mercoledì 6 marzo 2013

COLORE E PROFUMO DELL'INVASIONE di Giuseppe Novellino

                            

     - Mamma, mamma, guarda che bel fiore!
     Era proprio bello, di un giallo luminoso. Una specie di croco con quattro petali oblunghi, disposti a formare un calice da cui emergevano lunghi stami violacei che sembravano antenne. Lo stelo appariva come un flessibile, delicato tubicino di plastica, ed era trasparente.
     Nel tenerlo in mano, la piccola Cecilia faceva fatica a mantenerlo eretto. Il calice, infatti, tendeva a reclinarsi come il capo di un moribondo.
     - Vado a metterlo in camera mia - dichiarò la bimba.
     La mamma le dedicò un tenero sorriso e tornò al suo lavoro.
     Era sabato mattina, una bella giornata di fine settembre, e lei doveva fare le pulizie settimanali. Il tempo era particolarmente bello e quindi propizio. Non si vedevano ancora i colori dell'autunno; la vegetazione, anche se snervata dai calori estivi, manteneva tutto il suo aspetto rigoglioso.
     La vecchia  e graziosa casa ristrutturata, con il giardinetto raccolto, era adagiata sulle colline toscane, tra cipressi e uliveti dagli argentei riverberi.
     La mamma di Cecilia, immersa nel suo lavoro, dimenticò per un paio d'ore la bambina. Sapeva che se ne stava in camera per delle ore, immersa in un mondo tutto suo, tra i suoi giocattoli, i suoi libri illustrati e il piccolo computer che le permetteva di allargare gli orizzonti della fantasia. La mamma a volte si dimostrava un po' preoccupata per quella tendenza all'evasione solitaria, ma suo marito la tranquillizzava, dicendo che Cecilia sarebbe diventata una pittrice, una poetessa o magari una regista cinematografica di fama.
     Quando, verso mezzogiorno, lui arrivò, teneva in mano un fiore giallo.
     - Hai mai visto qualcosa di tanto strano? - domandò, porgendilo alla moglie.
     Era un croco dallo stelo trasparente, come quello che aveva raccolto Cecilia.
     L'uomo lo lasciò cadere sul tavolino del salotto e si tolse la giacca. - Ne è pieno là fuori.
     - Dove?
     - Intorno al cancelletto e nell'aiuola dei tulipani. Ma mi sembra di averne visto anche lungo i bordi della strada.
     - Cecilia ne ha raccolto uno, questa mattina.
     Come se le parole della donna fossero state un richiamo, Cecilia comparve in cima alla scala.
     - Mamma, papà - disse con voce triste - il mio bel fiore è morto.
     Il fiore di Cecilia non si era limitato ad appassire. Si era trasformato in un orrendo grumo di fibre vegetali. I quattro petali erano raggrinziti e avevano assunto un colore grigiastro, lo stelo si era avvolto su se stesso e aveva perso tutta la sua trasparenza.
     - Ma fuori ce ne sono tanti altri - cercò di consolarla il padre.

    
     A metà pomeriggio tutti, nella contrada, parlavano dello strano fiore.
     Spuntava ovunque.
     Formava macchie di un giallo brillante. I calici ondeggiavano dolcemente sugli steli trasparenti, anche negli angoli più riparati, dove non soffiava il minimo alito di brezza.
     La casa vicina a quella di Cecilia sembrava ora completamente adagiata su un giallo tappeto.
     La gente si affacciava ai balconi, discuteva, mormorava. Qualcuno, armato di bastone andava qua e là calpestando i fiori, cercando di decapitarli con rabbiosi fendenti. Ma ovunque questi rispuntavano a vista d'occhio.
     Poi si cominciò a sentire lo strano profumo.
     Era gradevole ma non assomigliava a qualcosa che venisse dal mondo vegetale conosciuto. La sua intensità cresceva molto lentamente e non era proporzionata alla quantità della gialla fioritura.
     - È uno spettacolo incredibile! - esclamò Cecilia, il naso premuto contro il vetro della finestra serrata.
     Il crinale della collina di fronte era venato di un giallo brillante, reso ancora più splendente dai riflessi del sole calante.
     Mamma e papà erano preoccupati per ciò che stava avvenendo là fuori. Avevano chiuso tutte le imposte dopo che si erano dichiarati perplessi per quel delicato e innaturale profumo. Papà aveva commentato che forse si trattava di una specie di scompenso ecologico, un fenomeno dovuto all'inquinamento.
     - Prima o poi doveva capitare - disse. - Vedi, Cecilia, la natura si sta ribellando.
     - Ma in che modo? - fece la bambina. - Regalandoci questo bel fiore giallo dal profumo dolcissimo?
     La mamma era inquieta. Continuava a fare telefonate e a riceverne. Tutte avevano a che fare con l'incredibile fenomeno che stava davanti agli occhi di tutti.
     Quella sera ne parlarono al telegiornale.


