Del sorbetto alla
fragola. Il sole nascente arrossava la banchisa, i ghiacci, i crepacci e le
cime del pianeta.
Cinque figure impacciate ci attendevano. Parevano esitare o, almeno, prepararsi all’incontro.
Uno di loro si staccò dal gruppo, avanzò ondeggiando. Paffuto, piuttosto panciuto, un po’ pesante, ma comunque piacevole. Ancora tutto rosa. Tutti e cinque indossavano un perizoma, o piuttosto una sorta di gonna, su una “pelliccia” che subito virava verso il color miele, mentre tutt’intorno il pianeta riacquistava il suo candore polare.
Un orsacchiotto. L’immagine, che subito mi si impose. Un orsacchiotto sintetico trovato dalla mia prozia in un locale situato sotto il tetto e da lei chiamato “soffitta”. Un giocattolo che, a giudicare dal suo stato, aveva recato gioia a molte generazioni di bambini.
Il mio secondo, Walker, ha sentito o creduto di sentire che avevo ceduto ad una sorta di tenerezza, una di quelle debolezze che può suscitare il ricordo: «Ha un bel faccino, ma attenzione comunque.»
L’orso è venuto da me mentre i suoi quattro compari facevano un passo avanti. L’orso si fermò a pochi metri da noi, dondolando di nuovo, sul posto. Il suo modo di salutarci? O avvertirci? Nel mio “interlocutore” nessun segno di aggressività. A mala pena, nei suoi occhi giallastri, un po’ glauchi, come un interrogativo.
I cinque personaggi bruscamente caddero in ginocchio. D’una sola voce sorprendentemente sottile per esseri così massicci avevano iniziato a salmodiare... qualcosa.
Abner mi ha suggerito di usare il TC, il Transcosm. Ed è ciò che ho fatto. Con mia grande sorpresa, questa nuova attrezzatura, spesso capricciosa e inaffidabile, ha dato una versione comprensibile della frase rituale che l’“orso” ripeteva come una litania:
«Onore agli inviati del Grande Orecchio che ci ascolta e giudica, giorno e notte, onore agli inviati del Grande Occhio che ci osserva e giudica, giorno e notte.» Questo è quello che ho capito. Dunque ci siamo inchinati, a braccia aperte. Le cinque figure scattarono in piedi come per il rilascio di una molla. L’“orso” si avvicinò ancora. Eravamo distanziati solo dalla lunghezza di un braccio. Sospettavo che Abner sarebbe divenuto un po’ nervoso. Il nostro compagno, il professor Boris Paradine, non perdeva mai un momento di battezzare ogni “nuova” creatura. Li aveva quindi già “classificati”, gli Urso Sapiens.
Arrivò un gruppo di loro compagni in piedi su una slitta trainata da animali potenti che avevano qualcosa del pinguino e del canide. Per spostarsi approfittano di una colata di ghiaccio bluastro tra le rocce. Ci fecero cenno di prender posto, di sederci sulla slitta che, appena ci fummo sistemati, prese il volo, sostenuta dalle potenti ali di queste creature che Boris, molto eccitato, aveva subito battezzato Canguini.
Ecco gli astronauti trattati come turisti ai quali gli autoctoni offrirebbero un battesimo dell’aria. Comico. Voliamo tra i pennacchi sibilanti dei geyser che formano come una guardia d’onore.
Il Professore, felice, comodamente seduto, ne approfitta per disegnare sul suo taccuino (ha ancora un debole per la carta) la sagoma di un canguino. Sorvolammo così un paesaggio di ghiaccio e fuoco. Fino ad una grotta nella quale venimmo depositati.
Era la casa dei nostri ospiti.
Stalattiti sontuose offrivano tutte le sfumature del rosso e marrone a causa dell’acqua che filtrava attraverso gli strati del terreno. Abbracciavano il letto d’un fiume dalle acque leggermente fosforescenti dove apparivano lampi argentei che in verità erano pesci.
Allora si attivarono le loro “donne” che non si distinguono che per il rosa chiaro e bruno dei loro capezzoli. Ci accolsero con una sorta di riverenza.
