lunedì 20 giugno 2016

L’UNIVERSO E LA STUPIDITÀ UMANA di Paolo Secondini - Peppe Murro

«E voglio concludere,» disse il grande scienziato dai lunghi capelli bianchi, «con la mia massima abituale: Due cose sono infinite, l’universo e la stupidità umana, ma quanto all’universo ho ancora qualche dubbio
La sala risuonò degli applausi scroscianti dei molti spettatori – uomini e donne – entusiasti. E quando, dopo alcuni minuti, essa si vuotò, Helene Dukas, la segretaria, si avvicinò a Einstein, e in tono confidenziale gli disse:
«Possibile, Albert, che ogni volta tu debba terminare la conferenza con quelle parole? Sono noiose, dopotutto.»
«Noiose?!... Non sono affatto noiose, mia cara. Ognuno di noi, a cominciare da me stesso, ha bisogno di sentirsele dire, continuamente… Giudica tu, Helene, da quanto m’è capitato di vedere: dimmi se non ci sono stupidi, in gran quantità, sul nostro pianeta.»
«Stupidi in gran quantità, Albert?» La segretaria incrociò le braccia sul petto. «E va bene, sentiamo. Cos’è che t’è capitato di vedere?»
Ed Einstein, dopo essersi alquanto schiarita la voce, prese a raccontare:
«Il signor Bennett, un tizio che abita in fondo alla strada, l'altro ieri girava con una sega in mano e una scala sulle spalle, bofonchiando improperi disgustosi e lanciando occhiate micidiali verso la finestra del suo vicino, il signor Wordfish. Dovevo passare di là e senza volerlo l'ho sentito mugugnare: “Gli faccio vedere io la magnolia… che ci vuole a tagliare dei rami? Sì, sì... guarda pure,” rivolgendosi verso la finestra. Lo vedo poggiare la scala e salirvi sopra, sempre in un mare di brontolii. Si mette a cavalcioni su un ramo e comincia a segare… Signor Bennett, cerco di dirgli, veda che... Mi interrompe con una abbaiata mortale: "Lei si faccia gli affari suoi" e continua a segare… Ma, veda, vorrei solo dirle... "Vada a farsi fottere" mi apostrofa… Allora taccio, vado un po' più avanti e mi fermo a osservare: Bennett sega furiosamente il ramo. Il mio inveterato spirito di fratellanza umana mi spingerebbe a parlargli ancora, ma poi un diavoletto malizioso mi dice: "Aspetta, e taci." Non ci crederesti, ma, mentre Bennett lancia l'ennesima occhiataccia alla finestra, il ramo quasi segato cade... e Bennett con lui. Si era messo dal lato sbagliato, era questo che volevo dirgli… Però, che vuoi, anche gli stupidi sanno segare. E sono miliardi.»

sabato 18 giugno 2016

IN ATTESA CHE ARRIVI FIORENZA (Prima Parte) di Renato Pestriniero


Essi costruiscono con pietre e non si accorgono

che ogni loro gesto per posare la pietra nella calce
è accompagnato da un’ombra di gesto
che posa un’ombra di pietra in un’ombra di calcina.
Ed è la costruzione d’ombra che conta.
(Jean Giono)
 
