lunedì 23 ottobre 2017

NEL PAESE DEGLI URSO SAPIENS E DEI CANGUINI di Pierre Jean Brouillaud


Del sorbetto alla fragola. Il sole nascente arrossava la banchisa, i ghiacci, i crepacci e le cime del pianeta.
Cinque figure impacciate ci attendevano. Parevano esitare o, almeno, prepararsi all’incontro.
Uno di loro si staccò dal gruppo, avanzò ondeggiando. Paffuto, piuttosto panciuto, un po’ pesante, ma comunque piacevole. Ancora tutto rosa. Tutti e cinque indossavano un perizoma, o piuttosto una sorta di gonna, su una “pelliccia” che subito virava verso il color miele, mentre tutt’intorno il pianeta riacquistava il suo candore polare.
Un orsacchiotto. L’immagine, che subito mi si impose. Un orsacchiotto sintetico trovato dalla mia prozia in un locale situato sotto il tetto e da lei chiamato “soffitta”. Un giocattolo che, a giudicare dal suo stato, aveva recato gioia a molte generazioni di bambini.
Il mio secondo, Walker, ha sentito o creduto di sentire che avevo ceduto ad una sorta di tenerezza, una di quelle debolezze che può suscitare il ricordo: «Ha un bel faccino, ma attenzione comunque.»
L’orso è venuto da me mentre i suoi quattro compari facevano un passo avanti. L’orso si fermò a pochi metri da noi, dondolando di nuovo, sul posto. Il suo modo di salutarci? O avvertirci? Nel mio “interlocutore” nessun segno di aggressività. A mala pena, nei suoi occhi giallastri, un po’ glauchi, come un interrogativo.
I cinque personaggi bruscamente caddero in ginocchio. D’una sola voce sorprendentemente sottile per esseri così massicci avevano iniziato a salmodiare... qualcosa.
Abner mi ha suggerito di usare il TC, il Transcosm. Ed è ciò che ho fatto. Con mia grande sorpresa, questa nuova attrezzatura, spesso capricciosa e inaffidabile, ha dato una versione comprensibile della frase rituale che l’“orso” ripeteva come una litania:
«Onore agli inviati del Grande Orecchio che ci ascolta e giudica, giorno e notte, onore agli inviati del Grande Occhio che ci osserva e giudica, giorno e notte.» Questo è quello che ho capito.
Dunque ci siamo inchinati, a braccia aperte. Le cinque figure scattarono in piedi come per il rilascio di una molla.L’“orso si avvicinò ancora. Eravamo distanziati solo dalla lunghezza di un braccio.Sospettavo che Abner sarebbe divenuto un po nervoso.Il nostro compagno, il professor Boris Paradine, non perdeva mai un momento di battezzare ogni “nuova” creatura. Li aveva quindi già “classificati”, gli Urso Sapiens.
Arrivò un gruppo di loro compagni in piedi su una slitta trainata da animali potenti che avevano qualcosa del pinguino e del canide. Per spostarsi approfittano di una colata di ghiaccio bluastro tra le rocce. Ci fecero cenno di prender posto, di sederci sulla slitta che, appena ci fummo sistemati, prese il volo, sostenuta dalle potenti ali di queste creature che Boris, molto eccitato, aveva subito battezzato Canguini.
Ecco gli astronauti trattati come turisti ai quali gli autoctoni offrirebbero un battesimo dell’aria. Comico. Voliamo tra i pennacchi sibilanti dei geyser che formano come una guardia d’onore.
Il Professore, felice, comodamente seduto, ne approfitta per disegnare sul suo taccuino (ha ancora un debole per la carta) la sagoma di un canguino. Sorvolammo così un paesaggio di ghiaccio e fuoco. Fino ad una grotta nella quale venimmo depositati.
Era la casa dei nostri ospiti.
Stalattiti sontuose offrivano tutte le sfumature del rosso e marrone a causa dell’acqua che filtrava attraverso gli strati del terreno. Abbracciavano il letto d’un fiume dalle acque leggermente fosforescenti dove apparivano lampi argentei che in verità erano pesci.
Allora si attivarono le loro “donne” che non si distinguono che per il rosa chiaro e bruno dei loro capezzoli. Ci accolsero con una sorta di riverenza.
