t’è capitato di vedere?»
Ed Einstein, dopo essersi alquanto schiarita la voce, prese a raccontare:
«Il signor Bennett, un tizio che abita in fondo alla strada, l'altro ieri girava con una sega in mano e una scala sulle spalle, bofonchiando improperi disgustosi e lanciando occhiate micidiali verso la finestra del suo vicino, il signor Wordfish. Dovevo passare di là e senza volerlo l'ho sentito mugugnare: “Gli faccio vedere io la magnolia… che ci vuole a tagliare dei rami? Sì, sì... guarda pure,” rivolgendosi verso la finestra. Lo vedo poggiare la scala e salirvi sopra, sempre in un mare di brontolii. Si mette a cavalcioni su un ramo e comincia a segare… Signor Bennett, cerco di dirgli, veda che... Mi interrompe con una abbaiata mortale: "Lei si faccia gli affari suoi" e continua a segare… Ma, veda, vorrei solo dirle... "Vada a farsi fottere" mi apostrofa… Allora taccio, vado un po' più avanti e mi fermo a osservare: Bennett sega furiosamente il ramo. Il mio inveterato spirito di fratellanza umana mi spingerebbe a parlargli ancora, ma poi un diavoletto malizioso mi dice: "Aspetta, e taci." Non ci crederesti, ma, mentre Bennett lancia l'ennesima occhiataccia alla finestra, il ramo quasi segato cade... e Bennett con lui. Si era messo dal lato sbagliato, era questo che volevo dirgli… Però, che vuoi, anche gli stupidi sanno segare. E sono miliardi.»

sabato 18 giugno 2016

IN ATTESA CHE ARRIVI FIORENZA (Prima Parte) di Renato Pestriniero


Essi costruiscono con pietre e non si accorgono

che ogni loro gesto per posare la pietra nella calce
è accompagnato da un’ombra di gesto
che posa un’ombra di pietra in un’ombra di calcina.
Ed è la costruzione d’ombra che conta.
(Jean Giono)
 
Il cane si muoveva negli intrichi di arbusti che circondavano la casa, seguendo tracce accessibili solo alla sua sensibilità canina. Dal terreno sbocciò un fiore metallico. I suoi petali si allargarono fulminei e squarciarono il cane.
Duccio
Mancava poco alle tredici. Quando il telefono suonò, lui intuì che era la mamma. Si rendeva conto dell’assurdità, il suono di un telefono non può essere influenzato da chi chiama. Eppure succedeva sempre più spesso.
- È sua madre, dottor Silvestri. Sulla due.
La madre di Silvestri viveva sola, in una delle vecchie case sparse oltre la periferia dove la piattezza del panorama era interrotta dallo spiralare della tangenziale e dai tralicci dell’alta tensione.
- Duccio – disse la voce della mamma. – Sta uscendo. Devi deciderti a venire.
Lui guardò Monica, la segretaria. La ragazza sembrava intenta alla tastiera.
- Cos’è che sta uscendo, mamma?
- Ma il ragno, no? Dal muretto del giardino. Se uscisse del tutto potrei schiacciarlo, ma se ne sta rintanato tutto il giorno dentro la fessura e sol…
- Mamma, adesso non…
- … e soltanto verso sera mette fuori una zampa. A volte ne mette fuori un paio.
- Mamma…
- Lasciami parlare! Fa freddo uscire di sera per scoprire dove vada. E alla mattina è già rientrato nella fessura. Cosa pensi che faccia durante la notte, potrò trovarmelo nel letto?
- No. Verrò appena esco dall’ufficio.
- Bravo. Ma devi sbrigarti, perché se arrivi tardi mica lo vedi.
- Sì, mamma, ho capito.
- Un’altra cosa. Il pallone è pieno di bestie. Mi tolgono la luce. È talmente pieno che non ci vedo nemmeno a camminare. – La voce della donna aveva adesso un tono flebile, lagnoso: – Ho telefonato a quell’altra, a tua sorella, ma non la trovo mai. Sarà appiccicata a qualche schifoso che le sbava addosso, dopo che ho sacrificato tanto per…
- Ci vediamo dopo.
- Duccio mio, prometti che verrai? Sei l’unico che mi può aiutare.