Il cane si muoveva negli intrichi di arbusti che circondavano la casa, seguendo tracce accessibili solo alla sua sensibilità canina. Dal terreno sbocciò un fiore metallico. I suoi petali si allargarono fulminei e squarciarono il cane.
Duccio
Mancava poco alle tredici. Quando il telefono suonò, lui intuì che era la mamma. Si rendeva conto dell’assurdità, il suono di un telefono non può essere influenzato da chi chiama. Eppure succedeva sempre più spesso.
- È sua madre, dottor Silvestri. Sulla due.
La madre di Silvestri viveva sola, in una delle vecchie case sparse oltre la periferia dove la piattezza del panorama era interrotta dallo spiralare della tangenziale e dai tralicci dell’alta tensione.
- Duccio – disse la voce della mamma. – Sta uscendo. Devi deciderti a venire.
Lui guardò Monica, la segretaria. La ragazza sembrava intenta alla tastiera.
- Cos’è che sta uscendo, mamma?
- Ma il ragno, no? Dal muretto del giardino. Se uscisse del tutto potrei schiacciarlo, ma se ne sta rintanato tutto il giorno dentro la fessura e sol…
- Mamma, adesso non…
- … e soltanto verso sera mette fuori una zampa. A volte ne mette fuori un paio.
- Mamma…
- Lasciami parlare! Fa freddo uscire di sera per scoprire dove vada. E alla mattina è già rientrato nella fessura. Cosa pensi che faccia durante la notte, potrò trovarmelo nel letto?
- No. Verrò appena esco dall’ufficio.
- Bravo. Ma devi sbrigarti, perché se arrivi tardi mica lo vedi.
- Sì, mamma, ho capito.
- Un’altra cosa. Il pallone è pieno di bestie. Mi tolgono la luce. È talmente pieno che non ci vedo nemmeno a camminare. – La voce della donna aveva adesso un tono flebile, lagnoso: – Ho telefonato a quell’altra, a tua sorella, ma non la trovo mai. Sarà appiccicata a qualche schifoso che le sbava addosso, dopo che ho sacrificato tanto per…
- Ci vediamo dopo.
- Duccio mio, prometti che verrai? Sei l’unico che mi può aiutare.
- Ho detto che ci vediamo tra poco. – Duccio incontrò lo sguardo della segretaria.
- Bravo, ti aspetto. Fa presto, Duccio, mi raccomando.
Era tentato di uscire subito, ma doveva completare la pratica in corso. Pregò Monica, nel caso sua madre avesse ritelefonato, di dire che lui era già uscito.
La mamma richiamò dopo mezz’ora.
- Era ancora sua madre. – Disse Monica dopo aver messo giù il telefono. Soffermò lo sguardo su Duccio qualche attimo più del necessario.
Ancora una manciata di minuti, poi non riuscì a trattenersi. Affidò a Monica l’incarico di finire il lavoro. La ragazza fece notare che certe responsabilità non le competevano e che si sarebbe rivolta al dottor Mancini.
- Va bene, faccia come crede.
Duccio si lasciò alle spalle la periferia. Dicembre era appena passato. Un leggero nevischio lo obbligava a usare il tergicristallo intermittente. Nel buio del cielo intravedeva le luci rosse in cima ai tralicci dell’alta tensione. La tangenziale era una fila di lumini gialli che s’involava in una larga curva.
Ancora mezzo chilometro e la casa fu dinanzi a lui, contornata dal muretto sbrecciato, le finestre serrate, apparentemente disabitata. Non usò le chiavi e nemmeno suonò, forse la mamma si era assopita e lui voleva evitarle un risveglio brusco. Bussò nel modo convenuto. Quel suono di nocche l’avrebbe estirpata dal sonno più profondo senza provocarle ansia.
Nessun’altra delle case sparse intorno era più abitata, tutte ridotte ormai a ruderi. Solo la casa dove la mamma si ostinava a vivere era sopravvissuta discretamente.
Un fruscio. Duccio aspettò la solita domanda, poi: - Sì, mamma, sono io. – La porta si aprì facendo strusciare le imbottiture che la sigillavano. Anche le finestre erano chiuse allo stesso modo, listate di gommapiuma e nastro adesivo. Rimanevano così tutto l’anno.
Con lo sbuffo di luce giallastra che lo investì quando la porta fu aperta arrivò anche l’odore della casa, un miscuglio di polvere rappresa, umidità di cotture e un sottofondo dolciastro di sciroppo per la tosse. Non vedeva la mamma da una decina di giorni. La trovò ancora più curva. La malattia le deformava il corpo in modo sempre più deciso. Evitò di accendere la luce grande perché era lei che, eventualmente, l’avrebbe fatto, e lui rispettava il rituale. L’unico chiarore proveniva dalla lampadina da 15W dell’abat-jour sul comodino accanto al letto. Nella penombra, la figura scura della mamma s’inoltrò all’interno della casa, un braccio teso per mantenere il contatto con il muro e i contorni dei mobili. Il termostato era regolato come al solito sui sedici gradi; lei preferiva coprirsi con vecchie robe messe l’una sull’altra che la sformavano ancora di più. Sembrava un enorme carapace che strisciava lento, silenzioso.
- Non accendere la luce – disse la mamma. - Ti faccio vedere il ragno. 
Prese una piccola torcia e si avvicinò alla portafinestra. – Ho fatto un buco all’altezza giusta. Tu guarda attraverso la fessura. – Accese la torcia dopo averla accostata al foro. Un filo di luce trasse dal buio una costolatura del muretto del cortile che lei chiamava giardino. – Vedi? Proprio tra quei due mattoni… quel segno nero è una zampa. Un po’ alla volta esce del tutto e poi scappa e non lo vedo più. Chissà dove andrà a procurarsi il cibo durante la notte. – Spense la torcia. – Pensi che troverà un passaggio per entrare qui?
Duccio sospirò. – Perché non ti metti tranquilla e guardi la televisione, eh?
- Ma l’hai visto? Hai visto come tiene fuori la zampa?
- Sì. Adesso accendi la luce e dimmi cos’altro ti serve che devo scappare.
- Sempre di fretta. Mi sembri quello sgangherato di tuo padre, continuamente alla ricerca di chissà cosa. E quando è diventato matto del tutto, guarda come mi ha lasciata.
- Posso accendere?
- Faccio io. Ma tanto, non si vede niente delle bestie che si sono infiltrate nel pallone.
Dopo che la donna ebbe accesa la luce, Duccio salì su una sedia per staccare il globo di vetro, lo rovesciò nell’acquaio e i corpi rinsecchiti di tre zanzare scomparvero nel tubo di scarico. Rimise il globo. – Ecco fatto.
- Quand’è che mi farai il lavoro in giardino, Duccio? – La voce della mamma aveva ripreso il tono querulo. – Non voglio più vederla quella faccia. Mi ha rovinato la vita e continua a perseguitarmi.
- Ho già parlato con l’impresa. Uno di questi giorni portano il materiale.
- Anche le piante, mi raccomando.
- Certo, anche le piante. – Assicurò Duccio sistemandosi il giubbotto. Si chinò per darle un bacio. Ogni volta doveva chinarsi un poco di più. Dal viluppo che copriva il corpo della vecchia filtrava un odore rancido di capelli non lavati. La baciò sulle guance infossate. Sentiva una specie di singulto vicino all’orecchio dove la mamma teneva appiccicate le labbra.
Luis
- Ma cos’è ‘sta roba, stai sudando come una bestia. Sarai mica malato?
Luis si passò il fazzoletto sulla fronte madida. – Ma che malato, è che fa un caldo qui dentro!
La ragazza lo fissò mettendoglisi scherzosamente a contatto di naso. – Di’, tutta ‘sta faccenda del caldo e del sudore sarà mica perché è la prima volta?
La luce proveniente dall’esterno era appena sufficiente per tratteggiare le loro figure. Solo quando passava una macchina i fari mettevano per qualche attimo in evidenza i particolari. Luis prese dal portaoggetti il pacchetto di sigarette.
- Ennò, adesso ti metti pure a fumare! Credi che abbia tutta la serata per te? Vabbé che non sei da buttar via ma il taim è il monei, come dicono gli americani.
- Io non ti pago?
La ragazza si ridistese sul sedile abbassato. – Ci mancherebbe. Solo che… uno paga più volentieri se rimane soddisfatto. Questa ce la fumiamo dopo, ochei? – Gli si accostò ancora con mossa avvolgente. A pochi centimetri dai suoi occhi, Luis aveva una vaga immagine di volto femminile con una gran massa di capelli scuri e lo sprazzo chiaro di un sorriso. Sentiva sull’inguine il peso del suo corpo che si muoveva con abilità professionale. Passò una macchina. Il volto della ragazza scoppiò in una fuga d’ombre. Luis avvertiva con disagio le gocce di sudore spuntargli sulla fronte, il tessuto fradicio della camicia appiccicarsi sotto le ascelle, il respiro farsi pesante. E il corpo che si stava seminando di macchie rosse. Come al solito.
La ragazza continuava a strofinarsi. – Forse ho capito cos’è che vuoi te, qualcosa di speciale ma non hai il coraggio di chiederlo. Perché allora non vieni da me? Qui va bene appena per una sveltina.
Luis si slacciò il colletto bagnato. – Senti. – disse. - Non è serata. A volte càpita, no? Ecco, prendi e… scusami.
Lei prese il danaro e fece una smorfia che voleva essere buffa.  – Facciamo un altro tentativo? Dài, che col giochetto che la Marisa sa fare così bene…
Il giovane scosse la testa, poi aprì la portiera. La ragazza scrollò le spalle. Prese la pelliccia e scese. Luis mise in moto curvando lentamente per immettersi sulla strada principale. Attraverso lo specchietto vide la ragazza che parlava con le altre. Ridevano.
Duccio
- Dovresti curarti di più, sei sciupato.