Sul fondo di quella che ricordava la conchiglia di una capansanta ci si offrì una “cucchiaiata” di qualcosa che aveva il gusto e l’aspetto del miele. E che è pertanto dello stesso colore del pelo dei nostri ospiti.
Non siamo riusciti a pronunciare correttamente il nome locale del nostro ospite. Così tra di noi, l’abbiamo chiamato Teddy in ricordo di come noi anglosassoni chiamavamo l’orsacchiotto, Teddy Bear.
Mentre oziavamo nella grotta, im- provvisamente, Teddy tuffò la mano, acchiappò un pesce e con un colpo di denti, gli staccò la testa che poi degustò, prima di ributtare il resto del corpo nei flutti dove venne subito divorato dai suoi simili. Ci invitò ad imitarlo. Cortesemente, declinammo la sua offerta. Sembrò sorpreso.
Una delle loro specialità è quella di sgranocchiare un grande “gambero” che pescano in bacini d’acqua fumante e assaporano senza lasciarlo raffreddare. La sostanza che ha il sapore di miele proviene, come da noi la resina, da un albero che cresce nelle regioni più temperate del pianeta. È perciò raro e apprezzato.
Vedemmo presto che il miele ceb’nol tende, soprattutto in quelli che non sono preparati, a disturbare un po’ la psiche. Sembra abbassare le difese. Vi porta a considerare che niente sia davvero importante, a lasciarvi andare. Questo potrebbe spiegare il comportamento dei nostri ospiti. È così che presso questo popolo, già buono per natura, la nostra presenza sembrava essere già entrata nell’ordine delle cose.
Certo, gli Ursi Sapiens ci avevano adottato.
Abbiamo avuto anche un sacco di successo con le loro donne. Sono pronte a tutte le esperienze e attente ad ogni nostro capriccio. Hanno un temperamento tranquillo. Poca passione, molta dedizione.
Una di loro ha detto di aspettare un bambino per me.
Quale creatura più o meno mostruosa potremmo generare? Non mi sembra sia possibile. Ma resta da vedere. E se dovessimo tornare? Infine, se tornassimo.... Naturalmente, glie l’ho promesso. Ho mentito.
Ma se questo ritorno fosse possibile, sarei pronto. Non dimenticherò mai l’emozione della sua pelliccia, come la seta sotto la mia mano.
Da quanto tempo eravamo ospiti degli Urso Sapiens? Conquistati dall’atmosfera, ci eravamo lasciati andare.
Le indagini condotte all’inizio del nostro soggiorno avevano dimostrato che gli altri due continenti del pianeta sono coperti da una specie di permafrost ed ospitano alcuni animali curiosi e probabilmente amichevoli come i Canguini. Ma, per la disperazione di Boris, le nostre istruzioni non ci impongono di esplorare ulteriormente questi territori. E noi non ci proponiamo di condurre ulteriori ricerche.
Senza remore, ci lasciammo semplicemente vivere fino al momento in cui Raimon dalla nostra nave Omega ci richiamò all’ordine: «Ma cosa state facendo laggiù, in mezzo dei vostri orsacchiotti e cani volanti? Siete ritornati bambini? Preparatevi per la nuova missione! Vi invierò istruzioni.»
Così sapemmo già la nostra nuova destinazione. Ma che mi stava succedendo? Abbiamo un’intera galassia da esplorare metodicamente e poco tempo da perdere.
«Perché dovete andar via? Restate con noi,» dissero i nostri ospiti. «Dove starete meglio che qui? Cosa state cercando? Un posto ove vivere bene. Quale posto migliore di questo?» Abbiamo faticato per condurli ad accettare che avremmo dovuto partire. In realtà, non l’hanno mai capito.
Come veri amici, ci siamo abbracciati. Gli Urso Sapiens odoravano di miele. Un profumo che indugiava nei nostri caschi.
I reattori erano accesi...
Un pianeta che rimarrà per i bambini cresciuti che siamo “la terra degli orsacchiotti”... Gli orsacchiotti? Hum! Beh, perché no?
(Traduzione e adattamentodi Giorgio Sangiorgi)