- Ho detto che ci vediamo tra poco. – Duccio incontrò lo sguardo della segretaria.
- Bravo, ti aspetto. Fa presto, Duccio, mi raccomando.
Era tentato di uscire subito, ma doveva completare la pratica in corso. Pregò Monica, nel caso sua madre avesse ritelefonato, di dire che lui era già uscito.
La mamma richiamò dopo mezz’ora.
- Era ancora sua madre. – Disse Monica dopo aver messo giù il telefono. Soffermò lo sguardo su Duccio qualche attimo più del necessario.
Ancora una manciata di minuti, poi non riuscì a trattenersi. Affidò a Monica l’incarico di finire il lavoro. La ragazza fece notare che certe responsabilità non le competevano e che si sarebbe rivolta al dottor Mancini.
- Va bene, faccia come crede.
Duccio si lasciò alle spalle la periferia. Dicembre era appena passato. Un leggero nevischio lo obbligava a usare il tergicristallo intermittente. Nel buio del cielo intravedeva le luci rosse in cima ai tralicci dell’alta tensione. La tangenziale era una fila di lumini gialli che s’involava in una larga curva.
Ancora mezzo chilometro e la casa fu dinanzi a lui, contornata dal muretto sbrecciato, le finestre serrate, apparentemente disabitata. Non usò le chiavi e nemmeno suonò, forse la mamma si era assopita e lui voleva evitarle un risveglio brusco. Bussò nel modo convenuto. Quel suono di nocche l’avrebbe estirpata dal sonno più profondo senza provocarle ansia.
Nessun’altra delle case sparse intorno era più abitata, tutte ridotte ormai a ruderi. Solo la casa dove la mamma si ostinava a vivere era sopravvissuta discretamente.
Un fruscio. Duccio aspettò la solita domanda, poi: - Sì, mamma, sono io. – La porta si aprì facendo strusciare le imbottiture che la sigillavano. Anche le finestre erano chiuse allo stesso modo, listate di gommapiuma e nastro adesivo. Rimanevano così tutto l’anno.
Con lo sbuffo di luce giallastra che lo investì quando la porta fu aperta arrivò anche l’odore della casa, un miscuglio di polvere rappresa, umidità di cotture e un sottofondo dolciastro di sciroppo per la tosse. Non vedeva la mamma da una decina di giorni. La trovò ancora più curva. La malattia le deformava il corpo in modo sempre più deciso. Evitò di accendere la luce grande perché era lei che, eventualmente, l’avrebbe fatto, e lui rispettava il rituale. L’unico chiarore proveniva dalla lampadina da 15W dell’abat-jour sul comodino accanto al letto. Nella penombra, la figura scura della mamma s’inoltrò all’interno della casa, un braccio teso per mantenere il contatto con il muro e i contorni dei mobili. Il termostato era regolato come al solito sui sedici gradi; lei preferiva coprirsi con vecchie robe messe l’una sull’altra che la sformavano ancora di più. Sembrava un enorme carapace che strisciava lento, silenzioso.
- Non accendere la luce – disse la mamma. - Ti faccio vedere il ragno. 
Prese una piccola torcia e si avvicinò alla portafinestra. – Ho fatto un buco all’altezza giusta. Tu guarda attraverso la fessura. – Accese la torcia dopo averla accostata al foro. Un filo di luce trasse dal buio una costolatura del muretto del cortile che lei chiamava giardino. – Vedi? Proprio tra quei due mattoni… quel segno nero è una zampa. Un po’ alla volta esce del tutto e poi scappa e non lo vedo più. Chissà dove andrà a procurarsi il cibo durante la notte. – Spense la torcia. – Pensi che troverà un passaggio per entrare qui?
Duccio sospirò. – Perché non ti metti tranquilla e guardi la televisione, eh?
- Ma l’hai visto? Hai visto come tiene fuori la zampa?
- Sì. Adesso accendi la luce e dimmi cos’altro ti serve che devo scappare.
- Sempre di fretta. Mi sembri quello sgangherato di tuo padre, continuamente alla ricerca di chissà cosa. E quando è diventato matto del tutto, guarda come mi ha lasciata.
- Posso accendere?
- Faccio io. Ma tanto, non si vede niente delle bestie che si sono infiltrate nel pallone.