Dalla porta e dalle finestre sigillate non entrava nessun rumore, nemmeno il brusio della tangenziale. La televisione era spenta, il bruciatore non ronfava perché il termostato tenuto basso non gli trasmetteva l’ordine di accendersi. Solo dal frigo arrivava una sorta di borborigmo. Erano seduti l’uno di fronte all’altra, lei sulla sedia di vimini con lo schienale alto. In quella sedia aveva ancor più l’aspetto di un fagotto scuro buttato lì in un momento di distrazione.
- Allora, mi dici cos’è che non va? – Insistette la mamma.
- Niente, va tutto bene. Sono solo un po’ stanco.
- Perché non ti prendi una bella vacanza? Un paio di giorni possono bastare… solo che se mi dovesse servire qualcosa… A proposito, non ti ho ancora detto perché ti ho fatto venire qui… ma te lo dirò dopo, adesso parlami di te.
- Che ti devo dire?
La vecchia gli mise una mano sul ginocchio. Solo le punte delle dita uscivano dalla manica del maglione grigioferro. – Duccio, ascoltami, hai la fortuna di essere solo, senza donne tra i piedi che ti succhiano il sangue, niente moglie, niente figli, nessuno dei problemi che rovinano la gente. Perché non ti decidi a venire qui? Avresti spazio, tranquillità… Duccio, mi ascolti?
- Sì, mamma.
- Non so dove abiti, però tua sorella, durante una scappata che si è degnata di fare, mi ha detto che vivi in un paio di stanze con l’umidità che cola dalle pareti.
- Lo sai che lei esagera sempre.
La vecchia non rispose, ma dalla fessura delle labbra stirate uscì un lamento prolungato, appena percettibile. Erano nella stanza chiamata soggiorno perché c’era la televisione. Una bava di luce filtrava dalla cucina attraverso la porta a vetri. Il corpo della mamma oscillava avanti e indietro chinandosi fino a toccare con la fronte la mano che teneva sul ginocchio del figlio. Lui sapeva che sarebbe andata a finire così, succedeva sempre quando sua madre tentava di convincerlo ad andare a vivere lì.
- Cerca di calmarti, altrimenti stai male e devo fermarmi, con tutto il lavoro che ho lasciato in sospeso. – Nel dire questo, Duccio aveva stretto il corpo della mamma e l’aveva tratto a sé. Adesso aveva la sua testa appoggiata alla spalla. Tra le braccia teneva un fagotto singhiozzante. Poi, con lieve sforzo, spostò la vecchia sulle proprie ginocchia e, insieme, continuarono il movimento di ninnananna. Avvertì odore di lana rilavorata, lasciata per anni nell’umidore di una scatola, avvolta in fogli di giornale.
Quando la vecchia si fu calmata, Duccio la depose sulla sedia di vimini. – Allora, perché mi hai fatto venire?
- La lampadina del comodino si è fulminata.
- Potevi metterne un’altra, ne hai un cassetto pieno.
- Non mi va di lavorare con l’elettricità, posso prendere la scossa e il cuore non resisterebbe. Se ci fosse quel pazzo di tuo padre qualcosa riuscirebbe a combinare, anche se dovrei pregarlo. Mi chiedeva cosa avrei fatto quando non ci sarebbe stato più. Lui aveva ben chiara nella sua testa malata l’intenzione di abbandonarmi, e non certo crepando. Sembrava un forsennato nell’inseguire le sue idee strampalate.
Duccio andò nella camera da letto seguìto dalla vecchia che, strisciando lungo la parete, continuava a parlare dell’uomo che l’aveva abbandonata. Nell’osservare la spina, Duccio si accorse che non era inserita del tutto nella presa. La sistemò e premette il pulsante. L’abat-jour si accese.
- Non avevi inserito bene la spina – disse. – Bastava premere un poco di più.
- Tu sei giovane, per te è niente fare sforzi che a me potrebbero costarmi la vita. Sei sicuro di averla messa bene? Mi sembra faccia meno luce. Piuttosto, quando verrai adesso per quell’altro lavoro?
- Appena mi sarà possibile. Intanto hanno portato il materiale. Alle piante ci si penserà al tempo giusto, fra un paio di mesi. Dirò all’uomo di sistemare anche il muretto.
- Non voglio estranei in casa mia, una decina di mattoni sei capace di metterli anche tu. Se abitassi qui potresti lavorare in giardino tutti i sabati e le domeniche e le feste comandate, piantare piante, fiori e anche ortaggi e alberi da frutto. Ma non mi ascolti. Io però quella faccia sul muretto non la voglio più vedere, hai capito? Sono obbligata a tenere chiuso anche da questa parte per non averla sempre davanti agli occhi.
- Ho scrostato il muretto già due volte, mamma, e tu continui a vederla. È solo immaginazione.
- Lo sai che non è vero. È la faccia di quel pazzo di tuo padre che mi perseguita e se ne starà lì fino a vedermi morire.
Duccio
Già nell’entrata cominciò a calpestare fogli di giornale, poi vide che ogni stanza ne aveva il pavimento coperto.
- Si sta sgretolando tutto – gemette la vecchia guardandosi intorno. – Ho messo questi giornali per riparare il pavimento. Adesso che comincia il caldo vorrei aprire qualche finestra ma mica posso far vedere i pavimenti in queste condizioni, anch’io ho il mio orgoglio!
- Che c’entra l’orgoglio, mamma. Sarebbe invece tempo di togliere quella roba incollata sulle finestre e far entrare aria e sole.
- Mio povero Duccio, anche tu ti sei imbarbarito come quella sciagurata di tua sorella che chissà dove è andata a finire e cosa starà combinando! Tu ne sai niente, Duccio? Dillo alla tua mamma se sai qualcosa.
- Ma cosa vuoi che combini, ha il suo lavoro all’ospedale, i suoi impegni. Qualche volta ci sentiamo. So che, quando può, viene a trovarti, a volte si ferma qui a dormire.
- Sarà più di un mese che non si fa viva nemmeno al telefono. Ormai quella è perduta. E anche tu ti sei trasformato se non capisci perché non voglio aprire le finestre e mostrare i pavimenti rotti. E poi, cosa vedrei oltre la tangenziale e i tralicci dell’alta tensione? Ero abituata a ben altri panorami prima di incontrare quell’incosciente di tuo padre. E adesso eccomi qua, nel deserto. Credi che non mi piacerebbe aprire almeno la portafinestra? Ma c’è quel ragno che diventa sempre più gonfio. E adesso mi troverei davanti agli occhi non solo la faccia di tuo padre ma anche le pietre che hai fatto portare e che sono ancora lì. Sai che spettacolo. Quando ti deciderai a tirare su quei due metri di muretto, eh?
Mentre la vecchia parlava, Duccio passava da una stanza all’altra calpestando fogli che gridavano avvenimenti sbiaditi dall’oblio, riviste di moda diventate bizzarrie. – Aspetto i rampicanti – spiegò. – Così sistemo il muretto e metto a dimora le piante. Ti piaceranno, vedrai.
La vecchia lo seguiva. Non avendo la forza di staccare i piedi dal pavimento, stracciava e trascinava i fogli calpestati. La scia di pavimento nudo che generava dietro di sé dava l’impressione di un secreto. Adesso che il grande freddo era passato, si era tolta qualche indumento, mettendo maggiormente in evidenza la stortura dello scheletro.
- Ho dovuto spostare la cucina a gas – disse la donna. – Dalla canna fumaria è venuto giù qualcosa. Bisognerà coprire anche quella.
- Rischierai di soffocare se chiudi…
- Ma dal camino può entrare di tutto! Tu sai a cosa mi riferisco.
- Il ragno?
- Si capisce. Anche se la roba che oggi è caduta dentro la pentola non era il ragno ma una specie di muffa polverosa. Il brodo l’ho dovuto passare, e nel passino è rimasto qualcosa che sembrava fondo di caffè.
- Ma non hai buttato via tutto?
- La roba schifosa sì ma il brodo era buono. Intanto ho spostato la cucina così se viene giù qualcos’altro non andrà a finire dentro la pentola. La fatica! Credevo di morire.
Duccio osservava sua madre mentre prendeva il bricco dallo stipetto, toglieva da una scatola un sacchettino di plastica con del tè, la cui estremità arrotolata era fermata da una molletta. Le sue braccia anchilosate sembravano chele.
La vecchia mise l’acqua sul fuoco. Lui ricordava di aver visto quel bricco da sempre. L’interno del recipiente aveva una crosta di calcare. Sua madre si apprestò a disporre su un piatto i dolci che lui aveva portato. Per qualche minuto nessuno dei due parlò. Nell’aria immobile si percepiva solo il fruscio del gas. Erano le tre del pomeriggio di un sabato. Al di là delle pareti il sole splendeva. Durante il tragitto dal centro, Duccio aveva lasciato i finestrini della macchina aperti, e, subito dopo la periferia, l’aria gli aveva fatto provare una sensazione che ritenne fosse di libertà.
Un ronzio seguìto da un leggero tonfo lo distrasse da quei pensieri. Adesso il ronzio era accompagnato da una sorta di sciacquio. Guardò nel bricco. Un grosso insetto nero era caduto attraverso il budello della canna fumaria e si dibatteva freneticamente. Duccio versò il contenuto nella tazza del bagno e tirò lo sciacquone.
- Non andava bene? – Chiese la mamma.
- Si era staccato del calcare. Questo bricco dovresti buttarlo.
- Va ancora benissimo, è l’acqua che non è più quella di una volta.
- Quando verrò a sistenare il muretto coprirò il camino. Farò una struttura che lasci passare solo il tubo del bruciatore.
La vecchia sedette di fronte a lui, le sue labbra si stirarono in un sorriso. Un braccio intorpidito si protese verso Duccio. Lui lo strinse. (Segue)