martedì 17 ottobre 2017

BOTTINO DI GUERRA di Fabio Calabrese

Ian McDowell smosse la terra in modo da ricoprire i semi che aveva piantato nel terreno. Non era un agricoltore esperto, non si era occupato mai molto nemmeno di giardinaggio, ma quel lavoro gli toccava. Doveva farlo. Prese l'annaffiatoio e bagnò la terra smossa.
Su questo punto aveva avuto una discussione con il professor Wilson. Quelli erano semi che venivano dal deserto, ma secondo il professore, l'ultima volta che le piante di quella specie erano germogliate, la regione non era affatto desertica, e quei semi avevano bisogno di acqua.
L'uomo non si soffermò a contemplare il proprio lavoro, si avviò verso il fondo del giardino, dove aveva legato Wolf alla cancellata metallica. Il grosso pastore tedesco aveva il pelo ritto ed emetteva un ringhio sommesso.
Da quando Ian era tornato, l'animale si comportava in modo strano. L'uomo lo guardò: aveva il pelo ritto e non smetteva di emettere un ringhio sommesso come se si trovasse di fronte a una minaccia.
McDowell si mise a carezzarlo lentamente sotto la gola e a parlargli con dolcezza. L'animale parve calmarsi.
“Forse Monique manca anche a te”, disse l'uomo.
Prese Wolf per il guinzaglio e rientrò in casa, nella casa che gli parve spaventosamente silenziosa e vuota.
Varcata la soglia dell'edificio, il cane ritornò tranquillo, ma non prima di essersi irrigidito ed aver lanciato un ringhio rabbioso quando erano passati vicino al punto dove Ian aveva piantato i semi.
Facendo una rapida stima dei suoi averi e della sua vita, venne da pensare a Ian McDowell mentre si sedeva sul divano del salotto davanti al televisore e il cane si accoccolava sul tappeto vicino a lui, gli uni e l'altra si riducevano al congedo dai marines dopo il servizio in Irak, un po' di incubi assortiti lasciati dalla sua esperienza in quello che dopotutto era un teatro di guerra, una casa vuota e una vita vuota. Sapeva che smessa l'uniforme avrebbe dovuto guardarsi in giro per cercare un lavoro, costruirsi una nuova vita, ma non c'era una fretta estrema, per il momento aveva un po' di soldi da parte.
Era peggio quel che era successo alla sua vita affettiva durante quel periodo di servizio dall'altra parte del mondo. Monique a un certo punto aveva smesso di rispondere alle sue lettere e si negava al telefono, poi un giorno la posta aveva portato un biglietto dal tono estremamente brusco in cui lei gli annunciava di essersi innamorata di un tizio più danaroso di quanto Ian potesse mai sperare di diventare, e che non si trovava in Medio Oriente con l'uniforme dei marines addosso, ma a due isolati da casa. Non erano sposati, non si erano mai preoccupati di regolarizzare la loro posizione, quindi arrivederci e grazie. Per fortuna, si era almeno ricordata di affidare Wolf ai vicini di casa in attesa del suo ritorno.
Era stato poco dopo aver letto il biglietto di Monique che girando in libera uscita per le strade di Baghdad, Ian si era imbattuto in quel ragazzino arabo che gli aveva venduto quella strana anfora per quelli che per l'americano erano pochi spiccioli, ma coi quali il furbetto levantino poteva far campare la famiglia per una settimana.
Ian si era subito conto che l'oggetto era antico, doveva provenire da qualche scavo archeologico abusivo o magari essere stato sottratto a qualche museo. Normalmente l'avrebbe consegnato ai propri superiori, ma in quel momento, dopo essere stato scaricato da Monique a quel modo, aveva la sensazione che la vita gli dovesse qualcosa: quell'anfora, decise, era il bottino della sua esperienza militare, la sua personale preda bellica. L'aveva contrabbandata negli Stati Uniti al suo ritorno a casa, fidando che i bagagli di un veterano al ritorno in patria non sarebbero stati sottoposti a un esame troppo approfondito.
Tornato a casa, Ian si era rivolto al professor Wilson, l'insegnante delle scuole medie, l'uomo più colto che conoscesse, chiedendogli se a suo parere aveva messo le mani su qualcosa di valore oppure no.
Aveva fatto venire l'insegnante a casa sua per mostrargli l'anfora e l'uomo si era precipitato, gli brillavano gli occhi per l'eccitazione da appassionato di cose antiche. Tuttavia, a guastargli la festa, Ian dovette notare lo strano comportamento di Wolf che si mise a ringhiare furiosamente contro l'anfora. Dovette chiuderlo nello stanzino.
Il professore aveva esaminato l'oggetto attentamente.
“Intanto questa non è un'anfora”, aveva sentenziato.
“Ah, no?”, aveva chiesto Ian, “E che cos'è?”
“Beh”, aveva risposto Wilson, “Semplicemente un contenitore, un vaso, un orcio. Noi tendiamo a chiamare anfora qualsiasi coccio antico, ma le vere anfore, quelle che si usavano ad esempio per il trasporto del vino, erano molto più grandi e ingombranti, certo non saresti riuscito a metterne una in valigia”.