     La mattina dopo, Cecilia si svegliò in una cameretta rischiarata da una calda luce giallastra. I raggi del sole esaltavano il colore dei fiori che ricoprivano come un'insolita nevicata ogni angolo del paesaggio. Crescevano anche nelle crepe dell'asfalto e del cemento.
      Aprì la finestra e fu colpita dal dolce profumo. Era diventato intenso e quasi toglieva il respiro.
      Richiuse le imposte perché le era venuto una specie di capogiro. Poi andò nella camera dei suoi genitori.
       Erano seduti con la schiena contro la spalliera del letto e si tenevano vicini l'uno all'altra. Guardavano verso l’apertura, la cui tapparella era sollevata a metà.
       - I fiori hanno invaso tutto - annunciò Cecilia.
       - Non aprire le finestre - la avvertì la mamma, con una sfumatura d'isteria nella voce.
       - Lo so - fece Cecilia - il profumo è diventato molto intenso e toglie il fiato.
       Papà, intanto, aveva cominciato ad armeggiare con la radio sveglia.
        Si sentivano fischi e raschi d'ogni genere. Le stazioni sembravano tutte disturbate.
       Improvvisamente una voce, un frammento di notizia.
        "....ne è stato individuato un altro, ad est di Parma. Si tratta di un immenso fiore dai petali gialli, oblunghi, sorretti da uno stelo trasparente. Potrebbe essere alto almeno duecento metri ed emana non un profumo ma delle radiazioni visibili ad occhio nudo. Anche in quella località non si hanno notizie della popolazione residente. Invece sono segnalate colonne di persone che si stanno convergendo, a piedi, verso l'immenso fiore giallo. Probabilmente anche là..."
      La voce si interruppe bruscamente.
      - Che sta succedendo? - gemette la mamma allungando le braccia verso Cecilia.
       Cecilia si sottrasse all’abbraccio.
       Andò, invece, alla finestra.
       Alcune persone camminavano lungo la strada, tutte nella stessa direzione. C'era qualcosa, nel loro camminare, che non aveva nulla di normale. Cecilia ricordò il modo di procedere di quelle persone morte che mangiavano la carne dei viventi. Le aveva viste in un frammento di film alla tivù e ne era rimasta terrorizzata.
      Ebbe un sussulto.
      Suo padre era dietro di lei e mise le mani sulla maniglia dell’anta, per impedirle di aprirla.
      La mamma, sul letto, cominciò a singhiozzare.
     
                                             (Per gentile concessione dell’Autore)

 

    

                         