Dopo che la donna ebbe accesa la luce, Duccio salì su una sedia per staccare il globo di vetro, lo rovesciò nell’acquaio e i corpi rinsecchiti di tre zanzare scomparvero nel tubo di scarico. Rimise il globo. – Ecco fatto.
- Quand’è che mi farai il lavoro in giardino, Duccio? – La voce della mamma aveva ripreso il tono querulo. – Non voglio più vederla quella faccia. Mi ha rovinato la vita e continua a perseguitarmi.
- Ho già parlato con l’impresa. Uno di questi giorni portano il materiale.
- Anche le piante, mi raccomando.
- Certo, anche le piante. – Assicurò Duccio sistemandosi il giubbotto. Si chinò per darle un bacio. Ogni volta doveva chinarsi un poco di più. Dal viluppo che copriva il corpo della vecchia filtrava un odore rancido di capelli non lavati. La baciò sulle guance infossate. Sentiva una specie di singulto vicino all’orecchio dove la mamma teneva appiccicate le labbra.
Luis
- Ma cos’è ‘sta roba, stai sudando come una bestia. Sarai mica malato?
Luis si passò il fazzoletto sulla fronte madida. – Ma che malato, è che fa un caldo qui dentro!
La ragazza lo fissò mettendoglisi scherzosamente a contatto di naso. – Di’, tutta ‘sta faccenda del caldo e del sudore sarà mica perché è la prima volta?
La luce proveniente dall’esterno era appena sufficiente per tratteggiare le loro figure. Solo quando passava una macchina i fari mettevano per qualche attimo in evidenza i particolari. Luis prese dal portaoggetti il pacchetto di sigarette.
- Ennò, adesso ti metti pure a fumare! Credi che abbia tutta la serata per te? Vabbé che non sei da buttar via ma il taim è il monei, come dicono gli americani.
- Io non ti pago?
La ragazza si ridistese sul sedile abbassato. – Ci mancherebbe. Solo che… uno paga più volentieri se rimane soddisfatto. Questa ce la fumiamo dopo, ochei? – Gli si accostò ancora con mossa avvolgente. A pochi centimetri dai suoi occhi, Luis aveva una vaga immagine di volto femminile con una gran massa di capelli scuri e lo sprazzo chiaro di un sorriso. Sentiva sull’inguine il peso del suo corpo che si muoveva con abilità professionale. Passò una macchina. Il volto della ragazza scoppiò in una fuga d’ombre. Luis avvertiva con disagio le gocce di sudore spuntargli sulla fronte, il tessuto fradicio della camicia appiccicarsi sotto le ascelle, il respiro farsi pesante. E il corpo che si stava seminando di macchie rosse. Come al solito.
La ragazza continuava a strofinarsi. – Forse ho capito cos’è che vuoi te, qualcosa di speciale ma non hai il coraggio di chiederlo. Perché allora non vieni da me? Qui va bene appena per una sveltina.
Luis si slacciò il colletto bagnato. – Senti. – disse. - Non è serata. A volte càpita, no? Ecco, prendi e… scusami.
Lei prese il danaro e fece una smorfia che voleva essere buffa.  – Facciamo un altro tentativo? Dài, che col giochetto che la Marisa sa fare così bene…
Il giovane scosse la testa, poi aprì la portiera. La ragazza scrollò le spalle. Prese la pelliccia e scese. Luis mise in moto curvando lentamente per immettersi sulla strada principale. Attraverso lo specchietto vide la ragazza che parlava con le altre. Ridevano.
Duccio
- Dovresti curarti di più, sei sciupato.
Dalla porta e dalle finestre sigillate non entrava nessun rumore, nemmeno il brusio della tangenziale. La televisione era spenta, il bruciatore non ronfava perché il termostato tenuto basso non gli trasmetteva l’ordine di accendersi. Solo dal frigo arrivava una sorta di borborigmo. Erano seduti l’uno di fronte all’altra, lei sulla sedia di vimini con lo schienale alto. In quella sedia aveva ancor più l’aspetto di un fagotto scuro buttato lì in un momento di distrazione.
- Allora, mi dici cos’è che non va? – Insistette la mamma.
- Niente, va tutto bene. Sono solo un po’ stanco.