“Ah si”, aveva replicato l'ex marine per nulla impressionato dallo sfoggio di erudizione, “E quanto pensa che possa valere?”
“Questo è difficile da dire”, rispose il professore, “Vede, si tratta di un tipo di vaso, di orcio molto comune, del tipo che nella regione è stato usato per millenni, e non presenta decorazioni particolari, certo, se lo avesse ritrovato in situ invece che averlo acquistato da un tombarolo, sarebbe diverso, almeno vi sarebbe stata maggiore probabilità di poterlo datare con una certa sicurezza”.
Ian provò un po' di delusione.
“Ha provato a esaminare il contenuto?”, chiese il professor Wilson.
L'ex marine scosse il capo.
“No, guardi”, disse, “Dal peso, ci deve essere qualcosa dentro, ma l'imboccatura è come cementata”.
L'insegnante tornò ad esaminare il vaso.
“No”, disse, “Quello che chiude l'imboccatura mi pare che sia solo un tappo di cera molto, molto vecchio. Se lei è d'accordo, potremmo rompere il tappo e vedere cosa c'è all'interno”.
Ian aveva sgombrato un tavolo, vi aveva messo sopra una tovaglia di plastica, poi il professore si era messo al lavoro: aveva rotto il tappo con un coltello, poi con l'aiuto di uno spazzolino, si era messo a vuotare metodicamente il vaso del suo contenuto.
Nel momento preciso in cui Wilson ruppe l'antico sigillo di cera, dallo stanzino dove Wolf era rinchiuso, giunse un ringhio furibondo, che sembrò diventare l'ululato di una bestia selvaggia, per poi scemare in qualcosa di simile a un guaito di paura.
Man mano che il professore procedeva con il lavoro, Ian McDowell sentiva crescere la delusione, gli sembrava che dal vaso uscisse soltanto terriccio.
“C'è solo sporcizia!”, commentò.
“Ma no”, disse il professore, “guardi qui, questi sono dei semi”.
“E allora?”
“Questo oggetto viene da Baghdad, giusto?” replicò Wilson, “Lei certamente sa che Baghdad si trova a due passi dalle rovine dell'antica Babilonia, è probabile che il vaso e il suo contenuto provengano da lì. Vede, nell'antichità Babilonia era famosa per i giardini pensili, considerati una delle meraviglie del mondo. Pensile, come sa, vuol dire appeso, quindi letteralmente “giardini appesi”. Storici, archeologi, scienziati stanno discutendo da generazioni per capire di che cosa si trattasse. Sarebbe un colpo di fortuna incredibile poter risolvere il mistero”.
Ian indicò uno scaffale a muro. Era stato concepito per essere adibito a libreria, ma ospitava dei DVD e alcuni soprammobili, non era che la lettura fosse una delle massime passioni del padrone di casa.
“Quello è un pensile”, disse, “E non vedo cosa ci sia di tanto eccezionale”.
Il professore sorrise con aria divertita.
"Mio caro”, commentò, “Nell'elenco delle sette meraviglie del mondo antico c'era anche la piramide di Cheope, che è l'unica che è giunta fino a noi. Le faccio notare che però nell'elenco non sono state incluse le altre due piramidi della piana di Giza, quelle di Chefren e di Micerino, e neppure la sfinge. Crede proprio che si sarebbero disturbati a includere nell'elenco i giardini babilonesi se fossero stati delle semplici terrazze fiorite? C'è qualcosa che ci sfugge. Forse “pensili” è un errore di traduzione, e la parola aveva un altro significato. Io purtroppo non conosco abbastanza le lingue antiche per condurre ricerche in merito”.
“Tutto questo è molto interessante, professore”, aveva risposto Ian, “Ma cosa ha a che vedere con noi?”
“Beh, è probabile che questi semi vengano da piante che si trovavano in questi giardini. Capire che piante fossero ci aiuterebbe a risolvere il mistero”.
“Ma sono semi vecchi di migliaia di anni”, aveva replicato Ian,
“Ebbene, mio caro”, aveva risposto il professore, “E' sorprendente quanto a lungo i semi possano conservare la loro vitalità, forse saprà che sono stati seminati dei chicchi di grano ritrovati nelle tombe egizie, e sono germogliati. Io proverei senz'altro a seminarli e a vedere cosa spunta fuori”.
E si mise a parlare con aria ispirata di una monografia che avrebbe mandato a “Scientific American” e a “Nature”, naturalmente facendo il nome di Ian McDowell. Gli orti botanici di tutto il Paese si sarebbero contesi le piante nate da quei semi a suon di mazzette di dollari, ci sarebbero stati fama e denaro per entrambi.
Questo era un argomento che toccava direttamente il cuore di Ian, non era molto interessato alle questioni scientifiche, ma ai dollari si, eccome!
Tutto questo era avvenuto il giorno prima. Ian si era procurato un manuale di giardinaggio, del concime e degli attrezzi, e aveva piantato gli strani semi in un angolo del giardino davanti alla casa, giardino di cui fino ad allora non si era occupato molto, se non per tosare l'erba quando minacciava di diventare troppo alta e troppo fitta, ma ora era il momento di farsi venire il pollice verde, verde dollaro, sperava.