martedì 5 marzo 2013

IL BOSCO INCANTATO di Sergio Bissoli




Ho accettato l’incarico di riordinare la biblioteca nella villa della marchesa Dionisi.
La marchesa è vecchia e non la vedo quasi mai. Una cameriera vecchissima mi prepara da mangiare e a volte resto qui anche a dormire. Nelle ore di libertà scendo giù nell’orto per fare una passeggiata.
I libri sono centinaia. Tutte rare edizioni in pergamena, alcuni con serratura in rame e punte di ferro. Gli autori: Eliphas Levi, Crowley, Kremmerz, Barret, Papus, Kardec, Gardner, Blackwood, Frank Graegorius, trattano spiritismo, magia e stregoneria.
Un pomeriggio di maggio, stanco di catalogare libri, esco per fare una passeggiata.
Il giardiniere, che è anche guardiano, è un vecchietto rustico con berretto e un paio di stivali pieni di pezze. Lo guardo mentre zappa le cipolle con incredibile lentezza fischiettando un motivo. Le aiole sono piene di erbacce e sulla ghiaia crescono le ortiche. Quell’uomo è troppo vecchio e non riesce a badare a tutto.
L’orto è chiuso sul fondo da un cancello altissimo che lo divide da un bosco di alberi secolari. Già da alcune settimane provo il desiderio di entrare nel bosco ma il giardiniere trova mille pretesti per rimandare. Oggi, per esempio, mi dice che non può aprirmi perché non trova più la chiave.
Così gironzolo un po’ a caso finché trovo una apertura nell’alta siepe di caprifoglio. Aspetto che l’uomo mi volti le spalle per entrare nel bosco.
Corro su una grande radura con al centro frassini secolari. Arrivo a un varco tra gli alberi, come una specie di porta. La attraverso e sono accolto da una pioggia di aghi di pino.
Ci sono alberi grotteschi che assomigliano a ragni velenosi. Seguo un sentiero che passa vicino a un canneto. Poi il sentiero discende fino a costeggiare un laghetto.
Mi siedo sulla riva e guardo le grandi ninfee bianche sull’acqua scura. Al centro c’è un’isola con i ruderi di un tempietto coperto di erba. Lancio alcune pietre nell’acqua e guardo i cerchi che si formano e si espandono. I cerchi d’acqua danno vita a ondine fluide ed effimere.
Con la coda dell’occhio mi pare di scorgere delle persone vicino a me. Mi giro, ma non c’è nessuno. Questo succede due o tre volte. Così mi impongo la immobilità più assoluta e mi sforzo di osservare senza girare la testa.
Dopo un po’ rimango allibito per la sorpresa. Vedo ragazze nude che ridono e si tengono per mano. Sono al limite del mio campo di visuale. Quando mi pare che stiano per allontanarsi mi muovo appena e tutto scompare.
Resto ancora immobile finché intravedo di fianco a me una ragazza nuda con i lunghi capelli verdi. Il volto bellissimo mi guarda con una espressione perfida. Mi giro e lei con uno scatto si ritira. Di sicuro sulla riva c’è solo il gioco di luce ed ombre delle fronde mosse dal vento.
Mi rimetto in cammino. Il sentiero prosegue in mezzo a gelsi vecchissimi con tronchi tozzi di dimensioni colossali. I raggi di sole entrano a fatica, obliquamente e creano bizzarri chiaroscuri.
Nell’ombra qualcosa si muove. Mi fermo restando a guardare. Non c’è nessuno.
All’improvviso da dietro un tronco sbuca qualcuno, un bambino mi pare, ma con la faccia da vecchio. Corre a nascondersi velocemente dietro un altro tronco. Dopo un po’ altri due strani esseri piccoli e rugosi corrono a nascondersi dietro ai tronchi. Sono vestiti di corteccia di albero così da confondersi alla vista e si muovono velocissimi.
Ancora mezzo incredulo resto stordito dalla sorpresa. La mia mente è come intorpidita e rifiuta di riflettere. Poi, un pensiero si impone di colpo: il bosco è popolato dagli gnomi!
Il crepuscolo ristagna sullo sfondo del cielo in strisce di luce arancione. Devo uscire al più presto da questo posto, devo ritrovare la strada per tornare indietro.
Olmi e faggi sono curvi e fortemente piegati. Dal fondo di una grotta escono fiammelle che si muovono galleggiando a mezz’aria.
Mi accuccio il più possibile dentro a un cespuglio di bosso e resto in attesa. Misteriosi personaggi vestiti di nero sfilano in processione dirigendosi nel folto. Sono avvolti in lunghi mantelli neri. Alcuni di loro recano in mano una torcia accesa, e dove la manica è scostata si intravede un braccio di scheletro. Passano davanti a me ed io aspetto che sia scesa l’oscurità per osare a muovermi.
È una notte quieta, bianca di luna. Il senso di solennità è accentuato dal coro lontano dei grilli.
Cautamente mi incammino fra le avene selvatiche della radura. Passo vicino a una fontana: una Venere si bagna dentro una conchiglia fra le gocce d’acqua che scintillano come gemme.
Oltre i pioppi mossi dal vento vedo l’ombra angolosa della villa. Sembra una cattedrale e crea fantomatici disegni sul prato. A quella vista provo una grande gioia e accelero il passo.
Sotto alcune magnolie ci sono vasche con ninfee e fior di loto che dondolano al vento. Un fiore è particolarmente grande e mi avvicino incuriosito. Quando il vento lo inclina verso di me mi pare che assomigli a una testa... I petali del fiore ripetono la mia faccia, ed io sto guardando un altro me stesso, ma con i lineamenti più vecchi e furbeschi.
Lancio un grido di orrore correndo via attraverso il prato. Nel delirio vedo passare uccellacci neri davanti al disco bianco della luna, o forse sono streghe che cavalcano manici di scopa. Entro nella siepe di caprifoglio lacerandomi la camicia e infine corro a rifugiarmi nella mia stanzetta.
Quando esco al mattino dopo vedo il giardiniere seduto sul bordo del letamaio che sta fumando la pipa. Vorrei raccontargli subito che cosa mi è successo e chiedergli delle spiegazioni, ma mi manca il coraggio di incominciare. Lui mi guarda in maniera strana, come se sapesse, poi sorride maliziosamente:
“Ha avuto fortuna ieri sera?... con il suo lavoro.”
Senza aspettare la mia risposta prende in mano la zappa e incomincia a zappare. Dalla sua espressione intuisco che anche lui conosce il segreto del bosco e mi invita a mantenere il silenzio.