 

lunedì 6 giugno 2016

VENERE E PARIDE di Peppe Murro

Stava latrando sul suo sangue sparso, piegato sulla propria ferita come un animale, quando accanto a lui comparve lei, la Dea.
Venere lo guardò con un misto di apprensione umana e di divina solarità, gli sorrise e… Paride, sono tornata…
Il troiano la guardò a fatica... lei, la causa della spada che lo aveva dilaniato e dello strascico di morte che il suo nome aveva portato a Troia…
Non disse nulla, le parole gli dolevano quanto quella visione. Chiuse gli occhi.
La Dea si avvicinò, col suo tocco divino fermò il sangue…sono tornata… e lo guardò in viso…sorrise di nuovo…ti porto una nuova vita e una nuova Elena, basta che tu lo voglia…
Non era certo d’aver capito, istintivamente si strinse la ferita, meravigliandosi di non provar dolore. Aprì gli occhi…
Ora la vedeva, bella e luminosa nel suo fulgore celeste, e tenera e dolce come può esserlo solo l’amore. Rimproverò i suoi pensieri per quella dolcezza, si disse che stava bestemmiando tutti i suoi morti, e le rovine, e la sua città che bruciava… non c’era dolcezza possibile in un amore che portava distruzione e morte, e neppure ad un solo pensiero di dolcezza sentiva di avere diritto: era stato lui ad uccidere Ettore, non la furia greca, ad avvelenare la vita del padre, a scatenare l’ululato di dolore della madre…e tutto per essersi dato a quella Dea, all’illusione di un amore al di là delle cose e degli uomini. Ma gli uomini, che belve feroci!, coltivano rancore e pretendono sangue… e gli dei, compiaciuti  al loro odio…
Si girò verso la Dea, non gli riuscì di sorridere mentre con lo sguardo le chiedeva …perché?, perché il ritorno e la nuova promessa?! A quali altri disastri lo andava votando, a quali altre feroci illusioni?!
Eppure era dolce lo sguardo della Dea, dolce come ogni promessa, dolce e fatale come tutti gli inganni…
Ti porto una nuova vita e una nuova Elena…devi solo accettare di essere di nuovo mio, il mio servo, il mio sacerdote, il mio amante… devi solo adorarmi come una volta… e lo sfiorò con un gesto leggero, e sembrò che sparisse ogni dolore ed ogni pensiero…solo quelle parole gli turbinavano nell’anima…una nuova vita, una nuova Elena…
E fu allora che lo prese l’orrore, una tenaglia amara ed aspra che quasi gli toglieva il respiro…il suo sogno aveva portato morte e desolazione dovunque avesse posato il piede, ed erano morti, affogati nel loro sangue, gli amici, i fratelli, gli Achei sconosciuti e i principi mortali. Per il suo sogno era cresciuto l’inganno del cavallo fino a distruggere la sua città…ora sì, lo sapeva, quel sogno aveva desolato di rovine la pianura in cui scivolava il suo fiume, quel sogno aveva innalzato un monumento di mura fumanti dove un tempo Ettore domava cavalli e le donne troiane si preparavano all’amore. La colpa era solo sua, quella ferita era giusta, e la morte, si disse, era una punizione appena sufficiente.
Guardò la Dea, il suo sguardo meravigliato e offeso, sentì di nuovo dolore e il caldo del suo sangue…era tutto accaduto, la Dea sarebbe tornata a scivolare sulla schiuma del mare, ed Elena ad essere la moglie infedele che era.
Respirò come un grido, per l’ultima volta.      

 