Aveva notato con curiosità anche il cambiamento nel comportamento del cane: ora Wolf ignorava l'anfora od orcio o che diavolo fosse, a cui aveva trovato una collocazione come soprammobile in salotto, e riservava tutta la sua ostilità all'angolo del giardino dove Ian aveva piantato i semi.
Ian aveva atteso con impazienza diversi giorni per vedere se qualcosa sarebbe spuntato, e che cosa. Finalmente notò un germoglio, una sorta di gemma verde che usciva dal suolo. Almeno uno dei semi aveva attecchito, ma era difficile capire di che cosa si trattasse, bisognava pazientare.
Ian dedicò nei giorni seguenti tutte le sue attenzioni alla piccola pianta che si stava sviluppando. L'unica cosa che lo lasciava perplesso era il fatto che Wolf evitava accuratamente di avvicinarsi a quell'angolo del giardino.
Il piccolo germoglio verde si schiuse, dipanando una raggiera di foglie lunghe e sottili che a Ian parvero simili a quelle di un'agave in miniatura, tranne per il fatto che apparivano molto più flessibili, come dei tentacoli di un minuscolo polipo vegetale.
Continuò a innaffiare e concimare la piantina che – gli parve – cresceva a un ritmo veloce, come una pianta di zucca.
"Ancora un poco”, pensava, pregustava già il momento in cui avrebbe chiamato i giornalisti a fotografare quella strana cosa che cresceva nel suo giardino.
Lo notò qualche giorno più tardi: un grosso insetto, un moscone si era posato su una delle foglie, e ora si divincolava nel tentativo di staccarsene senza riuscirci, come se la superficie verde fosse diventata all'improvviso appiccicosa, poi la raggiera di foglie si richiuse sull'insetto inglobandolo.
“Una pianta carnivora”, pensò, ma l'idea non gli dispiaceva, con tutti gli insetti che c'erano nel giardino!
La pianta cresceva in fretta, forse troppo. Qualche giorno più tardi, Ian trovò nei pressi della pianta, in quello che doveva essere un cumulo di resti non digeriti sputati dal mostriciattolo vegetale, qualcosa che gli parve lo scheletro tutto rotto e schiacciato di una lucertola.
La signora Blake era furente. A Ian non era mai piaciuta quella donna, una vedova anziana e acida che abitava dirimpetto alla casa dell'ex marine, una che sembrava essere infastidita dai bambini che giocavano nei cortili, dai ragazzi che il sabato sera si scambiavano effusioni negli androni bui, oppure tenevano la musica un po' alta, una che quando era halloween sbarrava porte e finestre, che pareva occuparsi solo dell'interminabile serie di centrini e lavori all'uncinetto di cui riempiva casa sua, e pareva provare affetto solo per Odile (che nome ridicolo), il suo gatto persiano grasso grosso e peloso.
“L'ho visto chiaramente”, stava dicendo la donna, “Ieri sera ho visto Odile che entrava nel suo giardino, e da allora non l'ho più visto, ed è un animale che torna sempre a casa quando è ora di cena”.
“Signora”, replicò Ian per l'ennesima volta, “Non l'ho visto, non ne so nulla”.
“Stia attento”, rispose lei, “Se gli è successo qualcosa, gliela farò pagare!”
Congedata bene o male la vicina sempre furente, Ian McDowell scese in giardino.
Come immaginava, vicino alla pianta che era cresciuta un bel po', trovò i resti del gatto: le ossa tutte disarticolate e schiacciate, e matasse di pelo arruffate che erano quanto rimaneva del lungo manto dell'animale.
Il giorno dopo, Ian McDowell lo trascorse per quasi tutta la giornata nella città vicina, dove aveva due incontri per un posto di lavoro. Rientrato mentre già imbruniva, chiamò Wolf che aveva lasciato libero in giardino.
“Wolf, bello, vieni qui, bello!”
Contrariamente al solito, non ottenne alcuna risposta.
Di colpo ebbe un sospetto atroce, come se una mano gelida gli avesse all'improvviso stretto il cuore.
Corse nell'angolo dove c'era la pianta esotica nata da un seme venuto dall'antica Babilonia. La pianta era stretta a bocciolo con tutte le foglie serrate. Da quel cumulo vegetale sporgeva una zampa di Wolf. Nonostante tutta la sua diffidenza, l'animale doveva essere passato troppo vicino a quell'orrore verde.
Era troppo!
Che il professor Wilson dicesse quello che voleva, quella cosa doveva essere distrutta, e subito!
Andò in garage e prese l'ascia, deciso a fare a pezzi quella mostruosità vegetale. Si avvicinò alla pianta.
La mostruosità verde parve reagire alla sua presenza, sembrò che sputasse la carcassa del povero Wolf, poi le foglie simili a tentacoli scattarono attorcigliandosi attorno alle gambe di Ian.
Era come cercare di liberarsi dalle spire di un pitone, stringevano ed erano terribilmente forti. Diavolo, l'ascia sembrava inutile per tagliare le foglie-tentacoli, era come se la lama fosse fatta di gomma.
D'un tratto capì: il professor Wilson dopotutto aveva ragione, doveva esserci stato un errore di traduzione, quelli babilonesi non dovevano essere giardini pensili, ma giardini prensili.
Le foglie-tentacoli gli si avvolsero attorno al busto e al capo, schiacciandolo e soffocandolo.