                   (Per gentile concessione dell’Autore)


lunedì 4 marzo 2013

UNA PRECE di Paolo Secondini



 

Il capo chino sul petto e le mani congiunte, l’uomo era in piedi davanti a una tomba nel vecchio cimitero comunale. Stava lì da circa mezzora, immobile, in perfetto raccoglimento.
   I raggi del sole morente accendevano vivacemente le tinte violette, rosse e ocra delle cappelle; attenuavano il freddo biancore delle lapidi, semplici o monumentali.
   Una brezza leggera spargeva nell’aria un odore di ceri e di fiori, e su tutto regnava un silenzio assoluto, rotto soltanto dal cinguettio degli uccelli, che compivano gli ultimi voli sul far della sera, e dall’ovattato tubare dei piccioni.
   A un tratto l’uomo si mosse, alzò il capo: aveva gli occhi arrossati dal pianto. Si chinò lentamente per aggiustare dei crisantemi in un vaso di vetro presso la tomba; si raddrizzò, restò fermo, con un’espressione compunta.
   «Mio caro,» esclamò, dopo qualche momento, con voce commossa, «quanti anni sono passati!... Tanti, tantissimi!... Ormai non si contano più… Ma il tuo viso, il tuo carattere mite, il tuo cuore leale e generoso resteranno impressi per sempre nella mia mente… Come vedi, sono qui tutti i giorni, con qualsiasi tempo, a pregare dinanzi alla tua tomba, da quando lasciasti questo mondo per raggiungere i Pascoli del Cielo. Sono qui a ricordarmi di te, dei tuoi sogni, dei tuoi ideali, di tutto ciò che di buono hai saputo, in vita, donare agli altri. Chi ti ha conosciuto non può che rimpiangerti, come faccio ogni istante della…»
   Un rumore improvviso alla sua destra interruppe quel soliloquio. L’uomo volse la testa e vide avvicinarsi, nelle loro stinte divise azzurrine, due anziani custodi del cimitero.
   Uno di essi, passandogli accanto, disse, in tono cortese:
   «Signore, è l’ora di chiusura.»
   L’uomo non rispose, si limitò ad annuire chiudendo le palpebre. Poi si segnò, inchinandosi, e a passi veloci si diresse verso l’uscita, superando i custodi che rimasero fermi a osservarlo. 
   «È qui ogni sera,» disse uno dei due, «a pregare davanti a una tomba vuota.»
   «Già!... Ma nessuno riesce a fargli capire come stanno le cose?»
   «E chi potrebbe riuscirci?»
   «Che vuoi che ti dica!... Chi lo cura da tempo, per esempio.» 
   «Non si cura né si guarisce dalla pazzia. Quell’uomo è  completamente pazzo, e tale resterà fino agli ultimi giorni della sua vita.»
   «Peccato! Un così distinto signore, educato e gentile con tutti.»
   «Proprio vero! Ma almeno non è pericoloso, né per sé né per gli altri. Non è, insomma, quel che si dice un matto da legare.»
   «È per questo che lo lasciano andare e venire liberamente.»
   «Specie qui, al cimitero, dove prega sopra una tomba che crede la propria, nella quale, a sentir lui, il suo corpo riposa da più di trent’anni.»