- Perché non ti prendi una bella vacanza? Un paio di giorni possono bastare… solo che se mi dovesse servire qualcosa… A proposito, non ti ho ancora detto perché ti ho fatto venire qui… ma te lo dirò dopo, adesso parlami di te.
- Che ti devo dire?
La vecchia gli mise una mano sul ginocchio. Solo le punte delle dita uscivano dalla manica del maglione grigioferro. – Duccio, ascoltami, hai la fortuna di essere solo, senza donne tra i piedi che ti succhiano il sangue, niente moglie, niente figli, nessuno dei problemi che rovinano la gente. Perché non ti decidi a venire qui? Avresti spazio, tranquillità… Duccio, mi ascolti?
- Sì, mamma.
- Non so dove abiti, però tua sorella, durante una scappata che si è degnata di fare, mi ha detto che vivi in un paio di stanze con l’umidità che cola dalle pareti.
- Lo sai che lei esagera sempre.
La vecchia non rispose, ma dalla fessura delle labbra stirate uscì un lamento prolungato, appena percettibile. Erano nella stanza chiamata soggiorno perché c’era la televisione. Una bava di luce filtrava dalla cucina attraverso la porta a vetri. Il corpo della mamma oscillava avanti e indietro chinandosi fino a toccare con la fronte la mano che teneva sul ginocchio del figlio. Lui sapeva che sarebbe andata a finire così, succedeva sempre quando sua madre tentava di convincerlo ad andare a vivere lì.
- Cerca di calmarti, altrimenti stai male e devo fermarmi, con tutto il lavoro che ho lasciato in sospeso. – Nel dire questo, Duccio aveva stretto il corpo della mamma e l’aveva tratto a sé. Adesso aveva la sua testa appoggiata alla spalla. Tra le braccia teneva un fagotto singhiozzante. Poi, con lieve sforzo, spostò la vecchia sulle proprie ginocchia e, insieme, continuarono il movimento di ninnananna. Avvertì odore di lana rilavorata, lasciata per anni nell’umidore di una scatola, avvolta in fogli di giornale.
Quando la vecchia si fu calmata, Duccio la depose sulla sedia di vimini. – Allora, perché mi hai fatto venire?
- La lampadina del comodino si è fulminata.
- Potevi metterne un’altra, ne hai un cassetto pieno.
- Non mi va di lavorare con l’elettricità, posso prendere la scossa e il cuore non resisterebbe. Se ci fosse quel pazzo di tuo padre qualcosa riuscirebbe a combinare, anche se dovrei pregarlo. Mi chiedeva cosa avrei fatto quando non ci sarebbe stato più. Lui aveva ben chiara nella sua testa malata l’intenzione di abbandonarmi, e non certo crepando. Sembrava un forsennato nell’inseguire le sue idee strampalate.
Duccio andò nella camera da letto seguìto dalla vecchia che, strisciando lungo la parete, continuava a parlare dell’uomo che l’aveva abbandonata. Nell’osservare la spina, Duccio si accorse che non era inserita del tutto nella presa. La sistemò e premette il pulsante. L’abat-jour si accese.
- Non avevi inserito bene la spina – disse. – Bastava premere un poco di più.
- Tu sei giovane, per te è niente fare sforzi che a me potrebbero costarmi la vita. Sei sicuro di averla messa bene? Mi sembra faccia meno luce. Piuttosto, quando verrai adesso per quell’altro lavoro?
- Appena mi sarà possibile. Intanto hanno portato il materiale. Alle piante ci si penserà al tempo giusto, fra un paio di mesi. Dirò all’uomo di sistemare anche il muretto.
- Non voglio estranei in casa mia, una decina di mattoni sei capace di metterli anche tu. Se abitassi qui potresti lavorare in giardino tutti i sabati e le domeniche e le feste comandate, piantare piante, fiori e anche ortaggi e alberi da frutto. Ma non mi ascolti. Io però quella faccia sul muretto non la voglio più vedere, hai capito? Sono obbligata a tenere chiuso anche da questa parte per non averla sempre davanti agli occhi.
- Ho scrostato il muretto già due volte, mamma, e tu continui a vederla. È solo immaginazione.
- Lo sai che non è vero. È la faccia di quel pazzo di tuo padre che mi perseguita e se ne starà lì fino a vedermi morire.