martedì 3 ottobre 2017

LURIDA BESTIA di Antonio Ognibene



Una macchia di sudore incollava la camicia su quel concentrato di grasso che era la sua schiena.
– Ah-ha, eccolo là. – esclamò il cacciatore disteso sopra una duna – È enorme. Non ho mica attraversato la galassia per niente.
Balsa Burner prese dalla tasca lo smartphone e digitò: «Prepara la griglia, amore», seguito da un emoticon a forma di maialino arrosto.
La risposta della moglie arrivò quasi subito: «Magnifico. Non ti affaticare troppo però, mi raccomando» con un cuoricino alla fine del testo.
Si asciugò il sudore dalla fronte e avvicinò l'occhio al mirino telescopico.
Sbatté la palpebra un paio di volte, per liberare la pupilla da quella fastidiosa patina.
Cacciare i sorgool non è uno scherzo. Ma quando ti trovi sul piatto una braciola cotta alla brace, o anche al forno, scopri che ne è valsa davvero la pena.
Burner avvertì un lieve bruciore al petto, e la bocca gli sembrava piena di ovatta, come se avesse fame d'aria.
"Prenderò dopo quella maledetta pastiglia" pensò.
– Bravo... così... un po' più avanti... – disse tra sé, mirando alla testa dell'animale.
Tossì un paio di volte.
– Mi hai trascinato in questo inferno, lurida bestia – ridacchiò – e io ti brucio il cervelletto.
Strinse l'arma nella mano, posò l'indice sul grilletto e...
 ***
Il corpo dell'uomo era rotolato ai piedi della duna, e ora giaceva supino sulla sabbia rovente di Ragoo.
Una schiuma rosea gli riempiva la bocca, e colava giù sotto il doppio mento. Le dita grassocce della mano, erano ancora strette al centro del petto.
I raggi orizzontali del Sole, ormai prossimo al tramonto, proiettavano le ombre del canyon sulle dune. Dietro una di esse, il sorgool continuava a strappare dal ventre del cacciatore nuovi brandelli di carne e li fagocitava grugnendo e senza masticarli.