Sul fondo di quella che ricordava la conchiglia di una capansanta ci si offrì una “cucchiaiata” di qualcosa che aveva il gusto e l’aspetto del miele. E che è pertanto dello stesso colore del pelo dei nostri ospiti.
Non siamo riusciti a pronunciare correttamente il nome locale del nostro ospite. Così tra di noi, l’abbiamo chiamato Teddy in ricordo di come noi anglosassoni chiamavamo l’orsacchiotto, Teddy Bear.
Mentre oziavamo nella grotta, im- provvisamente, Teddy tuffò la mano, acchiappò un pesce e con un colpo di denti, gli staccò la testa che poi degustò, prima di ributtare il resto del corpo nei flutti dove venne subito divorato dai suoi simili. Ci invitò ad imitarlo. Cortesemente, declinammo la sua offerta. Sembrò sorpreso.
Una delle loro specialità è quella di sgranocchiare un grande “gambero” che pescano in bacini d’acqua fumante e assaporano senza lasciarlo raffreddare. La sostanza che ha il sapore di miele proviene, come da noi la resina, da un albero che cresce nelle regioni più temperate del pianeta. È perciò raro e apprezzato.
Vedemmo presto che il miele ceb’nol tende, soprattutto in quelli che non sono preparati, a disturbare un po’ la psiche. Sembra abbassare le difese. Vi porta a considerare che niente sia davvero importante, a lasciarvi andare. Questo potrebbe spiegare il comportamento dei nostri ospiti. È così che presso questo popolo, già buono per natura, la nostra presenza sembrava essere già entrata nell’ordine delle cose.
Certo, gli Ursi Sapiens ci avevano adottato.
Abbiamo avuto anche un sacco di successo con le loro donne. Sono pronte a tutte le esperienze e attente ad ogni nostro capriccio. Hanno un temperamento tranquillo. Poca passione, molta dedizione.
Una di loro ha detto di aspettare un bambino per me.
Quale creatura più o meno mostruosa potremmo generare? Non mi sembra sia possibile. Ma resta da vedere. E se dovessimo tornare? Infine, se tornassimo.... Naturalmente, glie l’ho promesso. Ho mentito.
Ma se questo ritorno fosse possibile, sarei pronto. Non dimenticherò mai l’emozione della sua pelliccia, come la seta sotto la mia mano.
Da quanto tempo eravamo ospiti degli Urso Sapiens? Conquistati dall’atmosfera, ci eravamo lasciati andare.
Le indagini condotte all’inizio del nostro soggiorno avevano dimostrato che gli altri due continenti del pianeta sono coperti da una specie di permafrost ed ospitano alcuni animali curiosi e probabilmente amichevoli come i Canguini. Ma, per la disperazione di Boris, le nostre istruzioni non ci impongono di esplorare ulteriormente questi territori. E noi non ci proponiamo di condurre ulteriori ricerche.
Senza remore, ci lasciammo semplicemente vivere fino al momento in cui Raimon dalla nostra nave Omega ci richiamò all’ordine: «Ma cosa state facendo laggiù, in mezzo dei vostri orsacchiotti e cani volanti? Siete ritornati bambini? Preparatevi per la nuova missione! Vi invierò istruzioni.»
Così sapemmo già la nostra nuova destinazione. Ma che mi stava succedendo? Abbiamo un’intera galassia da esplorare metodicamente e poco tempo da perdere.
«Perché dovete andar via? Restate con noi,» dissero i nostri ospiti. «Dove starete meglio che qui? Cosa state cercando? Un posto ove vivere bene. Quale posto migliore di questo?» Abbiamo faticato per condurli ad accettare che avremmo dovuto partire. In realtà, non l’hanno mai capito.
Come veri amici, ci siamo abbracciati. Gli Urso Sapiens odoravano di miele. Un profumo che indugiava nei nostri caschi.
I reattori erano accesi...
Un pianeta che rimarrà per i bambini cresciuti che siamo “la terra degli orsacchiotti”... Gli orsacchiotti? Hum! Beh, perché no?