Duccio
Già nell’entrata cominciò a calpestare fogli di giornale, poi vide che ogni stanza ne aveva il pavimento coperto.
- Si sta sgretolando tutto – gemette la vecchia guardandosi intorno. – Ho messo questi giornali per riparare il pavimento. Adesso che comincia il caldo vorrei aprire qualche finestra ma mica posso far vedere i pavimenti in queste condizioni, anch’io ho il mio orgoglio!
- Che c’entra l’orgoglio, mamma. Sarebbe invece tempo di togliere quella roba incollata sulle finestre e far entrare aria e sole.
- Mio povero Duccio, anche tu ti sei imbarbarito come quella sciagurata di tua sorella che chissà dove è andata a finire e cosa starà combinando! Tu ne sai niente, Duccio? Dillo alla tua mamma se sai qualcosa.
- Ma cosa vuoi che combini, ha il suo lavoro all’ospedale, i suoi impegni. Qualche volta ci sentiamo. So che, quando può, viene a trovarti, a volte si ferma qui a dormire.
- Sarà più di un mese che non si fa viva nemmeno al telefono. Ormai quella è perduta. E anche tu ti sei trasformato se non capisci perché non voglio aprire le finestre e mostrare i pavimenti rotti. E poi, cosa vedrei oltre la tangenziale e i tralicci dell’alta tensione? Ero abituata a ben altri panorami prima di incontrare quell’incosciente di tuo padre. E adesso eccomi qua, nel deserto. Credi che non mi piacerebbe aprire almeno la portafinestra? Ma c’è quel ragno che diventa sempre più gonfio. E adesso mi troverei davanti agli occhi non solo la faccia di tuo padre ma anche le pietre che hai fatto portare e che sono ancora lì. Sai che spettacolo. Quando ti deciderai a tirare su quei due metri di muretto, eh?
Mentre la vecchia parlava, Duccio passava da una stanza all’altra calpestando fogli che gridavano avvenimenti sbiaditi dall’oblio, riviste di moda diventate bizzarrie. – Aspetto i rampicanti – spiegò. – Così sistemo il muretto e metto a dimora le piante. Ti piaceranno, vedrai.
La vecchia lo seguiva. Non avendo la forza di staccare i piedi dal pavimento, stracciava e trascinava i fogli calpestati. La scia di pavimento nudo che generava dietro di sé dava l’impressione di un secreto. Adesso che il grande freddo era passato, si era tolta qualche indumento, mettendo maggiormente in evidenza la stortura dello scheletro.
- Ho dovuto spostare la cucina a gas – disse la donna. – Dalla canna fumaria è venuto giù qualcosa. Bisognerà coprire anche quella.
- Rischierai di soffocare se chiudi…
- Ma dal camino può entrare di tutto! Tu sai a cosa mi riferisco.
- Il ragno?
- Si capisce. Anche se la roba che oggi è caduta dentro la pentola non era il ragno ma una specie di muffa polverosa. Il brodo l’ho dovuto passare, e nel passino è rimasto qualcosa che sembrava fondo di caffè.
- Ma non hai buttato via tutto?
- La roba schifosa sì ma il brodo era buono. Intanto ho spostato la cucina così se viene giù qualcos’altro non andrà a finire dentro la pentola. La fatica! Credevo di morire.
Duccio osservava sua madre mentre prendeva il bricco dallo stipetto, toglieva da una scatola un sacchettino di plastica con del tè, la cui estremità arrotolata era fermata da una molletta. Le sue braccia anchilosate sembravano chele.
La vecchia mise l’acqua sul fuoco. Lui ricordava di aver visto quel bricco da sempre. L’interno del recipiente aveva una crosta di calcare. Sua madre si apprestò a disporre su un piatto i dolci che lui aveva portato. Per qualche minuto nessuno dei due parlò. Nell’aria immobile si percepiva solo il fruscio del gas. Erano le tre del pomeriggio di un sabato. Al di là delle pareti il sole splendeva. Durante il tragitto dal centro, Duccio aveva lasciato i finestrini della macchina aperti, e, subito dopo la periferia, l’aria gli aveva fatto provare una sensazione che ritenne fosse di libertà.