domenica 29 maggio 2016

PROBLEMA RISOLTO di Fernando Sorrentino

Chi non conosce il Gruppo Finanziario Insignia per operazioni creditizie su veicoli, macchinari agricoli, industriali e beni mobili complessi in genere?
Ho lavorato tre anni alla succursale di Parque Patricios ubicata in avenida Caseros. Promuovendomi di categoria, la ditta mi trasferì alla succursale Palermo, in avenida Santa Fe. Siccome abitavo in calle Costa Rica, a solo sei isolati, il cambio mi tornò decisamente a favore.
Benché il regolamento lo vietasse, alcuni venditori o rappresentanti di prodotti vari visitavano ogni tanto l'ufficio. I capi solevano tollerare e permettevano loro di entrare cosicché era già consuetudine che noi impiegati facessimo acquisti da queste persone.
Fu così che conobbi Boitus, un personaggio abbastanza strano. Era magrissimo e semicalvo, portava degli occhiali antiquati ed indossava sempre il medesimo completo grigio logoro e costellato d’indelebili tracce d’antiche macchie il quale gli dava l'aria di uno venuto fuori da qualche film dell'epoca del cinema muto; pronunciava la erre come fosse la di.
Vendeva enciclopedie e dizionari a rate e, per contanti, altri libri meno costosi. Divenni cliente di Boitus visto che la relazione mi tornava assai comoda: io gli chiedevo il tal titolo del tale autore ed alcuni giorni dopo al più tardi Boitus, scrupoloso, tornava con il libro in questione ed al medesimo prezzo che in libreria.
Non tardai molto a rendermi conto che Boitus era stravagante non solo nell'aspetto, ma pure nelle azioni e nel modo di parlare. Faceva uso d'un esclusivo vocabolario tutto suo: per nominare Juan Pérez, presidente della nazione, faceva riferimento all'amministratore Tizio dei Tali; non camminava per la strada ma per la pubblica via; non viaggiava in autobus, metropolitane o treni, bensì nel sistema di pubblico trasporto dei passeggeri. Non diceva mai “Non so”: sempre Ignoro.
In un'occasione, a fronte d’un certo dialogo, stentai a credere alle mie orecchie. Dalla mia scrivania, mentre prestavo attenzione a particolari del mio lavoro, udii che Lucy —una delle impiegate con maggiore anzianità di servizio e prossima alla pensione— gli chiese:
—Mi dica, Boitus, non ha mai pensato di sposarsi?
La curiosità m'indusse ad alzare gli occhi e ad osservare Boitus. Questi accennò un sorriso comprensivo e, se si vuole, indulgente:
—Vede, signorina Lucy, la sua domanda ha una spiegazione semplice —fece una pausa d'effetto—. Non posso sposarmi per tre motivi: in primo luogo, non sono nelle condizioni economiche; in secondo luogo, manco di denaro; e, in terzo luogo, non ho soldi.
La risposta di Boitus e lo stupore sulla faccia di Lucy mi produssero un attacco di riso che dissimulai meglio che potei. “Bene”, mi dissi, “questo Boitus è un umorista geniale”.
Fatto fu che mi abituai alle periodiche visite di Boitus durante le quali, oltre a concretare l'acquisto di libri, di lui mi divertivano eccentricità, paradossi, ragionamenti e spropositi.
Si presentava con una cartella di cuoio marrone, logora al punto da essere grigiastra, in cui custodiva fatture, ricevute, opuscoli di enciclopedie, biglietti da visita…, insomma, diversi fogli a carattere commerciale che genericamente chiamava, e vada uno a saper perché, elementi di giudizio. Oltre la cartella egli recava però sempre con sé cinque o sei colli: pacchetti di cartone ondulato o scatole di cartone rigido con le pubblicazioni che gli erano state richieste.
Arrivò il giorno in cui il direttore della succursale, il signor Gatti —bonaccione e comprensivo—, fu promosso e trasferito alla sede centrale. Chi ne prese il posto, il signor Linares, non era cattiva persona, ma uomo dal barocco linguaggio si, amante di circonlocuzioni e devoto a norme e regolamenti: come assunse l'incarico ripristinò la regola che non veniva osservata, ed allora né Boitus né gli altri venditori poterono varcare le soglie della succursale Palermo del Gruppo Finanziario Insignia.
Fu un problema minimo rapidamente risolto. Io e Boitus ci scambiammo i numeri di telefono cosicché i miei acquisti e le sue vendite continuarono a svolgersi con solo una cosa ora diversa: invece di consegnarmi i libri in ufficio Boitus me li portava a casa.
A un dato momento mi resi conto ch'era già un anno che lavoravo alla succursale Palermo e che, pertanto, era anche un anno che conoscevo Boitus e che, ad intervalli più o meno regolari, acquistavo libri da lui. In nessun momento s’era egli detto “venditore di libri”: dicevasi diffusore di cultura.
In effetti il diffusore di cultura, ingombro della sua cadente cartella e dei suoi pacchetti e scatole di cartone, arrivava al mio appartamento, mi consegnava i libri, soleva inanellare una sfilza di sorprendenti sofismi e, dopo una quindicina di minuti, se ne andava.
Ricordo molto bene la sua ultima visita; in essa Boitus aveva sciorinato un monologo particolarmente singolare ed assai lungo per mezzo del quale mi rese edotto in merito ad una assurda tassonomia di sua invenzione. Secondo il suo schema il caffè era una pozione, il tè una infusione ed il mate bollito un intruglio; non lasciai però certo che mi spiegasse i fondamenti d'una tale classificazione.
Strana cosa: i suoi argomenti che m'erano risultati inizialmente piacevoli, ad un tratto m'irritarono, indubbiamente per il viscerale rifiuto che provo per l'irrazionalità e l'errore. E benché io avessi dissimulato il mio fastidio, accolsi con gioia il momento in cui Boitus infine si accomiatò con la sua consunta cartella, le sue scatole ed i suoi pacchetti.
Poiché la porta al pianterreno è chiusa permanentemente a chiave, dovetti accompagnarlo per consentirgli l'uscita dall'edificio. Di ritorno all'appartamento m'accorsi che Boitus aveva dimenticato su una sedia uno dei suoi pacchi.
Era una scatola di cartone, rotonda, alquanto simile a quelle che venivano usate per conservare cappelli da uomo. Due nastri verdi, fuoriuscenti dal bordo e ora caduti a fianco, avrebbero dovuto avere la funzione di trasportarla comodamente.
Alzai il coperchio ed all’istante tornai a riporlo. Andai in cucina, scaldai del caffè e mi sedetti a fumare una sigaretta di riflessione finché il mozzicone non giunse al minimo.
Nonostante non avesse ancora potuto giungere a casa propria, chiamai Boitus. La suoneria squillò cinque volte ed entrò in funzione la segreteria telefonica: lasciai un messaggio il cui tono —pur se cortese, perentorio— non lasciava adito a dubbi.
Quella notte Boitus non mi richiamò. Tanto meno il giorno seguente. Tornai a chiamarlo ed a lasciargli messaggi in segreteria per vari giorni ed in orari diversi.
Chiamandolo una settimana dopo squillò non so quante volte ma non risposero né Boitus né la segreteria. “Non sarà connesso”, mi dissi.
Alcune ore più tardi dette risposta alle mie chiamate una voce femminile che recitava: “Telecom informa che il numero richiesto non appartiene a nessun cliente abilitato”. Più avanti, al comporre il numero di Boitus seguì un silenzio assoluto, come se già non esistessero più né il suo numero, né il suo apparecchio.
Quando in ufficio commentai l'accaduto, Rossi, la cui scrivania è attigua alla mia, si offrì di venire a casa:
—Sempre che non t'infastidisca —aggiunse.
—Al contrario —dissi—, ti ringrazio per l'aiuto.
Al termine dell'orario di lavoro Rossi —per la prima ed ultima volta— visitò dunque il mio appartamento. Scoperchiando la scatola ebbe un gesto di contrarietà:
—Perbacco —disse—. La questione sembra complicata.
—Ovviamente si: già t’avevo preavvertito.
Rossi perse poi ogni interesse alla scatola e si distrasse guardando attorno. Riuscì in pochi secondi ad innervosirmi. È egli un inquieto e si lanciò a perlustrare tutto l’appartamento e ad esprimere svariate critiche o suggerimenti che non gli avevo sollecitato del tipo, ad esempio, “Qui faresti bene a mettere uno specchio” oppure “Non hai paraspifferi alle porte? Paiono esservi correnti d’aria”.
Si soffermò davanti al portaritratti di Cecilia Capelli, lo tenne in mano alcuni istanti, gli cambiò di posto leggermente e commentò:
—Così questa è la tua fidanzata? Bella ragazza, mi congratulo con te.
Mi dissi che avrebbe potuto risparmiarsi il commento e le congratulazioni: il mio idillio con Cecilia s’era già venuto alquanto deteriorando e più volte avevo provato la tentazione di togliere il ritratto, visto che la sua sola presenza m’arrecava disturbo.
Passò poi ad analizzare la biblioteca ed approfittò per chiedermi in prestito una Storia del calcio argentino. Detesto prestare libri (e parimenti chiederne in prestito), poiché però era stato tanto gentile da venire a casa per aiutarmi, non osai dirgli di no.
Ho asserito Rossi essere un inquieto. Constatai alcuni giorni più tardi che, al pari, amava parlar troppo. Il signor Linares mi convocò in effetti il venerdì nel suo ufficio e, dopo il mio ingresso, chiuse la porta. Al dittafono ordinò:
—Flavia, fino a nuovo avviso non mi passi per favore nessuna chiamata.
Mi fece sedere davanti alla sua scrivania e, con un sorriso che pretendeva essere cordiale ma era teso, mi disse:
—Non è che mi piaccia intromettermi nella vita del prossimo, mio caro Sainz, ma in certo qual modo, essendo lei un giovane di circa ventotto anni, relativamente nuovo nella compagnia, ed essendo io …
“Ora va a cacciarmi nel labirinto della sua prosa impervia”.
—…un uomo con qualche anno in più, con più esperienza di vita, e pure suo direttore, una specie di padre nell’ambito della ditta, no?, ho come una specie di, come potrei dire, di obbligo morale d’aiutarla. Non è così…?