domenica 3 marzo 2013

L'INTERVISTA: Vincenzo Di Pietro





Letteratura Fantastica ha intervistato lo scrittore Vincenzo Di Pietro, autore di alcuni romanzi molto apprezzati, tra cui Una strada buia (1992), Editrice Italica; Di notte (1993), Edizioni Tracce; Zona di guerra (2004), Edizioni IRIDE-Rubbettino; Non c’è più tempo (2006), Edizione del Giano; Una condanna (2010), Arduino Sacco Editore, Senza te (2011), Baraonda! (2012), Leone Editore.
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D.  Come nasce la tua passione per la scrittura?

R. Nasce dal fatto che, già da bambino, destinavo la mia paghetta per ogni nuovo romanzo di Stephen King, Clive Barker e altri autori capaci di aprire mondi fantastici nella realtà. Con il tempo ho allargato la “cerchia” delle mie “amicizie” e oggi combatto con lo spazio per custodire i miei libri…

D.  Della narrativa fantastica prediligi la fantascienza. Quali rapporti hai con gli altri generi, per esempio l’horror, il gotico, il weird?

R.  Credo che il genere fantastico sia il frutto di una contaminazione tra le trame horror, gotiche e fantascientifiche. Ho amato molto i romanzi di Crichton, dove fatti assolutamente reali sono utilizzati per disegnare scenari inquietanti e plausibili. A giugno, per i tipi della Leone Editore, nascerà il mio nuovo romanzo, IL NUMERO DI DIO, un bel “mattoncino” che, attingendo da notizie vere, propone un’ipotesi parecchio inquietante sul nostro futuro e sul rapporto con la fede.


D.   Da chi o che cosa t’ispiri per la tua narrativa?

R. Continuo a pensare che la scrittura sia un’esigenza insopprimibile. Le storie nascono dalla necessità di trascinare sulla carta un’idea, che si forma lentamente e con sofferenza attraverso la dedizione e il sacrificio anche fisico.


D.  Chi è lo scrittore Vincenzo Di Pietro?

R.  Un “ragazzo” che ha cominciato a scrivere con una Olivetti, quando non era ancora tempo dei Word scritti e che, dopo aver pubblicato il suo primo romanzo, si è ubriacato con uno spumante economico che sapeva di tachipirina. Oggi, a trentotto anni, dopo sette romanzi pubblicati e parecchi reading in giro per l’Italia, continuo a sentire il bisogno di creare storie, a volte strutturate, a volte istintive, sperando che appassionino i miei lettori.



sabato 2 marzo 2013

NOTTE DI TEMPESTA di Sergio Bissoli

                                  