Un ronzio seguìto da un leggero tonfo lo distrasse da quei pensieri. Adesso il ronzio era accompagnato da una sorta di sciacquio. Guardò nel bricco. Un grosso insetto nero era caduto attraverso il budello della canna fumaria e si dibatteva freneticamente. Duccio versò il contenuto nella tazza del bagno e tirò lo sciacquone.
- Non andava bene? – Chiese la mamma.
- Si era staccato del calcare. Questo bricco dovresti buttarlo.
- Va ancora benissimo, è l’acqua che non è più quella di una volta.
- Quando verrò a sistenare il muretto coprirò il camino. Farò una struttura che lasci passare solo il tubo del bruciatore.
La vecchia sedette di fronte a lui, le sue labbra si stirarono in un sorriso. Un braccio intorpidito si protese verso Duccio. Lui lo strinse. (Segue)

 

lunedì 6 giugno 2016

VENERE E PARIDE di Peppe Murro

Stava latrando sul suo sangue sparso, piegato sulla propria ferita come un animale, quando accanto a lui comparve lei, la Dea.
Venere lo guardò con un misto di apprensione umana e di divina solarità, gli sorrise e… Paride, sono tornata…
Il troiano la guardò a fatica... lei, la causa della spada che lo aveva dilaniato e dello strascico di morte che il suo nome aveva portato a Troia…
Non disse nulla, le parole gli dolevano quanto quella visione. Chiuse gli occhi.
La Dea si avvicinò, col suo tocco divino fermò il sangue…sono tornata… e lo guardò in viso…sorrise di nuovo…ti porto una nuova vita e una nuova Elena, basta che tu lo voglia…
Non era certo d’aver capito, istintivamente si strinse la ferita, meravigliandosi di non provar dolore. Aprì gli occhi…
Ora la vedeva, bella e luminosa nel suo fulgore celeste, e tenera e dolce come può esserlo solo l’amore. Rimproverò i suoi pensieri per quella dolcezza, si disse che stava bestemmiando tutti i suoi morti, e le rovine, e la sua città che bruciava… non c’era dolcezza possibile in un amore che portava distruzione e morte, e neppure ad un solo pensiero di dolcezza sentiva di avere diritto: era stato lui ad uccidere Ettore, non la furia greca, ad avvelenare la vita del padre, a scatenare l’ululato di dolore della madre…e tutto per essersi dato a quella Dea, all’illusione di un amore al di là delle cose e degli uomini. Ma gli uomini, che belve feroci!, coltivano rancore e pretendono sangue… e gli dei, compiaciuti  al loro odio…
Si girò verso la Dea, non gli riuscì di sorridere mentre con lo sguardo le chiedeva …perché?, perché il ritorno e la nuova promessa?! A quali altri disastri lo andava votando, a quali altre feroci illusioni?!
Eppure era dolce lo sguardo della Dea, dolce come ogni promessa, dolce e fatale come tutti gli inganni…
Ti porto una nuova vita e una nuova Elena…devi solo accettare di essere di nuovo mio, il mio servo, il mio sacerdote, il mio amante… devi solo adorarmi come una volta… e lo sfiorò con un gesto leggero, e sembrò che sparisse ogni dolore ed ogni pensiero…solo quelle parole gli turbinavano nell’anima…una nuova vita, una nuova Elena…
E fu allora che lo prese l’orrore, una tenaglia amara ed aspra che quasi gli toglieva il respiro…il suo sogno aveva portato morte e desolazione dovunque avesse posato il piede, ed erano morti, affogati nel loro sangue, gli amici, i fratelli, gli Achei sconosciuti e i principi mortali. Per il suo sogno era cresciuto l’inganno del cavallo fino a distruggere la sua città…ora sì, lo sapeva, quel sogno aveva desolato di rovine la pianura in cui scivolava il suo fiume, quel sogno aveva innalzato un monumento di mura fumanti dove un tempo Ettore domava cavalli e le donne troiane si preparavano all’amore. La colpa era solo sua, quella ferita era giusta, e la morte, si disse, era una punizione appena sufficiente.
Guardò la Dea, il suo sguardo meravigliato e offeso, sentì di nuovo dolore e il caldo del suo sangue…era tutto accaduto, la Dea sarebbe tornata a scivolare sulla schiuma del mare, ed Elena ad essere la moglie infedele che era.
Respirò come un grido, per l’ultima volta.