Siccome Linares attendeva una risposta, in breve assentii mosso dal desiderio che cessasse di parlare prima possibile.
—In modo che —continuò—, se lei me lo permette, domani, che è sabato e che abbiamo tempo, farò una capatina a casa sua a vedere cosa possiamo fare…
Non potei esimermi dall’accettare la sua proposta. Quando tornai alla scrivania Rossi evitò il mio sguardo. Qualche minuto dopo, tuttavia, s’avvicinò e mi bisbigliò all’orecchio:
—Non credere che sia stato io a raccontarglielo. Egli lo sapeva già: non è facile tenere nascoste certe cose.
Mi chiesi come sapesse Rossi che Linares lo sapeva.
Il sabato dovetti alzarmi presto poiché non potevo ricevere il signor Linares in un tipico appartamento da scapolo che non veniva pulito da almeno due settimane. Dedicai gran parte della mattina al detestabile compito di far correre l’aspirapolvere sui pavimenti, ripassare i mobili con un panno di flanella, lavare il bagno e la cucina… Alla fine, verso le undici, casa mia era ormai in condizioni presentabili per poter ricevere il signor Linares.
Non arrivò solo, ma accompagnato da Araujo, il commesso dell’ufficio appassionato di giochi d’azzardo e da un signore —a me sconosciuto— in abito completo, cravatta e occhiali.
—Il dottor Venancio —lo presentò il signor Linares— è lo scrivano altresì detto notaio che redigerà l’atto. Quanto ad Araujo —aggiunse assai affabilmente—, non necessita di presentazioni. Chi è che non deve qualche favore ad Araujo, non è vero?
Araujo, vestito con l’uniforme di servizio, sorrise timidamente.
—Araujo è qui solo in veste di testimone, affinché il dottor Venancio possa apporre la sua firma nell’atto.
—Va bene —dissi—. D’accordo.
Il signor Linares aprì la scatola e, col coperchio nella destra, osservò attentamente il contenuto; lo stesso fecero poi il dottor Venancio ed il commesso Araujo.
—Tutto a posto, Araujo? —chiese Linares.
—Si, signore, nessun problema.
Il dottor Venancio dispiegò l’atto sulla tavola da pranzo. Erano tre fogli; firmò a margine dei primi due e quindi in fondo al terzo. Indicò poi ad Araujo che doveva fare lo stesso; questi firmò con una certa lentezza: si vedeva che non era persona avvezza a carte e scritture.
—Io devo firmare? —chiesi.
—Non è necessario —rispose il notaio—, ma neppure è sconveniente. Mi rimetto al suo criterio.
—Firmerò, nel dubbio.
Approfittai per leggere l’atto e constatai che il suo contenuto era rigorosamente aderente al vero. Allora firmai.
—E lei, Linares, desidera firmare?
—No, dottore, non mi pare imprescindibile. Né tanto meno prudente.
Tra qualche parola anodina sullo stato del tempo i miei visitatori s’accomiatarono.
Avevo convenuto di recarmi quella sera al cinema con Cecilia. Verso le sei del pomeriggio però mi chiamò per disdire l’uscita:
—Il problema è mio papà —mi spiegò—. Se problema lo si può chiamare. A me pare che non abbia nulla a che vedere, ma a lui si: ritiene che nell’attuale campagna elettorale la tua situazione possa fargli perdere il municipio.
Ebbi voglia di mandarla al diavolo assieme al suo distinto padre, poveraccio invischiato negli intrighi della politica, ma mi limitai a dirle:
—Va bene, d’accordo.
E pensai: “Meglio così, ne ho già abbastanza”.
Cercai in una guida su Internet il numero telefonico di Boitus e constatai che viveva in calle Fraga, a Chacarita. La domenica, al mattino, mi avviai alla casa in questione; trovai uno steccato in legno ed un cartello che diceva: DEMOLIZIONE TOTALE E NUOVA COSTRUZIONE. APPARTAMENTI DA DUE E TRE AMBIENTI.
Eccezion fatta per qualche circostanza particolare, la mia vita seguitò il suo corso normale.
Non occorse molto tempo perché ottenessi una nuova promozione la quale comportava un vantaggio ed un inconveniente.
Il primo consisteva in un aumento di stipendio assai sostanzioso: passavo in pratica a percepire quasi il doppio di quanto guadagnassi in quel momento (che poco non era). L’inconveniente derivava dal fatto di dover svolgere le mie nuove mansioni nella succursale Béccar, di certo abbastanza lontana dal mio domicilio di calle Costa Rica.
Soppesai i pro ed i contro ed alla fine accettai la promozione rassegnandomi ad effettuare il lungo viaggio tra Palermo e la mia nuova destinazione. L’ideale sarebbe stato comprar casa a Béccar o a San Isidro, ma per mettere assieme il denaro necessario avrei dovuto assolutamente prima vendere l’appartamento di calle Costa Rica.
Acquisii pure, senza cercarla, una certa notorietà e mi resi conto che provarla non era cosa sgradevole. Ricevetti cronisti e fotografi dei quotidiani La Nación e Clarín e delle riviste Caras e Gente; fui sottoposto a reportages e fotografato —ora sorridente, ora serio— accanto alla scatola rotonda. Fui anche invitato in televisione a vari programmi giornalistici cui partecipai con una certa vanità. E non declinai inviti a presenziare a frivoli programmi di chiacchiere e pettegolezzi.
Il “dottor” Ignacio Capelli, ad ogni modo, non riuscì a farsi eleggere sindaco di Tres de Febrero, del che mi rallegrai non poco. Dato ch’ero in urto con Cecilia, qualche giorno più tardi colsi un occasionale pretesto e troncai le relazioni.
D’altra parte, qualcosa d’assai piacevole m’era occorso. All’uscita dall’impiego solevo andare a far merenda in un caffè prossimo alla stazione di Béccar. Alla stessa ora, dopo la fine della giornata scolastica, v’affluivano alcune maestre d’una scuola vicina, ragazze molto simpatiche che ciarlavano ad alta voce e se la ridevano a crepapelle.
Mi sentii attratto da una di loro (già sapevo che il suo nome era Guillermina) e più d’una volta i nostri sguardi —gli occhi suoi erano chiarissimi— s’incrociarono da un tavolo all’altro. Un giorno, all’uscita, finsi l’incontro sul marciapiede e potei intavolare un primo dialogo. Qualche istante dopo l’accompagnai, prima in treno fino a Belgrano, poi a piedi per alcuni isolati fino a casa sua. Aveva venticinque anni, si chiamava Guillermina Grotz e viveva ancora con i genitori.
Fatto sta che non tardai molto a diventare suo fidanzato e, dopo qualche settimana, ad entrare in intime relazioni.
Una certa sera —eravamo a letto, in un hotel— mi disse:
—Non sarebbe più economico invitarmi nel tuo appartamento?
Sorpreso, la guardai negli occhi:
—Non sai forse il problema che ho…?
—Come non lo so: lo sa il mondo intero. Però non credo che la questione sia tanto terribile…
Nel suo sorriso c’era una tale generosità che mi commosse. Sentii una lacrima spuntarmi e la dissimulai.
Il sabato seguente andai con Guillermina ad un cinema di Belgrano. La invitai poi a cena in un ristorante di avenida Cabildo:
—Bene —dissi—, ora andiamo a casa a concludere degnamente la notte.
Entrati nell’appartamento ed accesa la luce Guillermina esclamò:
— Finalmente conosco il misterioso bunker del signor Sainz!
Tuttavia, prima di perlustrare gli altri ambienti, si fermò davanti alla scatola rotonda. Dopo un istante d’esitazione, sollevò il coperchio. L’espressione del suo viso non mutò minimamente, disse però:
—Avevi ragione. Sarà meglio continuare come prima…
Onde indurla a spiegarsi le chiesi:
—Andiamo in camera da letto o te ne vuoi andare?
—Se non t’offendi, preferirei andar via.
—Perché dovrei offendermi? È nel tuo pieno diritto…
Guillermina abitava in Cuba e Mendoza. In strada le presi un taxi e m’accomiatai da lei.
Ma non per sempre, non v’era alcun motivo d’interrompere le relazioni; al contrario: la cosa ci avvicinò ancora di più.
Tre mesi dopo ci sposammo ed andammo a vivere in un minuscolo appartamento che prendemmo in affitto a San Isidro e che finì riempito oltre misura dalla mobilia che Guillermina ed io avevamo preso dalle rispettive precedenti abitazioni. Il mio arredo da pranzo era composto da un tavolo e quattro sedie, ma di queste ne potei portare a San Isidro solo tre.
Sul lavoro sopportai alcune domande, tanto ingenue quanto attendibili, e diversi lievi inconvenienti burocratici che non impedirono il mio continuo esser promosso.
Sotto quest’aspetto direi anzi che non mi posso lamentare. Ogni nuovo successo generava un nuovo avanzamento e la mia carriera continuava a progredire in gerarchia e stipendio.
Un venerdì pomeriggio (il migliore momento della settimana) fui convocato alla sede centrale. Lo stesso amministratore generale mi fece le sue congratulazioni e mi palesò che, senza ombra minima di dubbio, prima che passasse un anno sarei stato nominato direttore della succursale di Mar del Plata:
—Di modo che, stimato Sainz, le conviene predisporre le sue cose per tempo.
Mar del Plata è un magnifico trasferimento che, tuttavia, obbligherà Guillermina a rinunciare al suo incarico di insegnante ed a noi cambiare domicilio. Una volta colà non sarà difficile per mia moglie trovare lavoro in un’altra scuola.
Guillermina ed io siamo diventati taccagni sino all’estremo della più gretta avarizia: desideriamo avere disponibilità sufficienti per poter comprare, a Mar del Plata, un appartamento relativamente spazioso, e credo che riusciremo a farcela. L’unico modo è risparmiare, risparmiare, risparmiare poiché non potremo contare nella somma che ci darebbe l’impossibile vendita della mia ex casa di calle Costa Rica, immobile per il quale —sia detto di passo— ho dato disdetta a tutte le utenze: elettricità, telefono, gas, acqua… Ho pure smesso di pagare le spese di condominio e le imposte municipali.
—T’intenteranno un’azione legale e ti metteranno all’asta l’appartamento —suole commentare Guillermina.
Immancabilmente io replico:
—Non troveranno però chi l’acquista.
—Vero —risponde Guillermina ogni volta —, ma non è questo problema nostro.
 