La sera di novembre è cupa e piovosa.
Il villaggio appare deserto poiché nessuno osa uscire di casa. Una pioggia torrenziale sta cadendo da ore e la bufera non accenna a diminuire. Le pozzanghere in certi punti arrivano fino al centro della strada e i fossi sono straripati.
Cammino, immerso nei miei pensieri. Non so se sono ancora in tempo per salutare Sarah prima che sia già partita. È stata la mia compagna di giochi per tanti anni ed ora anche lei se ne va; lascia per sempre il paese.
Cammino abbassando il parapioggia per proteggermi dagli scrosci di acqua spinta dal vento. Nel mio animo c’è una grande tristezza, quasi un senso di impotenza e di annientamento.
La casa di Sarah sta isolata fuori dal villaggio. Nella notte piovosa è solo un’ombra scura e priva di vita. Due finestre piccole al piano superiore risplendono fiocamente come lumi.
Busso alla porta bagnata cercando riparo sotto all’architrave. Poi provo a chiamare ma la mia voce si disperde nel vento.
In silenzio la porta si apre un poco, quanto basta per lasciarmi passare. Appena entro nella saletta la vedo: Sarah indossa un vestito bianco e ha i lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle. In mano tiene una bugia di ottone con una candela accesa. Nei suoi occhi c’è smarrimento e paura.
Rinchiude mettendo i catenacci mentre io deposito in un angolo il parapioggia che forma subito una pozzanghera sulle mattonelle. Mi guardo intorno: la saletta vuota sembra più piccola. I mobili sono già stati portati via, è rimasto solo un baule e alcune valige.
Senza parlare Sarah mi fa cenno di seguirla. Attraversiamo la cucina, dove abbiamo trascorso pomeriggi a giocare fra il borbottare dei nonni e l’abbaiare dei cuccioli. Ora che sono partiti tutti è solo una stanza priva di vita, fredda e vuota.
Con movimenti flessuosi la ragazza sale le scale ripide di legno tenendo alta la candela. La fiamma tremolante scava ombre paurose sulle pareti. La pioggia di novembre cade sui tetti con un rumore insistente, monotono.
Lei apre una porta del corridoio. Mi fa entrare in una cameretta semibuia rischiarata dalla luce rossastra del camino. É rimasto solo il letto, un tappeto e un telaietto da ricamo. Uno specchio ovale sta attaccato al muro.
Vado davanti al camino acceso per asciugarmi. Anche lei si curva sul fuoco senza parlare. Il suo corpo esile è scosso da brividi di freddo. Dalle finestre piccole vedo il buio oltre i vetri ruscellanti di pioggia.
Nella notte da tregenda restiamo ad ascoltare il fischio del vento e lo scroscio incessante della pioggia. Si odono scricchiolii, piccoli tonfi, gemiti... La casa pare animata e vibra sotto la spinta delle raffiche. Ci sentiamo completamente soli quasi fossimo gli unici esseri rimasti al mondo. Ci sentiamo sperduti, in balìa delle forze della natura.
Un topo corre in fondo alla stanza e va a rifugiarsi in una fessura. Fuori nella notte buia ci sono solo i démoni in ascolto e abbiamo paura di parlare.
Il corpo di Sarah è curvo sul fuoco alla ricerca di calore. I capelli le ricadono sul viso come una pioggia di seta. Il vento ulula dentro alla cappa del camino, fa salire le faville, disperde la cenere.
Con il passare del tempo ci sediamo sul tappeto. Il freddo ci fa stare più vicini. Il suo volto stupendo ha una espressione seria, quasi implorante. Solo con gli sguardi comunichiamo la sofferenza delle nostre anime.
La notte sembra non dover finire mai. All’improvviso negli occhi di Sarah scorgo lampi di desiderio e paura. Riconosco tutto l’erotismo dell’adolescenza, solo sognato e intuito.
Le sue labbra con gli angoli piegati verso il basso sussurrano alcune parole, come una preghiera:
“Baciami, amore baciami, e non fermarti mai...”
Nel silenzio grave che segue, le sue parole lasciano un’eco di perle che cadono nel latte.
Timidamente ci prendiamo per mano. La guardo negli occhi ed è come se vedessi in fondo alla sua anima.
Il primo bacio è solo uno sfiorare di labbra. I capelli hanno riflessi d’oro. Le sue lunghe mani vellutate tremano.
Lentamente l’attiro sempre più vicino fino ad abbracciare il suo corpo soffice.
***
É molto tardi. É quasi l’alba.
Devo andarmene per non essere sorpreso dai parenti che verranno a prendere Sarah e a caricare le cose rimaste.
Le prime luci del mattino illividiscono il cielo. Sulla porta le dico un ultimo ciao senza ricevere risposta. Dopo la notte d’amore vado a casa e rimango a letto fino a tardi.
Verso mezzogiorno un tiepido sole illumina la campagna. Dalla mia finestra guardo le gocce di pioggia scorrere sul vecchio muro della casa di fronte, come lacrime.
Mi vesto in fretta ed esco in strada di corsa. Forse sono ancora in tempo per vedere Sarah per l’ultima volta. Il cielo è tutto un ribollire di nubi bianchissime, spumose in mezzo a torri di cristallo.
Raggiungo la sua casa ma le finestre sono tutte chiuse. Nel fango della strada sono impressi i segni delle ruote. I parenti sono venuti a prendere anche lei e adesso sono partiti tutti.
Camminando piano ritorno indietro. Tutto è finito. Una parte della mia vita se ne è andata per sempre.
A est nubi a raggiera dilatano il cielo. Anche se l’inverno è vicino c’è nell’aria come un senso di speranza.
Spero che il futuro sia sempre per me come una pagina bianca.
                   