mercoledì 27 settembre 2017

ANCORA! di Teresa Regna


Il giorno in cui morii il sole splendeva alto nel cielo invernale, incurante sia della stagione che delle previsioni meteo. Avevo compiuto 88 anni due settimane prima.
Ero seduto sul dondolo, a godere il tepore del sole. Avvertii un dolore lancinante alla sommità della testa, e mi accasciai sul lastricato del portico in una posa innaturale. Una morte pulita, rapida.
Osservai per qualche istante il mio corpo vestito di blu scuro spiccare sulle mattonelle candide, poi mi avviai verso la luce.
Il buio mi inghiottì, all’improvviso. Sembrò durare un’eternità.
Mi risvegliai, nudo, disteso su un tavolo metallico. Curiosamente, non avevo freddo, e nemmeno provavo la sensazione di scomodità in genere associata al metallo. Non ero imbarazzato, soltanto seccato.
Ebbi la piacevole sorpresa di sentirmi in piena forma: il mio corpo era in perfetto stato, come quando ero giovane e forte. Avrei potuto vincere di nuovo la gara di corsa campestre che mi aveva fruttato una medaglia, quando avevo trent’anni e tanta energia da surclassare gli avversari, se soltanto non fossi stato trattenuto da una forza tanto sconosciuta quanto potente.
Provai ad alzarmi, ma tutto ciò che mi riuscì fu sollevare un braccio fino a qualche centimetro dal tavolo. Lo lasciai ricadere: non potevo lottare contro la sensazione di schiacciamento che ogni movimento mi procurava.
Una voce, che sembrava metallica quanto il tavolo, rimbombò nella mia testa. Diceva di stare tranquillo: tutto sarebbe terminato in poco tempo. Il termine usato non era quello, ma il concetto era simile.
Mi rassegnai, consapevole della mia debolezza. Pensai che fosse dovuta al fatto che ero appena morto.
La voce mi rassicurò: ero trattenuto da un campo di forze, lo stesso che veniva usato per analizzare il mio corpo. Ed ero morto da alcuni giorni, nei quali ero rimasto in animazione sospesa.
Come si può essere animati se si è morti?
La mia spontanea riflessione ebbe una risposta. La morte non è definitiva, ma temporanea. Dopo aver effettuato i dovuti controlli, sarei stato rispedito sulla terra.
Oh, no! Ancora… protestai.
Ne avevo di strada da fare prima di poter aspirare a diventare un puro spirito, affermò la voce.
Chi sei?
Questa domanda non ottenne risposta, nemmeno un grugnito di disapprovazione o qualcosa di simile.
Aspettai. La pazienza non mi faceva difetto. Inoltre, non avevo molta scelta: la voce era stata categorica. Ero condannato ad abitare ancora un corpo mortale.
Trascorse del tempo, o l’equivalente di esso. Molto o poco non riuscii a capirlo.
Il giorno in cui nacqui il sole splendeva alto nel cielo invernale.


 

mercoledì 19 ottobre 2016

SENZA TITOLO di Paolo Secondini

Si ritrovarono, all’improvviso, in un vasto spiazzo bianco e privo di rilievo.
Erano lì, ferme, come cadute dall’alto.
«Che senso abbiamo?» domandò, sbigottita, l’una all’altra.
«Non so… non riesco a capirlo… Forse siamo l’aborto di un raglio?»
«Una cosa è evidente: così vicine e per l’aspetto che abbiamo potrebbero scambiarci per due elle minuscole,» rispose la i maiuscola alla propria gemella.