(Tratto da El crimen de san Alberto, Buenos Aires, Editorial Losada, 2008. Traduzione italiana © Mario De Bartolomeis)

sabato 21 maggio 2016

HARMONIA di Teresa Regna

Sono l’unico ospite fisso di questa prigione. Gli altri carcerati rimangono qui per un breve periodo, poi se ne vanno.
Io no: sono condannato a vita. Un tempo il nome delle condanne come la mia era ergastolo, ma ora non hanno più bisogno di essere definite.
Io sono stato definito, invece, e nel modo peggiore. Mi hanno considerato indegno di far parte del genere umano, indegno di vivere una vita vera, al di fuori di queste mura.
Hanno appeso un cartello lampeggiante davanti alla porta della mia cella, in modo che tutti quelli che varcano la soglia della prigione lo sappiano: io sono indegno.
Tutti mi trattano con estrema gentilezza, come se, oltre ad essere indegno, fossi anche un mentecatto. I secondini mi portano libri e giornali, per aiutarmi a trascorrere le lunghe giornate solitarie; il direttore mi accompagna personalmente nella saletta speciale riservata a me, dove posso trastullarmi con l’olovisione e tanti giochi da tavolo; i medici mi visitano ogni giorno, ridacchiando fra di loro senza farmi capire cosa si dicono, però sono sempre cortesi e disponibili. Potrei chiamarne uno anche se mi si spezzasse un’unghia, e so che accorrerebbe a confortarmi e a curarmi.
Eppure mi sento come un appestato dei tempi antichi: nessun altro prigioniero può conversare con me per oltre mezz’ora al giorno, e mai per due giorni di seguito; i secondini che si occupano del mio braccio, nel quale sono solo, si avvicendano ad ogni turno, in modo che io non possa rivedere lo stesso secondino se non dopo tre o quattro giorni.
Non riesco ad instaurare un rapporto di amicizia con nessuno, qui dentro. Mi viene impedito dal regolamento; perciò la cortesia che tutti esibiscono nei miei confronti mi sembra più gelida dei ghiacci dell’Antartide, più formale di una cena con il Presidente Supremo degli Stati Uniti d’Europa.
La mia vera condanna non è l’ergastolo, ma la solitudine.
 ***
Il giorno in cui Yarno Sulik ricevette il Premio Nobel per la Pace tutto il mondo esultò. Nessuno più di lui ne aveva diritto: grazie alla sua geniale intuizione, non soltanto la guerra con i suoi orrori, ma anche i crimini, comuni o efferati, e la follia che li causa o ne è conseguenza erano stati debellati.
Il mondo conosceva la vera pace, finalmente, grazie a Sulik. Dopo millenni di lotta, distruzione, conflitto e beghe di ogni genere, l’umanità poteva vivere in pace.
Ogni tendenza alla guerra, alla battaglia, alla destabilizzazione dell’ordine costituito; ogni pulsione verso il delitto, il furto, la truffa o altri crimini più o meno efferati, poteva essere stroncata sul nascere. E se, malauguratamente, il gesto infame fosse già stato perpetrato, il suo autore poteva ritrovare la pace interiore nel giro di pochi giorni, permettendo alla società intera di ritrovare la pace esteriore.
Il nome di questa sorta di bacchetta magica era Harmonia. Se il suo autore non fosse stato un musicoterapista oltre che un musicista, forse le proprietà della sua sinfonia non sarebbero state scoperte così presto. Invece Sulik, consapevole che la sua opera aveva una marcia in più rispetto alle altre sinfonie, che racchiudeva qualcosa che andava oltre la sua incomparabile bellezza, la sperimentò quasi subito sulle persone che si rivolgevano a lui per essere curate.
Organizzò delle sedute individuali, piazzando il paziente al centro di una stanza perfettamente rotonda, e diffondendo la sua Harmonia da ogni punto della camera, in modo che l’uomo, o la donna, la assorbisse da tutte le direzioni. La genialità della sinfonia consisteva appunto in questo: la musica, in un alternarsi di crescendo e diminuendo, riverberava nel corpo del paziente e veniva a poco a poco assorbita dal suo cervello, fino ad infondere in esso una sensazione di pace estrema.
Coloro che avevano sperimentato i suoi effetti erano concordi nell’affermare che la sinfonia di Sulik era diversa da tutte quelle che l’avevano preceduta. Non c’era nulla di più sublime al mondo, dicevano. Risvegliava i loro sentimenti migliori, affermavano.
E avevano ragione. Il musicoterapista cominciò a ricevere nel suo studio, oltre ai consueti pazienti colpiti da dolorini vari, alcune persone affette da malattie mentali, portate lì dai loro familiari.
Uno di essi, il primo uomo al mondo a ricevere un vero e proprio trattamento, durato tre settimane, era considerato incurabile: alle manie suicide alternava quelle omicide. Era tenuto costantemente sotto sedativi, per evitare che nuocesse agli altri o a se stesso. Una volta terminata la terapia, però, smise di attentare alla sua vita e a quella altrui, non ebbe più bisogno di sedativi né di altre droghe, e rifiorì anche fisicamente.
Yarno, con sua immensa gioia, aveva scoperto che Harmonia curava allo stesso tempo lo spirito e il corpo, penetrandovi a poco a poco e rigenerando sia l’uno che l’altro.
***
 Oggi mi hanno lasciato parlare con un altro detenuto per qualche minuto in più: forse speravano che l’incontro avesse un influsso positivo sul mio carattere. Spesso sono arrabbiato, infatti, e scatto per un nonnulla. Nonostante la gentilezza con cui mi trattano, o forse proprio per quella.
A volte vorrei essere nato un secolo fa: sarei stato condannato ugualmente, ma almeno avrei avuto dei compagni di cella con cui dividere le giornate, inveire contro i secondini e organizzare improbabili piani di fuga. Se soltanto i miei guardiani fossero meno cortesi, avrei qualcosa di concreto di cui lamentarmi, e otterrei un po’ di solidarietà da parte degli altri carcerati, quelli temporanei.
La situazione in cui mi trovo mi fa rabbia, e quando la mia rabbia esplode tutti si comportano in modo ancora più gentile del solito, nel tentativo di rabbonirmi: il direttore mi lascia visitare il suo ufficio, l’unico luogo senza sbarre in cui sono ammesso; i secondini mi portano delle leccornie, pagandole di tasca loro; i medici decretano che ho bisogno di ricaricarmi di energia e mi fanno trascorrere interi pomeriggi nel solarium.
Fingo che la rabbia si plachi per accontentarli, ma dentro di me ribolle il desiderio di ribellarmi a loro, di urlare fino a spaccare i loro timpani, di sbattere quelle loro facce sorridenti contro il solido muro della mia prigione.
Sarebbe più umano condannarmi a morte, ho detto un giorno. Mi hanno guardato con aria di compatimento, e i loro sorrisi si sono allargati ancora di più mentre si affrettavano a spiegarmi che la pena di morte è stata abolita tanto tempo fa perché costituiva una tortura indicibile.
E quella che infliggete a me non è tortura?, ho chiesto. Sono rimasti sgomenti per un attimo, poi mi hanno portato nella saletta dei giochi, per distrarmi. Pensano di avere sempre ragione, e non riesco a fare o dire niente che li smuova da questa convinzione: dopotutto, il matto sono io.
***
Il giorno in cui Yarno Sulik venne ucciso tutto il mondo pianse. Fu un dolore indicibile per ogni singolo uomo e donna del pianeta, e una perdita incommensurabile per l’umanità.
La sua sinfonia era ormai utilizzata in ogni angolo della terra; le apposite camere rotonde, indispensabili per la terapia, erano state costruite negli studi medici, negli ospedali, nelle prigioni e persino nelle case private; Harmonia era diventata il sottofondo musicale della vita di ogni essere umano che calcasse il suolo del pianeta.
Ai solenni funerali di stato del grande musicoterapista che aveva rivoluzionato la storia dell’umanità partecipò una folla immensa, e una ancora più immensa li seguì in olovisione. Piansero tutti, all’unisono, per l’incolmabile perdita subita.
Sulik, infatti, non aveva ancora compiuto i 50 anni, e stava lavorando ad una serie di variazioni alla sua sinfonia che avrebbero permesso anche agli animali di usufruire dei benefici effetti che essa procurava sia all’anima che al corpo.
I discepoli del grande inventore si misero subito all’opera per continuare i suoi esperimenti, ma l’uomo comune non poté fare a meno di pensare che era accaduta una terribile disgrazia, e che niente e nessuno avrebbe potuto ripagare l’umanità della morte del grande Yarno.
***
Ho chiesto delle scarpe da ginnastica, urlando che sono stufo dei mocassini monopezzo in dotazione. Nessuno me le ha date: hanno capito subito che avrei usato i lacci per tentare di soffocarmi. Per lo stesso motivo non ho mai avuto un sacchetto di plastica, un temperino o una forbicina: mi lasciano usare quelle con la punta arrotondata, da lattanti, soltanto in presenza di un secondino.
Se almeno l’aria della prigione non fosse filtrata così bene, liberata dalla impurità e dalle spore, potrei sperare di prendere una malattia seria e morire, finalmente. Invece la mia salute, peraltro ottima, è tenuta sotto controllo dall’equipe medica della prigione, che si allarma anche se starnutisco e corre subito ai ripari.
Vogliono che stia bene, per poter marcire fino alla fine dei miei giorni inutili in questo edificio spazioso e arioso, bene illuminato e costruito secondo i principi dell’armonia universale.
Ieri ho avuto una crisi: ho cominciato a sbattere la testa contro il muro imbottito della mia cella. Mi sentivo soffocare, dalle premure e dalla cortesia. Naturalmente, la loro reazione è stata ben diversa da quella che avrei voluto affrontare: mi hanno preso, di peso, e trasportato in quell’odiosa stanza rotonda in cui mi inondano di vibrazioni sonore fino a intontirmi. Sono costretti a legarmi alla sedia senza spigoli che sta al centro, ma non si arrendono.
È per il mio bene, dicono. E io, pur di non essere costretto a restarci troppo a lungo, fingo di essermi calmato.
L’unica cosa che potessi fare per la mia pace mentale l’ho già fatta. Ed è per quella che mi hanno condannato alla galera a vita.
Io ho assassinato a sangue freddo il loro eroe, Yarno Sulik. In un giorno d’estate, mentre andava a trovare una sua ex paziente, gli ho infilato nel cuore un tagliacarte, fino all’elsa. È spirato mentre lo trasportavano in ospedale.
Io ero già qui, in questa prigione che odio come ho odiato l’uomo che ho ucciso. E che continuerò ad odiare, finché avrò un alito di vita. Lui e la sua maledetta Harmonia. Perché non ha nemmeno pensato a quelli come me, che non possono usufruire della sua invenzione.
Se sono diventato un assassino, l’uomo più odiato della terra, è per un motivo soltanto: sono sordo. Irrimediabilmente, incurabilmente sordo.