(Traduzione e adattamento
di
Giorgio Sangiorgi)Cinque figure impacciate ci attendevano. Parevano esitare o, almeno, prepararsi all’incontro.
Uno di loro si staccò dal gruppo, avanzò ondeggiando. Paffuto, piuttosto panciuto, un po’ pesante, ma comunque piacevole. Ancora tutto rosa. Tutti e cinque indossavano un perizoma, o piuttosto una sorta di gonna, su una “pelliccia” che subito virava verso il color miele, mentre tutt’intorno il pianeta riacquistava il suo candore polare.
Un orsacchiotto. L’immagine, che subito mi si impose. Un orsacchiotto sintetico trovato dalla mia prozia in un locale situato sotto il tetto e da lei chiamato “soffitta”. Un giocattolo che, a giudicare dal suo stato, aveva recato gioia a molte generazioni di bambini.
Il mio secondo, Walker, ha sentito o creduto di sentire che avevo ceduto ad una sorta di tenerezza, una di quelle debolezze che può suscitare il ricordo: «Ha un bel faccino, ma attenzione comunque.»
L’orso è venuto da me mentre i suoi quattro compari facevano un passo avanti. L’orso si fermò a pochi metri da noi, dondolando di nuovo, sul posto. Il suo modo di salutarci? O avvertirci? Nel mio “interlocutore” nessun segno di aggressività. A mala pena, nei suoi occhi giallastri, un po’ glauchi, come un interrogativo.
I cinque personaggi bruscamente caddero in ginocchio. D’una sola voce sorprendentemente sottile per esseri così massicci avevano iniziato a salmodiare... qualcosa.
Abner mi ha suggerito di usare il TC, il Transcosm. Ed è ciò che ho fatto. Con mia grande sorpresa, questa nuova attrezzatura, spesso capricciosa e inaffidabile, ha dato una versione comprensibile della frase rituale che l’“orso” ripeteva come una litania:
«Onore agli inviati del Grande Orecchio che ci ascolta e giudica, giorno e notte, onore agli inviati del Grande Occhio che ci osserva e giudica, giorno e notte.» Questo è quello che ho capito. Dunque ci siamo inchinati, a braccia aperte. Le cinque figure scattarono in piedi come per il rilascio di una molla. L’“orso” si avvicinò ancora. Eravamo distanziati solo dalla lunghezza di un braccio. Sospettavo che Abner sarebbe divenuto un po’ nervoso. Il nostro compagno, il professor Boris Paradine, non perdeva mai un momento di battezzare ogni “nuova” creatura. Li aveva quindi già “classificati”, gli Urso Sapiens.
Arrivò un gruppo di loro compagni in piedi su una slitta trainata da animali potenti che avevano qualcosa del pinguino e del canide. Per spostarsi approfittano di una colata di ghiaccio bluastro tra le rocce. Ci fecero cenno di prender posto, di sederci sulla slitta che, appena ci fummo sistemati, prese il volo, sostenuta dalle potenti ali di queste creature che Boris, molto eccitato, aveva subito battezzato Canguini.
Ecco gli astronauti trattati come turisti ai quali gli autoctoni offrirebbero un battesimo dell’aria. Comico. Voliamo tra i pennacchi sibilanti dei geyser che formano come una guardia d’onore.
Il Professore, felice, comodamente seduto, ne approfitta per disegnare sul suo taccuino (ha ancora un debole per la carta) la sagoma di un canguino. Sorvolammo così un paesaggio di ghiaccio e fuoco. Fino ad una grotta nella quale venimmo depositati.
Era la casa dei nostri ospiti.
Stalattiti sontuose offrivano tutte le sfumature del rosso e marrone a causa dell’acqua che filtrava attraverso gli strati del terreno. Abbracciavano il letto d’un fiume dalle acque leggermente fosforescenti dove apparivano lampi argentei che in verità erano pesci.
Allora si attivarono le loro “donne” che non si distinguono che per il rosa chiaro e bruno dei loro capezzoli. Ci accolsero con una sorta di riverenza.
Sul fondo di quella che ricordava la conchiglia di una capansanta ci si offrì una “cucchiaiata” di qualcosa che aveva il gusto e l’aspetto del miele. E che è pertanto dello stesso colore del pelo dei nostri ospiti.
