Il vento spostava le nuvole a gran velocità, creando un
gioco di ombre in movimento sulla pianura sottostante, rigogliosa di
fili d'erba che si piegavano come accarezzati da una mano invisibile.
Una superficie all'apparenza morbida, ma colma di spighe e rametti
che intrufolavano le punte dentro i calzettoni bianchi e irritavano
la pelle. Nicholas si grattò la caviglia con il fianco della scarpa
e tornò immobile, le gambe da stambecco in tensione nell'attesa
dello scatto. I riccioli, piccole fiamme, gli frustavano il viso
pallido punteggiato di efelidi. Non era ancora il momento. Non voleva
rovinare, con una partenza incauta, tutto il lavoro.
A sinistra il canneto costeggiava il fiume e ne chiudeva
la vista. Era lì che Nicholas aveva cercato due canne, resistenti e
flessibili, che avessero il diametro del suo dito mignolo. Alla sera
aveva chiesto aiuto al padre per tagliarle, legarle e rivestirle di
carta rossa. Aveva dato all'aquilone la forma classica a losanga. Più
tardi, nella sua cameretta, l'aveva rifinito, aggiungendo tre frange
di filo, cui aveva legato dei fiocchi di carta velina gialla e
azzurra. A lavoro ultimato si era concesso un sorriso enorme e nello
specchio a forma di dinosauro erano apparsi i due incisivi inferiori,
che stavano ricrescendo, e la finestra lasciata da quello superiore,
che aveva perso due giorni prima.
Il vento aveva smesso di girare in tondo, come un
gattino che insegue la coda, e tirava forte in un'unica direzione.
Nicholas si buttò avanti, nella mano destra l'aquilone, nella
sinistra il rocchetto con il filo. Il cuore gli balzava in petto al
ritmo delle sneakers che battevano il terreno. Lanciò l'aquilone,
che oscillò nel vento e prese quota: una macchia cremisi
nell'azzurro sfilacciato del cielo. Gonfiò il petto, troppo
emozionato per sorridere.
Ti veglierò dal cielo. Le
parole della mamma gli
si formarono nella mente, con il timbro della sua voce carezzevole e
gli sembrò di sentire la mano di lei che gli scuoteva i ricci.
Il mio fuoco, lo chiamava. Per questo lo
aveva fatto rosso: se la mamma era vento, l'aquilone era la chioma di
Nicholas da scompigliare ancora una volta.
Le lacrime affiorarono sul ciglio degli occhi e lui ci
passò sopra il dorso della mano. Grosso errore! Aveva permesso al
filo di allentarsi e l'aquilone stava sbandando. Nicholas lo
strattonò e ne perse il controllo. Lo vide avvitarsi e precipitare
nel canneto.
– Por... – Si bloccò. A mamma non piaceva che lui
dicesse le parolacce.
Corse al canneto. Si mosse di spalle, per incunearsi
negli spazi sottili lasciati dalle canne, un braccio alzato a
proteggere il viso dal contatto con le foglie. Arrivò vicino al
fiume, in una zona dove si apriva una piccola radura. L'aquilone era
lì, illeso.
Mancava poco a raggiungerlo, ma appoggiò il piede sopra
a una zolla di terreno franoso, storse la caviglia e scivolò lungo
la pendenza che conduceva al fiume. La mano cercò a vuoto degli
appigli e la caviglia, già provata dalla storta, incontrò lungo la
corsa un ostacolo pungente e duro che fece urlare Nicholas di dolore.
Strinse la mano attorno a uno spuntone di legno e tenendosi a quello
arrestò la sua corsa, finendo con le gambe dentro al fiume. Fece
leva sui gomiti per issarsi fuori dall'acqua. La mano destra, sporca
di terra, era graffiata in più punti e dove i graffi erano meno
superficiali usciva qualche goccia di sangue. Bruciava. Era bagnato
dalle ginocchia ai piedi, aveva i pantaloni fradici avviluppati alle
gambe e sentiva l'acqua muoversi dentro le scarpe. Ma il vero macello
era nella caviglia destra: provava un dolore costante e fitte acute
al minimo movimento. A quell'altezza i pantaloni erano strappati in
un lungo taglio e sulla tela beige si andava allargando una chiazza
di sangue.