  (Per gentile concessione dell’autore)




venerdì 1 marzo 2013

L'ULTIMA NOTTE STELLATA di Giuseppe Novellino

                            



     La sera era rigida, ma limpida.
     Una brezza pungente accarezzava le case di periferia, le piante scheletrite, le panchine gelate.
     Sarebbe stata una notte di plenilunio.
     Moana si era ritirata sul tetto del brutto palazzo, dove viveva con la mamma diabetica e un padre cerbero. Stava con tutto il suo dolore, con il braccio pieno di buchi e il bimbo che le cresceva nella pancia. Da tre anni Moana uccideva la mamma e trasformava il padre in un cupo nemico. E lui la picchiava.
     A diciotto anni con un figlio. Fatto con Luca, con Roman o con Mick? Non c’era molta differenza, perché tutti e tre erano out, ai margini, falliti e tossici… come lei. Se suo padre l’avesse saputo, l’avrebbe uccisa.
     La luna e le stelle risplendevano nel cielo terso.
     Si stava bene lassù, sopra i tetti delle case di periferia, a contemplare il nero cielo infinito. Eppure una lacrima spuntò sul viso scarno di Moana.
     Che bella notte per morire! Una notte limpida e fredda come la morte.
     Lei e la sua creatura avrebbero fatto il volo definitivo, sotto quel cielo stellato. Il suo corpo sarebbe finito vicino a una malferma panchina, sull’orlo del parcheggio; ma lassù sarebbe rimasto a risplendere il firmamento.
     Sentì uno strano calore accarezzarle la schiena. Si voltò e lo vide.
     Era brutto, anzi spaventoso, ma non incuteva paura.
     Si sedette accanto a lei e si mise a guardare il cielo stellato.
     - Chi sei? – chiese Moana.
     Non rispose.
     Era inguainato in una nera tuta di pelle, come un motociclista. Il naso adunco, il mento prominente, da vecchio. La guardava con due occhi sporgenti in un viso butterato. I capelli, radi ma lunghi, svolazzavano alla gelida brezza.
     Solo dopo un po’, l’uomo disse:
     - Non ti conviene farlo. Non in una notte come questa.
     - Perché?
     - Questa è l’ultima notte.
     - L’ultima notte… per chi?
     - Per tutti.
     Continuò a guardarlo con espressione interrogativa.
     - Arsenico.
     - È questo il tuo nome?
     - Sì.
     - Non ho voglia di starmene ad ascoltare le tue fesserie. Non riuscirai a trattenermi.
     - Tu dici?
     - Sì… dico.
     Silenzio. Solo gelide folate si rincorrevano sui tetti degli squallidi caseggiati.
     Poi le stelle si fecero più vivide. Moana non sentiva più freddo.
     - Cominciano a soffrire – fece l’uomo.
     - Chi?
     - Le stelle.
     Tra le mani dell’uomo si materializzò una nera coperta. - La vedi?
     - Quello straccio?
     - Ti do l’onore di piegarla.
     - Chissà quale onore! – disse acida Moana.
     - Ma questa non è una coperta qualsiasi.
     - Ah no, e che sarebbe?
     Arsenico non rispose.
     Si udì l’urlo lacerante di una sirena, laggiù nell’intrico delle strade.
     - Io ho scelto te, Moana.
     - Mi hai scocciato – mormorò la ragazza. – Lasciami in pace.
     Adesso le stelle erano incredibilmente brillanti. Il cielo sembrava illuminato, come se fosse il fondale di un immenso presepe. Il tetto del palazzo era avvolto in un chiarore spettrale.
     - Tu vuoi scendere da questo palazzo, ma lo farai come voglio io.
     - E come? – fece lei incuriosita.
     - Scenderai per le scale, lentamente, ma solo dopo avere piegato questa coperta.
     Moana lo fissò a lungo. Adesso si sentiva affascinata da quella presenza.
     La luce delle stelle proiettava ombre sul viso dell’uomo.
     Poi la ragazza prese la coperta e cominciò a piegarla, con cura.
     Alla fine levò lo sguardo sull’uomo, ma lui non c’era più. Poi osservò la coperta, ben piegata. Su di essa appariva una frase a caratteri luminosi:

Una ragazza madre ha piegato la coperta.
In questa ultima notte. La notte di Arsenico Stellare.


     Vetri infranti, urla, stridore di freni, una forte esplosione… e crolli in lontananza.
     Poi Moana cominciò a scendere le scale.

                                                      (Per gentile concessione dell’autore)