domenica 15 maggio 2016

Primo Incontro di Francesco Gallina

Da lontano la vide.
In quell'istante molte ombre cominciarono a dissiparsi, lasciando libera la sua mente di fluttuare tra i desideri scaturiti da quella visione. Privo di incertezze, decise di avvicinarsi alla donna che tanto desiderava. Senza scampo la vide arrestarsi e con aria allibita osservarlo fulgidamente. Di fronte ad un concentrato di tale bellezza, lui non seppe far altro che rimanere bloccato nel silenzio corrotto da quella forte emozione. Passarono interminabili secondi, alla fine fu lei ad affrontarlo accennando a ciò che lui fin troppo anelava.
Fu così che negli anni a venire, entrambi si sarebbero ricordati il giorno del loro primo incontro.

giovedì 5 maggio 2016

GATTI di Peppe Murro

Si sentiva davvero stanca ma era molto contenta di aver finito di tagliare a pezzettini il fegato per i suoi gatti… poveri micetti, avevano sempre fame, ma erano così dolci e di compagnia… e poi le frattaglie già le aveva passate al tritacarne come per farne polpettine piccole piccole." Già - disse fra sé - ce ne voleva per soddisfare quelle birbe", ma erano la sua sola compagnia da quando il suo uomo aveva deciso di morire. Non erano stati bei momenti, sola a portare avanti il necessario per la locanda… non è che si facessero grandi affari, quella era una strada secondaria e la città più vicina distava chilometri e chilometri. Ogni tanto però qualcuno si fermava e tanto le era sufficiente, lei non aveva grandi pretese, e neppure i suoi micetti.
A volte, quando arrivava qualche cliente si sentiva subito presa da una strana ed allegra frenesia, le tornavano tutte le forze… eppure era faticoso e diceva a se stessa di non sapere fino a quando ce l’avrebbe fatta. C’erano i suoi gattini, però, e sentiva che era un piacevole dovere provvedere a loro. E certo che la ricambiavano: si strusciavano morbidi alle sue caviglie scarne, si sdraiavano pigramente sul suo grembo e si lasciavano carezzare quasi con avidità da quelle dita ossute che scavano piccoli sentieri nel loro pelo, mentre si stiracchiavano sonnolenti e sornioni. Era felice, perché in fondo la loro era la sola compagnia che aveva, diversamente forse sarebbe impazzita per la solitudine.
Si scosse da quei pensieri, raccolse a piene mani i pezzettini di fegato e chiamò mici... micetti..." e subito fu sommersa da miagolii quasi imperiosi che la circondarono petulanti. Sorrise e si abbassò mettendo tutto in diverse scodelle. Guardò con soddisfazione i gatti che si affannavano lì intorno famelici e ingordi…"bravi,
mangiate, mangiate pure senza litigare, ce n’è tanto…"
Si pulì le mani sul grembiule, raccolse con cura le frattaglie per riporle nel frigo... sì, ai suoi micetti piacevano veramente tanto fegato e frattaglie e chissà perché non mangiavano altro.
 Si guardò intorno… certo, ce n’era di roba da spazzare, e tutto quel sangue, poi.
Scosse le spalle, beh, a tagliare il cadavere ci avrebbe pensato poi… chissà da dove veniva quel forestiero?