Non siamo riusciti a pronunciare correttamente il nome locale del nostro ospite. Così tra di noi, l’abbiamo chiamato Teddy in ricordo di come noi anglosassoni chiamavamo l’orsacchiotto, Teddy Bear.
Mentre oziavamo nella grotta, im- provvisamente, Teddy tuffò la mano, acchiappò un pesce e con un colpo di denti, gli staccò la testa che poi degustò, prima di ributtare il resto del corpo nei flutti dove venne subito divorato dai suoi simili. Ci invitò ad imitarlo. Cortesemente, declinammo la sua offerta. Sembrò sorpreso.
Una delle loro specialità è quella di sgranocchiare un grande “gambero” che pescano in bacini d’acqua fumante e assaporano senza lasciarlo raffreddare. La sostanza che ha il sapore di miele proviene, come da noi la resina, da un albero che cresce nelle regioni più temperate del pianeta. È perciò raro e apprezzato.
Vedemmo presto che il miele ceb’nol tende, soprattutto in quelli che non sono preparati, a disturbare un po’ la psiche. Sembra abbassare le difese. Vi porta a considerare che niente sia davvero importante, a lasciarvi andare. Questo potrebbe spiegare il comportamento dei nostri ospiti. È così che presso questo popolo, già buono per natura, la nostra presenza sembrava essere già entrata nell’ordine delle cose.
Certo, gli Ursi Sapiens ci avevano adottato.
Abbiamo avuto anche un sacco di successo con le loro donne. Sono pronte a tutte le esperienze e attente ad ogni nostro capriccio. Hanno un temperamento tranquillo. Poca passione, molta dedizione.
Una di loro ha detto di aspettare un bambino per me.
Quale creatura più o meno mostruosa potremmo generare? Non mi sembra sia possibile. Ma resta da vedere. E se dovessimo tornare? Infine, se tornassimo.... Naturalmente, glie l’ho promesso. Ho mentito.
Ma se questo ritorno fosse possibile, sarei pronto. Non dimenticherò mai l’emozione della sua pelliccia, come la seta sotto la mia mano.
Da quanto tempo eravamo ospiti degli Urso Sapiens? Conquistati dall’atmosfera, ci eravamo lasciati andare.
Le indagini condotte all’inizio del nostro soggiorno avevano dimostrato che gli altri due continenti del pianeta sono coperti da una specie di permafrost ed ospitano alcuni animali curiosi e probabilmente amichevoli come i Canguini. Ma, per la disperazione di Boris, le nostre istruzioni non ci impongono di esplorare ulteriormente questi territori. E noi non ci proponiamo di condurre ulteriori ricerche.
Senza remore, ci lasciammo semplicemente vivere fino al momento in cui Raimon dalla nostra nave Omega ci richiamò all’ordine: «Ma cosa state facendo laggiù, in mezzo dei vostri orsacchiotti e cani volanti? Siete ritornati bambini? Preparatevi per la nuova missione! Vi invierò istruzioni.»
Così sapemmo già la nostra nuova destinazione. Ma che mi stava succedendo? Abbiamo un’intera galassia da esplorare metodicamente e poco tempo da perdere.
«Perché dovete andar via? Restate con noi,» dissero i nostri ospiti. «Dove starete meglio che qui? Cosa state cercando? Un posto ove vivere bene. Quale posto migliore di questo?» Abbiamo faticato per condurli ad accettare che avremmo dovuto partire. In realtà, non l’hanno mai capito.
Come veri amici, ci siamo abbracciati. Gli Urso Sapiens odoravano di miele. Un profumo che indugiava nei nostri caschi.
I reattori erano accesi...
Un pianeta che rimarrà per i bambini cresciuti che siamo “la terra degli orsacchiotti”... Gli orsacchiotti? Hum! Beh, perché no?
Un saluto molto cordiale all'amico Pierre Jean che ritrovo felicemente, con il suo bel racconto, sulle pagine di Pegasus.
RispondiEliminaBel racconto del amico Brouillaud, tenero, passionale e sorprendente.
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