Il giorno in cui morii
il sole splendeva alto nel cielo invernale, incurante sia della stagione che
delle previsioni meteo. Avevo compiuto 88 anni due settimane prima.
Ero seduto sul dondolo,
a godere il tepore del sole. Avvertii un dolore lancinante alla sommità della
testa, e mi accasciai sul lastricato del portico in una posa innaturale. Una
morte pulita, rapida.
Osservai per qualche
istante il mio corpo vestito di blu scuro spiccare sulle mattonelle candide,
poi mi avviai verso la luce.
Il buio mi inghiottì,
all’improvviso. Sembrò durare un’eternità.
Mi risvegliai, nudo,
disteso su un tavolo metallico. Curiosamente, non avevo freddo, e nemmeno
provavo la sensazione di scomodità in genere associata al metallo. Non ero
imbarazzato, soltanto seccato.
Ebbi la piacevole
sorpresa di sentirmi in piena forma: il mio corpo era in perfetto stato, come
quando ero giovane e forte. Avrei potuto vincere di nuovo la gara di corsa
campestre che mi aveva fruttato una medaglia, quando avevo trent’anni e tanta
energia da surclassare gli avversari, se soltanto non fossi stato trattenuto da
una forza tanto sconosciuta quanto potente.
Provai ad alzarmi, ma
tutto ciò che mi riuscì fu sollevare un braccio fino a qualche centimetro dal
tavolo. Lo lasciai ricadere: non potevo lottare contro la sensazione di
schiacciamento che ogni movimento mi procurava.
Una voce, che sembrava
metallica quanto il tavolo, rimbombò nella mia testa. Diceva di stare
tranquillo: tutto sarebbe terminato in poco tempo. Il termine usato non era
quello, ma il concetto era simile.
Mi rassegnai,
consapevole della mia debolezza. Pensai che fosse dovuta al fatto che ero
appena morto.
La voce mi rassicurò:
ero trattenuto da un campo di forze, lo stesso che veniva usato per analizzare
il mio corpo. Ed ero morto da alcuni giorni, nei quali ero rimasto in
animazione sospesa.
Come si può essere
animati se si è morti?
La mia spontanea
riflessione ebbe una risposta. La morte non è definitiva, ma temporanea. Dopo
aver effettuato i dovuti controlli, sarei stato rispedito sulla terra.
Oh, no! Ancora…
protestai.
Ne avevo di strada da
fare prima di poter aspirare a diventare un puro spirito, affermò la voce.
Chi sei?
Questa domanda non
ottenne risposta, nemmeno un grugnito di disapprovazione o qualcosa di simile.
Aspettai. La pazienza
non mi faceva difetto. Inoltre, non avevo molta scelta: la voce era stata
categorica. Ero condannato ad abitare ancora un corpo mortale.
Trascorse del tempo, o
l’equivalente di esso. Molto o poco non riuscii a capirlo.
Il giorno in cui nacqui
il sole splendeva alto nel cielo invernale.
Con il bel racconto di Teresa diamo inizio alla seconda fase di Pegasus.
RispondiEliminaBello e sorprendente...
RispondiEliminaGrazie.
EliminaTeresa
Quando ho iniziato a leggere questo racconto mi sono immediatamente incuriosita dalla particolarità dell'incipit e così ho proseguito, restando rapita dalla storia.
RispondiEliminaProprio bello!
Brillante. La narrativa di Pegasus si arrichisce di un altro ottimo racconto.
RispondiEliminaAntonio