sabato 8 ottobre 2016

OSSA DI ZUCCHERO di Frank Bernardi

 
Non veder, non sentir m’è gran ventura
Michelangelo

 
Gli abeti, non pochi, erano però assai spelacchiati, paurosi, come colpiti da qualche virus.
“Non li ricordavo – dissi a mia madre accanto a me in macchina – così brutti”.
“Cosa?”, chiese lei da sotto le spesse lenti affumicate. Non aveva capito a cosa mi riferissi.
“Gli abeti, mamma”, precisai, “gli abeti sono spelacchiati”.
“Davvero, Gianna? Non ci avevo mai fatto gran caso...”.
“Forse, mamma, sono sempre stati così”.
“Boh!”, concluse e la vidi addormentarsi in pochi attimi. Russava.
Sette chilometri ancora fino al passo, poi una bella discesa e saremmo giunte al paese.
E sinceramente continuavo a chiedermi per quale motivo mi fossi offerta di accompagnare mia madre Alda al paese. Erano ormai svariati anni che mi rifiutavo di partecipare a quella delirante cerimonia sulla quale nessuno pareva avere niente da ridire o commentare. Questa volta una molla del cervello era malauguratamente saltata: di mia sponte, quasi con inspiegabile entusiasmo – che aveva in qualche misura sorpreso anche una donna semianestetizzata come mia madre - avevo aderito alla paurosa iniziativa, del tutto inutile nonché demenziale comunque si rigirasse la cosa. Già vedevo la porta antica che s’avanzava, l’unico rudere decente del nostro paesello insieme alle vecchie mura. La vettura con figlia e madre la stava attraversando a velocità assai moderata. Facile figurarsi che quell’arco fosse soprattutto la porta di un inferno custodito con cura.
Vetrine e vetrinette, le stesse. Io, la stessa. Mia madre, la stessa. Tutto è lo stesso, malgrado il tempo, tutto è sottratto al tempo. Io, la donna più brutta del quartiere e forse anche della città intera, o perlomeno fra le più brutte. Si comincia dalla faccia, che ha l’indubbio monopolio su tutto il resto, viso malamente scolpito, non finito. O, più in dettaglio: viso da criceta, forse da topa di fogna o magari topa da esperimento. Con fila di denti superiori mai coperti dalle troppo sottili labbra, talvolta violacee talvolta verdi e quasi trasparenti. Dipende da come cade la luce, se è artificiale o solare. Dipende. Con mento che si salda mollemente al busto, escludendo la possibilità di collo. Corpo da scricciolo, sottosviluppato, facile da stritolare. Con esili braccia, che magari ogni tanto si mettono a tremare. Con mani minuscole. Con unghiette piccole e ben curate, almeno quello. Con capelli perennemente unti e calanti (ma perché?). Con gobba. Non così pronunziata, certo, ma comunque un dettaglio, di cui non c’era bisogno, che si somma ad un quadro generale già spaventoso di suo. Non si può inoltre tacere della voce, anzi vocina, piccola, minuscola, tutta frequenze alte, altissime, sgraziate, tanto da muovere al riso l’ascoltatore. Tutto sembra un cartone animato, ma in realtà sono io, la più sgraziata e disgraziata delle donne, dotata non di voce ma di disco che si ode dalle viscere di una bambola Furga.
Poi, come accennavo, ho le ossa di zucchero, graziosissime da frantumare. Forse faranno, ove maciullate, un rumore da scheletro di quaglia d’allevamento, pigolante e prigioniera nel pugno dello chef boia. Una stretta più forte e decisa: e io reclinerò il collo in avanti, docile e cadavere. Cosa che in realtà non mi è tanto facile realizzare da sola nel mondo degli uomini, un po’ per rabbia mia profonda, un po’ per costrizioni oggettive. In altri termini: non m’ammazzo perché spero di vendicarmi, di rifarmi, di avere giustizia. E perché c’è mia madre, l’odiata. “Non puoi darle anche questo dispiacere”. Tutti i giorni, domenica esclusa, salva la messa centrale, fuori casa con codesta per la passeggiata di rito, entro la quale si fa rientrare anche la cerimonia della spesa e dell’irrisione celata - nei miei confronti - da parte dei negozianti. Alcuni bottegai sono ormai morti: li ho conosciuti sin da quando ero bambina e già brutta come oggi, e mia madre, triste sempre, colpevole sempre, mi portava nei fondi bui e impregnati di spezie, incatramati, ove mi spettava una sottile fettina di mortadella da assaggio. Guai se la mortadella non ci fosse stata; trattavasi di una sorta di compensazione. All’inizio perché ero piccola, poi per il mio stato mostruoso. Dalla bottega fino ai neon di supermercati ove l’esposizione agli sguardi del pubblico è massima e ove occorre un robusto allenamento psicologico per non soccombere, sebbene ciò che la gente pensa sia sempre la stessa cosa: guarda che mostro, giriamoci dall’altra parte. “Guarda che orrore, poveraccia, ma certo sarà abituata ad essere osservata”. “Come, del resto, si può evitare di guardarla”. Come, del resto, si può evitare di guardarmi? Vorrebbe dire essere privi della vista. E poi c’è al solito mia madre, non bella ma neppure un mostro come me: tollerabile, in fondo. Coi suoi baffi da vecchia, ma questo è quasi nulla. Mia madre che cammina dietro di me, mai davanti. Una bella coppietta, dunque, anche se risulta poco chiaro se io sia la guardiana di mia madre oppure ella la mia tutrice, l’angelo badante, del resto responsabile della mia venuta al mondo. La quale genitrice, credo io, non si renda perfettamente conto del tipo di gravame che mi ha consegnato dandomi alla luce. O meglio: sente, come un animale, di aver fatto un grave sbaglio, percepisce la colpa su di sé, ma sa anche come ridurre la questione, nel suo intimo, ad un nulla. Il tutto le viene naturale e insieme le conviene.

(Fine prima parte di abbozzo di stesura, estate 2016, Roma)