–... ca vacca! – sbottò Nicholas. Attese che il
dolore si attenuasse, per alzarsi e tornare a casa, ma più il tempo
passava e più la caviglia diventava gonfia e dolente. Non ce
l'avrebbe fatta, da solo, ad andare via da lì. E di sicuro suo padre
non l'avrebbe cercato prima di cena, credendolo a giocare con gli
amici. Quanto tempo doveva passare prima che desse l'allarme? E
quanto, prima che qualcuno lo cercasse nel canneto?
– Aiuto. – Il grido gli uscì strozzato. Schiarì la
voce, urlò più forte: – Qualcuno mi sente? Sono qui!
Trattenne il respiro, le orecchie tese a cogliere un
segnale. Udì solo il fruscio del vento tra le canne e lo scorrere
del fiume.
– Aiuto! – gridò ancora, poi si accasciò a terra e
scoppiò in pianto.
Qualcosa lo pizzicava. Il pianto l'aveva estraniato, non
avrebbe saputo dire per quanto tempo era restato incosciente a se
stesso. Alzò
il viso, impastato di lacrime e terra, e tornò a sedersi. C'era un
nugolo di zanzare che ronzava attorno alla caviglia insanguinata.
Estrasse dalla tasca il fazzoletto di stoffa. La mamma non mancava
mai di mettergliene uno pulito nella tasca dei pantaloni, e da quando
lei non c'era più era lui stesso che si ricordava di farlo, più per
ripetere il gesto della mamma che per la reale necessità di avere
con sé un fazzoletto. Lo aprì e lo sventolò sopra alla caviglia,
per disperdere lo sciame. Una zanzara era rimasta appoggiata.
Avvicinò la mano: tre, due, uno... presa! Strinse i denti mugolando:
darsi uno schiaffo sulla caviglia non era stata l'idea del secolo.
Il cielo si era fatto di un azzurro più denso e opaco.
Era ancora chiaro, ma non avrebbe tardato a imbrunire. E lui non
voleva trovarsi lì quando fosse venuto buio. Chissà quale altra
razza di animali schifosi si nascondeva nel canneto. Suo padre un
giorno gli aveva detto di aver visto dei topi. E se ci fossero stati
i serpenti? I coccodrilli dentro il fiume? Se fosse arrivato un lupo
a mangiarselo vivo? Le lacrime gli velarono ancora gli occhi.
Il vento gli scompigliò i ricci, la
carezza della mamma, poi si spostò verso
l’aquilone. La carta rossa iniziò a sbatacchiare. Nicholas si
sporse per prenderlo, ma prima che riuscisse a toccarlo, l’aquilone
si sollevò. Superò le canne, salì in alto, e quando fu ben
visibile a distanza si fermò oscillante, come un segnale. Suo padre
l’avrebbe riconosciuto. Il rocchetto rotolò verso Nicholas, lui lo
prese in mano e guardò in alto. Sorrise e annuì.
Passò ancora del tempo. Erano voci quelle che sentiva?
Era così confuso e stanco da non essere più sicuro di nulla.
Ma sì, erano voci! Di persone che si stavano
avvicinando. Ne sentiva i passi, e rumore di canne spostate o
spezzate. Il cuore gli saltò un battito quando riconobbe, tra le
altre, la voce di suo padre.
– Papà! – urlò con tutto il fiato.
– Nicholas?
– Sono qui!
– Santo cielo, cos'è successo?
– Mi dispiace, papà. Non ti ho aspettato. Volevo far
volare l'aquilone e...
– Non fa niente Nic, me lo racconti a casa. – Il
padre s'era chinato accanto a lui. – Mettimi le braccia al collo.
I due uomini insieme al padre fecero strada, aprendo un
varco tra le canne. Nicholas, in braccio al padre, aprì la mano in
cui teneva il rocchetto, che cadde a terra srotolandosi. L'aveva
stretto così forte da avere i segni delle unghie conficcate nel
palmo.
– Grazie mamma – sussurrò, alzando il viso al
cielo.
L'aquilone dondolava lento nella carezza del tramonto.
Che sfilza di ghost-storie! |1)
RispondiEliminaRacconto ben scritto, che forse pende appena dalla parte del realismo rispetto al fantastico puro; nonostante mi sia piaciuto mi ha anche lasciato un po' di amaro in bocca, forse l'idea di base è meno originale di altri tuoi racconti. Colpa tua che mi hai abituato troppo bene!
Sauro Nieddu
Lettura piacevole per le descrizioni e la tensione che circonda il personaggio. Una bella storia di fantasmi, un po' convenzionale ma efficace.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino