lunedì 16 dicembre 2013

BEATO ANGELICO di Giuseppe C. Budetta



      Per un fenomeno di non-località legato alla meccanica quantistica secondo l’equazione di Scrhödinger, l’affresco il giorno prima compiuto ebbe una profonda trasfigurazione. Là dove apparivano il Cristo risorto e la Maddalena, c’erano immagini sataniche di un dipinto surreale firmato Francis Bacon, pittore inglese del Novecento. Il quattro - cinquecentesco Noli me tangere del  domenicano Beato Angelico sostituito da Tre studi di figura per la base di una crocifissione (1944) di Francis Bacon, impregnatasi sulla superficie della parete come affresco.    
   Il fatto riportato in un racconto degli Ecatommiti di Giraldi Cintio, letterato vissuto una sessantina di anni dopo Beato Angelico. C’è l’ipotesi che il Giraldi avesse raccolto la notizia da un disperso libello del poeta Gian Giorgio Trissino. Il Girali accennava ad un portento accaduto in Firenze la notte tra il diciotto ed il diciannove maggio,  anno Domini 1443. Per la precisione, il fatto accadde nella VII cella, appena finita di affrescare nel convento di San Marco. Il Giraldi dice che sebbene beato ed angelico, oltre che frate domenicano con papale protezione, Beato Angelico stette per svenire dallo shock. Il novizio che l’accudiva ed accompagnava aveva esclamato:
“Frate Angelico, la pittura s’è squagliata.”
Era mattutino. Tra veglia e sonno, Angelico Beato disse: “Come?”
“Forse l’umido. La pittura s’è squagliata. Vedete.”
Sgomento. Beato Angelico non sapeva che pensare ed era impallidito. I suoi occhi stentavano a fissare lo stravolgimento dei volti e dei corpi che l’affresco mostrava. Al posto delle sue composite figure in geometrici spazi raccolte, macchie informi dalla cupa parvenza umana. C’era però la firma in chiare lettere: Francis Bacon. Il cognome era inglese. C’era da indagare. All’albeggiante tremolio, Angelico Beato mandò via il novizio, si chiuse dentro ed osservò meglio il portento. La sua pittura armoniosa e calma dai contorni netti, i volti santi ed immacolati discioltasi, ma non del tutto. Era come se una mano creativa si fosse sovrapposta alla sua e nella notte avesse ricomposto quei corpi santi in orribili carcasse, uscite da un carnaio. A vedere bene, la pittura si era diluita e ricomposta in figure umane deformate. Realtà evocante gl’incubi dei sogni. Non salvezza, ma perdizione. Non causa dell’umido, non di un difetto dell’impasto sottostante, o di friabile parete. C’era una logica soggiacente, difficile da capire. Opera demoniaca, alchimia e stregoneria. Corpi umani nudi e deformi al limite della comprensione. Facce stravolte e tarlate dipinte con colori strani, l’opposto delle sue armoniche composizioni. Là dove c’era la certezza dello spirito, appariva l’orrore della carne. Beato Angelico ne udiva i lamenti, i rantoli ed i gemiti. Quei corpi deformi gridavano la loro disperazione che trapassava la materia e ti penetrava nell’anima, turbandola nel profondo. E’ questo dunque l’inferno?
   Nel suo Noli me tangere, le mani del Cristo puntavano sicure verso il cielo. Indicavano la strada da seguire per il paradiso. Lì, il Cristo stava per elevarsi alla destra di Dio onnipotente:

Onnipotens Deus. Pater nostre qui es in coelis.

   Accadeva che le mani del Signore e quelle della Maddalena giungessero quasi a toccarsi. Però la sovrapposizione dei piani non ne dava certezza. Le dita della Maddalena toccavano solo i raggi della gloria, non tastavano il corpo del Cristo risorto. La fede avrebbe dovuto annullare il dubbio. La celeste ambiguità sostituita dallo sfacelo umano, opera di un diavolo di nome Francis Bacon. Beato Angelico aveva dipinto le mani della Maddalena tese verso Gesù, ma senza toccarlo: le dita allungate cercano di afferrarlo, di sfiorarne il corpo, carpirne la presenza corporale. Le mani del Cristo la tengono a distanza, come dovuto. Tutto combacia secondo i canoni del Vangelo. Figure che si articolano nello spazio con sicurezza, distanziate in una armonica composizione, sottolineata dagl’insistiti scorci delle mani e dalla calcolata inclinazione delle teste.
Il Cristo dice alla Maddalena: “Non toccarmi, perché non sono ancora asceso al Padre, ma ora va’ dai miei discepoli e di’ loro: Ascendo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro.”
   Maria Maddalena corse ad annunciare ai discepoli: “Ho visto il Signore.” E raccontò ciò che le aveva detto.
   Angelico Beato, domenicano monaco aveva riportato la evangelica visione: la Maddalena vede che la pietra del sepolcro è rovesciata e vede il Cristo risorto. Il demoniaco dipinto di Francis Bacon era arte, ma con una stravolta verità: “Tu vedi, ma è visione pura…una visione non palpabile. Tu vedi qualcosa che non è presente. Tu vedi colui che va via. Tu vedi il transeunte. Tu vuoi toccare ciò che sfugge.”    
   Il maligno aveva distrutto l’aureo dipinto, sostituendolo con una infernale visione dove tutto è opinabile e si offre alla perdizione. Osservando bene, il domenicano si rese conto che il dipinto del Bacon operava nel profondo: entrava nell’anima e la stravolgeva. Le certezze vacillavano. Il diavolo Bacon mostrava l’esistenza umana, abbandonata a se stessa. L’uomo solo davanti al mistero eterno. L’esistenza umana e la sua sconfinata disperazione. Il diavolo dal nome inglese Bacon aveva dunque osato portare i lumi dell’arte oltre la cristianità, oltre le tenebre della morte, oltre l’odio e l’amore, oltre la luce e la speranza e le nebbie dei vorticosi sogni. Bacon mostrava l’uomo e l’angoscia del Tempo, la profondità dei secoli:

saecula saeculorum.

  L’Uomo e la vanità della vita. L’Uomo e la gloria effimera. Tutto cede allo sfacelo. Deriva del destino: il nulla eterno. Angelico Beato capì: non è il Diavolo, ma Arte. Non finzione, ma verità. La storia umana è un mostro che gronda sangue. Ecco cosa mostrava colui che si era firmato come Francis Bacon. Noli me tangere: non toccare lo sfacelo che gli uomini fanno, chiusi nell’egoismo e nell’odio. Beato Angelico non volle distruggere il dipinto. Disse all’abate che intendeva affrescare le restanti mura della cella secondo i canoni usuali, ma che non toccassero quella parete. In un secondo tempo avrebbe provveduto lui di persona sul da farsi. Adesso, la pittura andava lasciata così com’era. Sarebbe stata coperta da una tenda. L’abate non ci capì gran che. Disse:
“Frate Angelico, ma perchè lasciare sulla parete quell’obbrobrio che fa paura solo se lo si guarda?”
“Un giorno ci dipingerò una visione angelica. Lasciamolo così. Mi dà ispirazione. Un giorno, aggrazierò quelle deformità.”
“Fanno paura.”
“Nascondiamole dietro una tenda.”
   Chi crede nel Figlio ha vita eterna; chi si rifiuta di credere nel Figlio non vedrà la vita. Giov. 3-15.
Credere nel Figlio, significa credere nell’Uomo? Significa accettarne la possibile perdizione eterna?
   Si dice che decenni dopo, il Michelangelo dormendo in quella cella come ospite del convento, avesse scostato il manto che copriva il diabolico dipinto e ne avesse tratto ispirazione per il suo Giudizio universale alla Sistina. Il nobel Dawkins (2005) dichiara che non c’è cultura umana che non abbia sviluppato un senso religioso. Per capirlo bisogna esplorare strade diverse. Lo scienziato fa l’esempio dei bambini che secondo leggi di sopravvivenza evolutiva devono credere ai genitori ed ai nonni. Egli afferma: ”Per ottime ragioni di sopravvivenza, il cervello del bambino deve credere ai ge­nitori, e deve credere ai capi ai quali i ge­nitori gli dicono di credere. Ciò vuole dire che chi crede non ha modo di distingue­re un consiglio buono da uno cattivo. Un bambino non è in grado di dire che un buon consiglio è «se nuoti nel fiume, i coccodrilli ti mangeranno», e che è un consiglio cattivo «se non sacrifichi una capra sotto la luna piena, il raccolto an­drà male». Entrambi sembrano altrettan­to degni di fiducia. Provengono entram­bi da una fonte fidata e dispen­sati con la stessa convinzione che impo­ne rispetto e richiede obbedienza. Lo stesso avviene con le asserzioni sul mon­do, sull'universo, sulla moralità, sulla na­tura umana. E, naturalmente, quando il bambino cresce e a sua volta diventa ge­nitore, trasmette ai figli tutto ciò - sia il senso che il non-senso - con lo stesso tono grave ed efficace.”
   Il Bacon Francis e il Michelangelo Buonarroti spezzano certezze millenarie, aprendo squarci su nuove e traballanti realtà.

venerdì 13 dicembre 2013

I RIFUGI di Claudio Biondino



Mi sveglio con la mente vuota. Per un momento, sono solo cosciente della mia esistenza e mi invade una strana sensazione di calma e sazietà.
Poco a poco i ricordi tornano, laceranti. Cerco di mettere ordine nel caos che portano con sé. L’incidente della nave, il deserto e la sete, le tempeste di sabbia e la fame, la ricerca del rifugio e la solitudine. Riesco a mettermi in piedi, mentre prende forma il mondo attorno a me: la cupola traslucida e il cielo rossiccio, i pannelli senzienti della IA, l'esuberanza vegetale del giardino idroponico. Capisco che sono riuscito ad arrivare in uno dei rifugi, ma non ricordo di averlo fatto. Devo aver bevuto e mangiato a sazietà, disperato per i giorni di privazione, ma non ricordo nemmeno questo. In ogni caso, non ha più importanza. So che la IA del rifugio si prenderà cura di me.
Il suono stridulo e intermittente dell’allarme di prossimità mi sveglia completamente. Quando arrivo all’ingresso del rifugio, l’intruso è già riuscito a entrare. Con sollievo, vedo che si tratta di uno dei membri della spedizione. Si toglie il casco della tuta pressurizzata e riconosco il soldato Sánchez. Sebbene sia chiaramente sfinito, anche lui mi riconosce e si mette sull’attenti davanti al suo superiore. Gli ordino di informarmi sui progressi della missione. Fa fatica a stare in piedi, ma è un professionista e deve compiere il suo dovere; i frutti del giardino idroponico saranno il suo premio, ma questo dovrà aspettare.
A quanto pare, dice Sánchez, le comunicazioni si sono interrotte durante l’incidente che ha distrutto la nave mentre entrava in orbita. La sua capsula di evacuazione è discesa senza problemi, ma un istante dopo tutti i sistemi erano morti. L’unica funzione intelligente che ha continuato a essere operativa nel suo equipaggiamento è stata l’indicazione della strada verso il rifugio più vicino.
La stessa cosa che è successa a me, penso. Gli ordino di seguirmi. La IA del rifugio ci permetterà di rintracciare gli altri sopravvissuti. Arrivati ai pannelli senzienti, inserisco i miei codici di comando. Il silenzio della IA mi sconcerta. Verifico i codici, e vedo che coincidono con quelli installati dai costruttori robotici da decenni. Le IA erano programmate per aspettare il nostro arrivo, ma quella di questo rifugio non sta rispondendo ai miei ordini. La frustrazione mi fa perdere il controllo, e colpisco con furia il pannello senziente. Inaspettatamente, il contatto con il pannello produce una rivoluzione dentro di me: euforia e agonia unite come mai avrei potuto immaginare. Una fitta di dolore indescrivibile percorre il mio corpo e mi sento spaccare in mille pezzi. Il dolore è tanto acuto che si trasforma in piacere, e bramo di ritorcermi ancora sui pannelli, diventare una cosa sola con loro.
A dispetto di tutto, non so come, riesco a recuperare la compostezza. Questo non dovrebbe succedere, penso. Un ufficiale non deve perdere il controllo davanti ai suoi subordinati. Forse per questo Sánchez si è allontanato da me, prima lentamente, e dopo correndo a nascondersi tra la vegetazione del giardino. Ma no, non è possibile, la sua reazione è esagerata… oppure no? Dal contatto della mia mano sul pannello, il mondo che mi circonda continua a cambiare. I colori del rifugio mi sembrano diversi. All’improvviso, il cambiamento si fa più drastico e le prospettive diventano multiple. Dal punto in cui mi trovo, posso vedere Sánchez rannicchiato e tremante. Percepisco le sue lacrime salate, e anche l'odore acido dell'urina che scorre lungo la sua divisa. Un altro cambio di prospettiva, e mi lascio guidare dall’impulso di spostarmi più in alto, con entrambi i tagma che sfiorano la cupola, fino a trovarmi posizionato sopra Sánchez. Dondolo il mio prosoma nella sua direzione. Lo avvolgo nella mia tela e il veleno dei miei cheliceri congela il suo grido in un gesto che non posso decifrare; i tratti umani stanno perdendo significato per me. Sono spinto solo dal desiderio di consumare i suoi organi interni, che i miei enzimi hanno già iniziato a dissolvere.
Dopo alcune ore, cestino la pelle rinsecchita di Sánchez in una zona lontana del giardino idroponico. Anche se non mi ricordo di essermi già alimentato, non mi sorprende trovare altre pelli depositate lì. All’improvviso, percepisco una vibrazione conosciuta. È il richiamo della IA , che mi ricompensa con sussurri gradevoli. Mi avvicino a lei e il piacere aumenta a tal punto da diventare ipnotico, soporifero...
Mi sveglio con la mente vuota. Per un momento, sono solo cosciente della mia esistenza e mi invade una strana sensazione di calma e sazietà.

(Traduzione dallo spagnolo di Giuliana Acanfora)

mercoledì 11 dicembre 2013

SA-10 di Fabio Calabrese



«SA-10, ricordati bene che dal momento in cui sarai partito, non potremo darti nessun aiuto.»
Il dirigente s’interruppe; il suo viso era più pallido del solito, i lineamenti contratti rivelavano la tensione che cercava di nascondere nel tono di voce.
«Per molti millenni,» proseguì, «dopo che i nostri antenati si furono ribellati al Dominatore, come sai, come ti è stato insegnato fin da bambino, abbiamo cercato di batterlo in campo aperto ma siamo sempre stati ricacciati… Dobbiamo tentare la via dell’agguato, dell’attacco fulmineo e imprevedibile. Tu, SA-10, sei stato selezionato in base alla tua conformazione genetica e alle attitudini, rivelate nel corso dell’addestramento. Il “Portatore di luce” è il miglior aiuto che possiamo darti.»
SA-10 guardò la navicella quasi con un senso d’affetto, dopo i mesi passati in addestramento dentro quel guscio di metallo dalla linea ingannevolmente semplice che ne nascondeva la sofisticata struttura.
«Ricorda, SA-10,» proseguì il dirigente, «riuscire a sorprendere il Dominatore è un’impresa quasi impossibile, ma “Il portatore di luce” è la più perfetta crononave che esista. Tu continuerai a spostarti avanti e indietro lungo la distorsione spazio-temporale in modo da non essere individuato, e da poter colpire al momento opportuno.»

* * *
Il “Portatore di luce” stava sfrecciando a un milione di T (un milione di volte la velocità normale di scorrimento del tempo). SA-10 trovava che percorrere l’universo in una crononave fosse un’esperienza splendida: Supernove esplodevano abbaglianti nel cielo nero, galassie si formavano sbocciando come fiori, giganti rosse viravano attraverso il giallo, il verde, l’azzurro, fino a liberarsi della loro energia diventando novae, e a ridursi a freddi puntini bianchi. Stelle, nubi di pulviscolo luminoso, torrenti di radiazioni, danzavano attorno alla navicella.
SA-10 si rilassò. L’universo visto da una crononave rivelava il suo vero volto: non era uno spazio buio e vuoto, ma un organismo vivo e splendido. Lo spettacolo gli aveva quasi fatto dimenticare l’estrema pericolosità della sua missione: si stava addentrando nel terreno del Dominatore, il nemico atavico, implacabile, della sua razza.
Gli strumenti segnalarono un leggero calo di potenza: non era un inconveniente grave, ma doveva fermarsi per permettere agli accumulatori di ricaricarsi.
Fermò il “Portatore di luce” ed entrò nel tempo normale.
Se fosse riuscito ad atterrare su di un pianeta, sarebbe stato meno facile per il Dominatore individuarlo. Per fortuna, il “Portatore di luce” poteva essere manovrato come una comune astronave.
Raggiunse il sistema stellare più vicino e diresse la crononave verso un pianeta che sembrava essere collocato al giusto punto di equilibrio fra il calore solare e il gelo esterno, la cosiddetta “fascia della vita”.
Il pianeta ospitava la vita, eccome! SA-10 l’osservò ammirato: sembrava che la terra emersa fosse interamente coperta da boschi verdeggianti; gli oceani erano di un blu intenso e le calotte polari scintillavano candide.
Era imprudente atterrare in una prateria: il “Portatore di luce” sarebbe stato troppo visibile, e la portata dei sensi del Dominatore sembrava virtualmente senza limiti. Scelse una larga radura in un bosco posto nell’emisfero settentrionale.
Atterrò e come ulteriore precauzione, dopo essere sbarcato rese invisibile il “Portatore di luce” facendolo scivolare in una sequenza spazio-temporale secondaria.
Fece qualche passo. Il pianeta era bellissimo, l’aria era fresca e frizzante, carica di sentori esotici; la vegetazione non recava le tracce – purtroppo devastanti per l’equilibrio ambientale – di civiltà superiori che avessero sviluppato una tecnologia. Creature alate cantavano tra i rami degli alberi.
Staccò da un albero un frutto di un bel colore rosso e affondò i denti nella polpa, era gustoso.
Scorse qualcosa fra i rami del sottobosco, un umanoide: era una femmina e anche piuttosto carina.
Si avvicinò. Lei accennò a ritrarsi timorosa, ma non fuggì.
«Ciao!» disse SA-10.
«Ciao!» rispose lei. Capiva la sua lingua o aveva solo imitato pappagallescamente il suono della sua voce?
«Non avere paura,» disse lui. «Non voglio farti del male. Come ti chiami? Io sono SA-10, SA-TEN.»
«SA-TAN,» fece eco lei con una strana pronuncia cantilenante.
SA-10 le tese il frutto che teneva in mano.
Lei sembrò capire e prese il frutto, poi se lo portò alla bocca staccandone via allegramente un bel pezzo con un morso.
Un urlaccio fece voltare SA-10. Un umanoide maschio, un tipo rossiccio dai lineamenti grossolani e dall’aria truce, era uscito dal bosco. Afferrò la femmina per il braccio e cominciò a trascinarla via, dopo aver lanciato una salva di borbottii e grugniti che SA-10 non capiva, ma che aveva ragione di ritenere fossero imprecazioni o insulti.
Rimasto solo, SA-10 si ritrovò piuttosto depresso: aveva dimenticato l’accesa gelosia caratteristica dei maschi umanoidi primitivi. Sapeva di aver commesso un errore: non bisognava mai interferire con le culture primitive: anche un gesto innocuo come l’offerta di un frutto poteva essere fonte di chissà quali incredibili complessi.
Ritornò al “Portatore di luce” e si spostò in avanti di qualche migliaio di anni, mantenendo più o meno invariate le coordinate spaziali.
In un primo momento, SA-10 quasi stentò a credere ai propri occhi: quella parte del pianeta si era rapidamente trasformata in un deserto arido e per nulla invitante.
Uscì un’altra volta dal “Portatore di luce” e fece qualche passo sulla distesa sabbiosa.
Dietro a una duna che lo riparava malamente dai raggi del sole, SA-10 scorse il corpo di un uomo: era ancora vivo ma proprio per scommessa: era magrissimo e la sua pelle era screpolata come cuoio vecchio, sembrava all’ultimo stadio della denutrizione e della disidratazione. Tornò alla crononave e prese un contenitore d’acqua.
Nonostante l’aspetto sfigurato dagli stenti, si vedeva che quel moribondo doveva essere stato un bell’uomo: aveva un viso affilato, ascetico, i capelli lunghi sulle spalle e una corta barbetta regolare, che però ora erano incrostati da uno strato di sabbia.
SA-10 dovette aprirgli la bocca di forza e versare l’acqua in quelle labbra e in quella gola inaridita.
L’uomo cominciò subito a riaversi, e aprì gli occhi emettendo un gemito. Aveva dei begli occhi chiari, intelligenti, ma sembravano sconvolti da una luce di follia.
«Lasciami in pace!» gridò.
SA-10 era piuttosto sorpreso di constatare che quella gola disidratata conservasse ancora tanto fiato.
«Ehi, un momento!» disse. «Cosa ti è successo, amico? Facevi parte di qualche carovaniera? Ti sei perso?»
«Niente affatto!» rispose quello. «Sono venuto nel deserto di mia spontanea volontà quaranta giorni fa per mortificare la Carne.»
Nel suo sguardo ardeva una luce preoccupante di fanatismo.
«Ma tu non hai solo bisogno di un po’ d’acqua,» protestò SA-10. «Sei denutrito da far paura.»
L’uomo si rizzò in piedi gridando:
«Vattene, immondo tentatore! Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca dello Spirito!»
SA-10 arretrò sgomento. Quella follia, quel fanatismo suicida erano certamente il segno che il Dominatore aveva lasciato su quegli esseri.
Capì che non poteva fare niente di meglio per quell’uomo che lasciarlo al suo destino. Forse se la sarebbe cavata… ma certo quel tipo lì non sarebbe morto vecchio.
Ora il “Portatore di luce” era pronto per il balzo finale, ma SA-10 era curioso, gli sarebbe piaciuto sapere qualcosa di più di cosa sarebbe accaduto a quella cultura. Modificò leggermente le coordinate della crononave: più o meno millecinquecento anni avanti nel tempo e un po’ verso nord-ovest nello spazio.
Si accorse di essere finito all’interno di un edificio.
C’era un vecchio con la barba bianca, vestito di una buffa palandrana, che stava davanti a un segno tracciato sul pavimento: una grande stella dentro un cerchio, e leggeva un grosso libro borbottandone le parole ad alta voce. Sembravano frasi incomprensibili e prive di senso, ma il vecchio aveva l’aria di aspettarsi che succedesse qualcosa. SA-10 decise di accontentarlo e di fargli un piccolo scherzo. Lasciò il “Portatore di luce” invisibile e si materializzò all’interno della stella.
Guardò il vecchio negli occhi.
«Cosa vuoi?» domandò.
Il vecchio rispose con aria solenne:
«Io, Johann Faust, ho passato trent’anni della mia vita a penetrare i segreti reconditi dell’universo. Adesso voglio quello che mi spetta: la ricchezza ed il potere.»
SA-10 lo guardò con compatimento.
«Faresti meglio ad andare a donne,» disse, «finché l’apparato ti funziona. Guarda che è un consiglio disinteressato.»
E scomparve.
Ora non aveva più tempo per quelle ragazzate, sapeva che alla fine del flusso temporale di quell’universo avrebbe incontrato il Dominatore.
S’inserì nel flusso temporale regolando la crononave alla massima potenza, e tolse la sicura all’annichilatore.
Aveva una sia pur esigua possibilità di riuscita: per quanto il Dominatore fosse dotato di poteri quasi inconcepibili, i suoi riflessi erano di una frazione infinitesimale più lenti di quelli del popolo di SA-10.
Gli scienziati della sua gente avevano discusso a lungo sulla natura del Dominatore senza essere in grado di giungere a conclusioni definitive; certo, proveniva da un flusso d’universo sconosciuto, e altrettanto certamente non si trattava di un essere organico, almeno nel senso abituale del termine: era un essere vivente, ma simile a un’enorme macchina che assorbiva e generava materia ed energia in ogni punto di un’intera sequenza spazio-temporale.
Le labili immagini dello spazio-tempo che scorreva vorticoso intorno al “Portatore di luce” si stavano trasformando in un torrente di energia pura. Quella sequenza-universo era quasi alla fine.
SA-10 lo scorse improvvisamente, proprio là dove lo spazio-tempo stava per svanire nel Nulla assoluto. Era una cosa enorme, una superficie planare che generava e distruggeva energia e materia ad ogni istante. Proprio nel mezzo, c’era una vasta zona di cellule foto-energo sensibili.
SA-10 diresse il raggio dell’annichilatore proprio là, su quella specie di occhio al centro dell’immensa struttura triangolare.

domenica 8 dicembre 2013

L'AUTOMOBILE ROSSA di Luisa María García Velasco



Roberto era così assorto che quasi saltò il semaforo. Attese con impazienza che l’omino verde si illuminasse e attraversò la strada come se un gruppo di fate lo portasse in volo. Difatti, qualche pedone girò la testa al suo passaggio. Guardava più in là di ciò che aveva davanti, mosso dai fili del piacere dell’anticipazione. Come chi sta andando a incontrarsi con un antico amore.
Gli mancava il fiato quando si fermò davanti al negozio di giocattoli. Era lì, la stessa insegna rossa: Pinò - Giocattoli artigianali, con un grande pino dipinto, sotto il quale erano disposti allegri burattini e un treno che sorrideva, la vetrina con il suo cavallo di legno e il gioco di costruzioni, e con la casa delle bambole che si illuminava e aveva persino l’acqua in alcuni dei rubinetti. Bambole, libri di racconti, soldatini, orsi di peluche. Tra tutti, gliene era sempre piaciuto uno molto buffo, con un libro in mano e gli occhialetti rotondi appoggiati sulla punta de naso. Ma il vero tesoro era all’interno. Doveva esserci.
Non volle pensarci oltre ed entrò. Il padrone del negozio, un signore anziano alto e magro con un gilè nero e gli occhiali, alzò la testa dal treno che stava riparando su un piccolo tavolo accanto al bancone.
– Sì? Che cosa desidera?
– Signor Pinò, non si ricorda di me? Sono io.
L’uomo si aggiustò gli occhiali e lo guardò con più attenzione. La sorpresa e un gesto istintivo davanti all’imprevisto si affacciarono ai suoi occhi.
– Roberto? Non posso crederci. Sei davvero tu?
Si alzò con difficoltà per abbracciare il ragazzo. Per lui sarebbe sempre stato un ragazzo.
– Come ti sei fatto grande. Un uomo…
– Come vanno le cose qui?
– Come sempre. Non c’è molto da raccontare. Tiro avanti. Ragazzo, mi fa tanto piacere vederti.
Ci fu un breve silenzio, intimo e violento al tempo stesso. Nessuno dei due sapeva come affrontare l’argomento che entrambi avevano in mente.
– Beh… è ancora qui, no?
L’uomo lo guardò.
– Ce l’ha ancora, vero? – la voce gli tremava. Il panico lo colse all’improvviso.
– Mi dispiace. – Il giocattolaio abbassò lo sguardo.
– Le dispiace? Che cosa significa? Mi ha detto che non l’avrebbe mai venduta, che non se ne sarebbe mai disfatto. Lei…
– Il tempo passa. Le persone cambiano. Mi hanno fatto un’offerta che non ho potuto rifiutare. Mi dispiace davvero.
– Non posso crederci. Mi disse che non era in vendita!  Lo sa quanto era importante per me; io stesso avrei superato ogni offerta, in qualsiasi caso…
– Tu non vivevi più qui. Ti stavi facendo adulto nella grande città. Io vendo giocattoli per bambini.
Roberto si aggrappò a un'idea improvvisa: – E chi ce l’ha adesso? A chi l’ha venduta? Forse accetteranno di rivendermela.
– Non so chi siano, da dove siano venuti, né dove siano andati. Dimenticalo, Roberto. Mi dispiace davvero. Non so che altro dirti.
Al giovane vennero subito alla mente centinaia di immagini. Ricordò la prima volta che vide quell’automobile giocattolo. A grandezza naturale! Di colore rosso brillante, con un design spettacolare (o così sembrò a lui). Di legno, come la maggior parte degli articoli del negozio del signor Pinò ma… così reale! A quel tempo lui doveva avere sette o otto anni. In quell’istante decise che quell’auto era il giocattolo dei suoi sogni e che non avrebbe mai potuto trovarne un altro uguale. Che fortuna averla scoperta! Aver trovato per caso un oggetto così straordinario!
Ogni pomeriggio, all’uscita di scuola, Roberto andava alla vetrina per ammirare la sua automobile. Si fermava lì davanti,  con la cartella sulla schiena, e la guardava. Per quindici o venti minuti, a volte di più. Dopo un po’, il proprietario cominciò a notare il ragazzo che visitava giornalmente il suo negozio, senza mai entrare, e vide che l’auto era l’oggetto della sua attenzione. Tuttavia, non disse niente per più di un mese. Poi un bel giorno uscì sulla porta e chiese: – È bella, vero?
Roberto arrossì fino alle sopracciglia. Non sapeva cosa rispondere. Alla fine mormorò, guardando fisso la macchina: – È stupenda.
C‘era qualcosa in quello sguardo che arrivò dritto all’anima del signor Pinò. All’improvviso, inaspettatamente, il ragazzo sembrò raccogliere coraggio e con determinazione, con passione quasi, fissò il giocattolaio con lo sguardo di chi decide di affrontare un toro infuriato.
– Quanto costa?
Ancor prima di ascoltare la risposta, Roberto seppe che non avrebbe mai potuto pagare un giocattolo così. Né  lui né i suoi genitori. Quella era un’automobile per bambini ricchi. Ma l’amor proprio gli uscì spontaneamente. Decise che aveva, almeno, il diritto di chiederlo.
Pinò guardò quel ragazzo, rosso prima di vergogna e ora di orgoglio, che aspettava con sguardo di sfida.
– Non è in vendita – rispose. – La uso come richiamo, per attirare l’attenzione sulla vetrina. Non la vendo. Inoltre, è un ricordo di famiglia.
– Ah.
Roberto non sapeva cosa dire. Da un lato, ne era felice: nessuno avrebbe potuta portarsela via, nessuno l’avrebbe privato dal vederla ogni giorno. Ma lo disorientò sentire che provava anche delusione. Per quanto denaro avesse risparmiato, anche se fosse cresciuto e avesse guadagnato un sacco di soldi, anche se i suoi genitori avessero vinto alla lotteria, non avrebbe mai potuto possedere quell’automobile. Mai e poi mai, in nessun caso.
L’uomo sembrò leggergli il pensiero perché disse subito: – Ad ogni modo la toglierò da lì. È già in vetrina da troppo tempo. Non voglio che il sole la danneggi.
Il sole. A Roberto sembrò che glielo avessero tolto all’istante, e che la sua vita e il suo futuro si fossero convertiti in un cielo molto ma molto nuvoloso.
–Anche se ho un’idea che mi gira in testa… non so…
Un piccolo ramo a cui aggrapparsi, mentre era sul punto di cadere nel precipizio? Il ragazzo ascoltò, senza osare respirare.
– Sto preparando una stanza dei giochi. Sarà una sezione del negozio, e lascerò che i bambini che lo desiderano giochino lì con alcuni dei miei articoli. Quelli non in vendita, ovviamente.
Il bambino, a bocca aperta, si sorprese da solo a domandare: – Perché?
– Perché i giocattoli servono per giocare – sorrise Pinò. – E perché tutti dobbiamo giocare, finché siamo bambini. È qualcosa che nessuno dovrebbe perdersi. Allora, ti sembra una buona idea o no?
– E anche l’automobile starà in questa stanza?
– Sto pensando di metterla lì, sì.
– E quindi… voglio dire… io potrei venire tutti i giorni a giocare un pochino?
– Tu e tutti gli altri bambini. Certo che sì. È questa la mia idea. Credo che a partire da domani sarà già tutto pronto.
Roberto balbettò un grazie e si allontanò in fretta, emozionato, prima che il miraggio scomparisse. Non voleva svegliarsi e scoprire che tutto era stato un sogno. Il signor Pinò si fermò un istante sulla porta, a guardarlo mentre si allontanava di corsa, la cartella sulle spalle, i capelli mossi dal vento.
La mattina seguente si presentò diversa, una mattina di sabato più chiara e allegra del solito. Roberto era già sulla porta, vestito e ben pettinato, quando Pinò aprì il negozio di giocattoli.
– L’auto non c’è più. Questo vuol dire che…?
– Entra. – Il giocattolaio gli fece un occhiolino complice.
– È incredibile!
C’erano la casa delle bambole, i peluche, il treno, i mattoncini. Una stanza grande, enorme, piena di giocattoli meravigliosi. Un teatro di marionette simile a quello dell’insegna sulla porta. Le pareti e il pavimento, entrambi coperti con carta da parati di colore azzurro con nuvole disegnate sopra, davano la strana sensazione di trovarsi in mezzo al cielo, come se si stesse galleggiando. Roberto pensò che il paradiso doveva essere così. E al centro l’automobile rossa, che lo aspettava.
– Avanti, come fossi a casa tua. – Pinò lo spinse dolcemente e poi uscì dalla stanza. – Divertiti – gli augurò prima di chiudere la porta dietro di sé.
Roberto girò un paio di volte intorno al giocattolo, ammirandone tutti i dettagli. Solo dopo qualche minuto osò toccarlo, quasi con devozione, prima di aprire la portiera e sedersi dentro. Un volante, il claxon, i sedili, poco altro.
– Benvenuto.
Ci mise un po’ a rendersi conto che in realtà non aveva sentito nulla. Ma quella parola ancora risuonava nella sua testa.
– Siediti comodo. Sarà il nostro primo viaggio insieme.
Pensò che quello non poteva essere, che i giocattoli non parlano, che alla fine quell’ossessione lo stava facendo diventare pazzo. Ma prima che avesse tempo di rifletterci, la voce tornò a risuonare dentro di lui.
– Non spaventarti. Non sono un giocattolo ordinario. Ti aspettavo.
– Stai parlando a me? – osò chiedere ad alta voce, soprattutto per cercare di mantenere la lucidità ascoltando la propria voce.
– Andremo insieme in posti meravigliosi. Quelli che tu vorrai. Che inventerai per me. Dove preferisci andare oggi? Dovrà essere un posto molto speciale. Tieni presente che sarà il primo dei nostri viaggi. Dev’essere qualcosa che ricorderai per sempre.
Roberto decise che la cosa migliore era lasciarsi andare. Se è un sogno sarà meglio goderselo.  Pensò un momento. Lo avevano sempre affascinato le piramidi e i faraoni.
– Nell’antico Egitto – dichiarò.
Notò come il volante vibrava sotto le sue mani. All’improvviso tutto tremò come se stessero viaggiando a gran velocità. Non vedeva nulla dai finestrini. Chiuse gli occhi. Dopo alcuni secondi, la macchina sembrò fermarsi.
– Ora puoi guardare.
Si trovavano in mezzo al deserto, di fronte a una delle piramidi. Cento schiavi si affaccendavano nella sua costruzione.
– Meraviglioso! È un filmato o qualcosa del genere?
– È molto meglio. Puoi uscire a fare una passeggiata, se vuoi.
– Quindi è reale? Sei una macchina del tempo?
– Sono una macchina dell’immaginazione. Questo vuol dire che posso portarti in qualunque luogo che la tua mente desideri.
– Puoi portarmi a Disneyland?
– Posso portarti a Disneyland così come tu la immagini.
– Quindi non sarò lì per davvero, è così?
– I tuoi viaggi con me saranno fantastici, non reali. Andremo tanto lontano come vorrai, vedremo e faremo ciò che vorrai. Tutto quello che la tua immaginazione sia in grado di contenere.
– Altri pianeti?
– E altri universi. Qualsiasi cosa immagini.
In pochi secondi, cento possibilità affluirono alla sua mente. Poi ricordò un dettaglio importante: – Perché hai detto che mi aspettavi? Perché io?
– Perché solo tu puoi condurmi in posti incredibili. Gli altri bambini non sarebbero capaci di uscire da questa stanza. Non vedrebbero mai al di là della carta da parati.
Roberto ricordò quel primo viaggio e i successivi, nei luoghi più curiosi e lontani, in ambienti insoliti e meravigliosi. Visitarono insieme terre conosciute e sconosciute, sperimentarono sensazioni magiche e indimenticabili, conobbero personaggi storici e di fantasia, e loro stessi furono qualcosa di diverso ogni giorno. Finché al bambino, inspiegabilmente, iniziò a mancare l’immaginazione.
– Non è colpa mia – cercò di giustificarsi. – Sto crescendo, sono quasi un adolescente… Tu sei un’automobile fantastica e abbiamo vissuto insieme avventure incredibili, ma… non erano vere. Quello che voglio adesso – lo sguardo gli cambiò. Guardava oltre le nuvole che adornavano la carta da parati, oltre quel cielo che tutto a un tratto gli sembrava infantile e poco credibile, – ciò che voglio adesso è qualcosa di diverso. Voglio poter vedere, toccare, camminare in luoghi reali. Voglio una macchina vera, che mi porti per davvero in tutti quei posti che abbiamo immaginato. Voglio che le fantasie diventino realtà.
– La realtà non sempre corrisponde alle nostre fantasie.
– Ne sono cosciente. Ma non posso vivere di sogni.
Ci fu un momento di silenzio. Dopodiché la voce della macchina pronunciò quella che sarebbe stata l’ultima frase rivolta a Roberto: – Sei stato un buon conducente.
– E tu un buon giocattolo. Però devo uscire, prendere contatto con il mondo reale.
A seguire ci furono gli anni in città, il liceo, le prime ragazze… e infine, la sua prima macchina. L’illusione di viaggiare e trasformare in realtà i suoi sogni di bambino, l’impazienza prima e la delusione dopo. Le cose non erano mai come le aveva immaginate. Erano molto più grigie, più comuni e insignificanti. La vita in generale lo era.
Gli costò quattro anni decidersi. Diceva a se stesso che doveva essere matto e due minuti dopo si convinceva che non era mai stato così sano di mente. Fu quest’ultima convinzione a vincere la battaglia che lo riportò, infine, al negozio di giocattoli di quel piccolo paese italiano, quella mattina di novembre.
Pinò lo vide uscire dal negozio e attraversare la strada senza guardare, per andare a sedersi su una panchina nelle vicinanze. Tutto a un tratto, sembrava un bambino perso e confuso. Una farfalla piccolina, con il corpo di legno e un cappello a cilindro, ali di seta su un’intelaiatura di filo, scappò dalla vetrina e volando andò a posarsi sulla spalla del giocattolaio, quando questi tornò all’interno.
– Non credi che si meriti un’altra opportunità?
– Conosci le regole.
– Ma è ritornato.
In silenzio, Pinò camminò piano fino a una piccola stanza sul retro. Si fermò un attimo a riflettere contemplando un enorme rilievo coperto con un telo. Infine lo sollevò, lasciando scoperta la vecchia automobile rossa, impeccabile e tanto magica come negli anni precedenti.
– Ci sarà da pulirla e darle qualche ritocco prima di esporla di nuovo.
– Questo vuol dire… – cominciò la farfalla, ancora sulla spalla di Pinò.
– Non è lui. Non è neanche lui. Sembra un compito impossibile. Tutti finiscono col diventare adulti. E io sono molto stanco. Ho bisogno di trovare qualcuno che prenda il mio posto alla fine. Un sostituto.
– Ne avevamo trovato uno, ricordi? Peter.
– Sì, lui sarebbe stato adatto. Ma decise di fermarsi nell’Isola che non c’è. Ho dovuto rispettare la sua decisione.
– Che cambiamenti pensi di fare alla macchina? – La farfalla cercò di cambiare argomento, per animarlo un po’.
– Non so, dovrò aggiornarla, modernizzare il design…
– Come hai fatto con me? Riconosco che essere una farfalla è molto meglio che essere un grillo.
– Immagino ­– annuì il giocattolaio.
– Sei sicuro che non possiamo dargli un’altra opportunità?
Senza dire una parola, Pinò si diresse all’ingresso e guardò la strada. Roberto era ancora seduto sulla panchina.
– Lo vedi che non si può.
Dalla testa, dalle mani e dai piedi di Roberto si innalzavano fili sottilissimi, di colore grigio, che salivano fino al cielo e si perdevano in altezza. Lo facevano sembrare un burattino. C'erano diversi passanti che attraversano la strada e la piazza vicina. Erano tutti appesi a fili colorati: verdi, rosa, azzurri, neri, bianchi. Alcuni multicolore. Certi più grossi di altri. Anche i conducenti d’auto avevano fili, che curiosamente non si impigliavano tra loro, né con i fili degli altri. Solo i bambini correvano o giocavano liberi, senza quella strana condizione che nessuno, tranne Pinò e il giocattolo, sembrava avvertire.
– È già un adulto. Come gli altri. Non c’è rimedio.
– Non puoi essere l’unico, Pinò. Deve esserci qualcun altro.
– Diventare un bambino vero, quello fu il mio desiderio e il desiderio di mio padre. Perdere i miei fili per sempre. Ma per sempre è troppo. È un testimone molto pesante da portare per tanti anni. Ho bisogno di trovare qualcuno che mi sostituisca in negozio. Sono così stanco, amico mio. Anche se la mia mente è quella di un bambino, il mio corpo si deteriora. Certo, molto lentamente, però...
– Beh, questo è lo svantaggio di non essere più di legno per essere finalmente di carne e ossa. – La farfalla cercò di far sì che quella frase suonasse allegra, ottimista. Ma senza risultato. Decise di cambiare tattica e parlò con determinazione. – Troveremo qualcuno, vedrai. Prima o poi.
– Ho pensato che poteva essere lui. Era sul punto di riuscirci.
­– Infatti ci ha ripensato. Ed è tornato.
Guardarono di nuovo Roberto, che in quel momento si alzò piano, come invecchiato, con i fili che muovevano le sue membra e lo conducevano in piazza, fino a quando girò l’angolo e scomparve alla loro vista. Imbruniva e facevano timidamente capolino le stelle. Una brillava in particolare sopra al negozio di giocattoli.
– Sì, è tornato. Troppo tardi – sospirò l’anziano. E scosse la testa, come a voler dimenticare ciò che non aveva più rimedio. – In ogni caso, Pepito, ci sarà da mettersi al lavoro.
E Pinò, come Pepito lo chiamava, l’eterno bambino che non era mai tornato a essere un burattino, entrò in negozio. Sulla sua spalla la farfalla, cosciente che in quel momento non gli restava altra opzione che dimostrargli il suo appoggio in silenzio. Pinò prese lo sgabello, che insieme ad alcuni strumenti era l’unica eredità del vecchio Geppetto e si mise a lavorare all’automobile rossa un’altra volta. Attraverso la finestra aperta la stella illuminava le sue mani rugose ma abili, che tagliavano, pulivano, dipingevano, ritoccavano il giocattolo in modo paziente e amorevole.
Non fu pronto fino a tre settimane più tardi, giusto prima della vigilia di Natale. Quella stessa mattina, una bambina di circa sette o otto anni si fermò ad ammirarla: un’automobile a grandezza naturale! Mai, in tutta la sua vita, aveva visto qualcosa di tanto bello. Era semplicemente perfetta.

(Traduzione dallo spagnolo di Giuliana Acanfora)

venerdì 6 dicembre 2013

MIGRANTI di Peppe Murro




Sciamavano, fra bagliori improvvisi e tempeste di neutrini e si lasciavano portare dalle onde gravitazionali, milioni di puntini luminosi nel vortice nero del vuoto… sciamavano inerti, occhi chiusi e cuore in allerta.
Sciamavano… astronavi o mondi interi non lo sapeva e neanche lo interessava.
Li vedeva andare dal casco ricevuto in soccorso da quegli strani alieni, e si sentì completamente soddisfatto.
Fu allora che i suoi pensieri tornarono indietro, come a ripassare una storia che non gli apparteneva più, ma che era la sua. Ricordò, ricordò ogni cosa.
Non era comoda la prigione in LG97, due metri per tre senza finestra, ma dicevano che era quanto meritavano i criminali irrecuperabili…già, loro, la gente civile, che si chiudeva la sera in cubicoli ancora più piccoli e avvilenti, ma liberi, liberi di impiccarsi con pasticche e piastrine neuroniche per viaggiare felici nei sogni, e fingere vite senza incubi.
 Non dovevano farlo…! Condannarlo al peso di una solitudine desolante ed opprimente, in una scatola automatica diretta verso il niente, condannarlo al terrore del vuoto e per compagnia null’altro che i suoi pensieri.
Non dovevano farlo… era stato peggio che ucciderlo… una nuova tortura tecnologica e compassionevole, il vuoto e il non sapere.


Dove e quando fu risvegliato non gli sembrò importante, ma forse fu un bene liberarsi da quei sogni cui non poteva sfuggire, o dagli incubi che gli pulsavano di gelo nel cuore.
Avrebbe voluto disperatamente regalarne loro qualcuno, o più semplicemente far loro provare quanto si è soli in una scatola di plastica e acciaio che va per lo spazio silenziosa; già, avrebbe voluto davvero regalare al mondo intero qualcuno dei suoi incubi più atroci e sfrenati.
Ma si sentì stanco di colpo, provò goffamente a muovere un braccio… respirava a fatica. E quelle voci, quelle voci dentro la testa che non davano tregua come un artiglio graffiante di pena, come uno strazio dell’anima, assetato e insaziabile…


Non dovevano farlo… non era giusto prelevarli a gruppi e spedirli nello spazio a tentare non si sa che di nuovo… d’altronde loro erano gli irrecuperabili, i ruleout, quelli che non osannavano il mercato e il consumo, gli emarginati, per volere o per forza. Consumare… questo era l’obbligo assoluto.
 “Tutto deve essere tuo perché hai diritto alla felicità” era la sola legge, inderogabile, del pianeta: tutti uguali nella stessa leggerezza, nella stessa ubbidienza, nell’identico e mostruoso dovere di essere felici. Finalmente, si disse con un’inaspettata amarezza, s’era realizzata l’utopia della giustizia e dell’uguaglianza.
E pensare che quelli come lui non erano neppure “contro”, semplicemente erano “fuori”, se ne infischiavano dell’obbligo di consumare. Forse era questo il crimine più grande: fossero stati “contro” li avrebbero potuti etichettare e colpire, ma così… così diventavano sguscianti e di cattivo esempio per la gente perbene, che non doveva capire come fosse possibile una vita diversa dal sognare vetrine. Per questo dovevano essere imprigionati, per questo li usavano come carne da macello per improbabili conquiste spaziali o esplorazioni senza ritorno.
Inadatti al consumo, dunque inutili e socialmente pericolosi… mandarli in missione sembrava quasi un gesto riparatorio e pietoso attraverso cui avrebbero avuto la loro redenzione.


Chiuse per un attimo gli occhi, cercò di fare un respiro profondo… per questo lo avevano gettato in quella parte inesplorata dello spazio, calato su una scheggia di roccia che ruotava da qualche parte…
E lì aveva sentito le voci, mentre guardava con ansia la melma di metano in cui sprofondava la sua nave spaziale. Parlavano, chiedevano, ululanti ed urgenti, a milioni.
Sentiva nella sua testa un che di disperato e vorace, percepì l’esilio e la fame, lo attanagliò fin nelle visceri la voglia di possesso, di una patria, di una casa, di una scodella… si sentì preso dalla stessa infinita irragionevolezza di chi vuole.
Capì che lui doveva indicare lo scopo, la patria, la fine della mancanza.
E come in un lampo lo afferrò la rabbia verso chi lo aveva mandato a morire su quella forca di metano, gli vennero in mente i nomi, i volti, i paesaggi… il terzo pianeta…
Il terzo pianeta, involgarito e letale, in un sistema marginale di una galassia qualsiasi…
Pensò alla sua vita, alla sua casa, a quel mondo luccicante e senza misericordia; pensò che stava morendo, e una rabbia incontenibile quasi gli scoppiò dentro quel casco: ci voleva una vendetta per tutti gli emarginati della terra, una vendetta di migranti, che portassero morte e terrore tra quelle vetrine istupidite da finte giovinezze, consumate in trapianti d’organi e leggins push-up bionici.
Ci voleva una vendetta di migranti-briganti.
Di colpo si sentì quieto, soddisfatto, in pace con se stesso. Sentì rilassarsi tutto il suo corpo; forse, ma non ne era certo, gli nacque un sorriso da dentro.
Ed ora li vedeva… sciamavano veloci nel nero più fondo, a milioni verso un puntino di luce. Sciamavano come migranti verso una nuova patria, come naufraghi in cerca di un approdo, o vampiri a caccia di nuove prede.
Si sentì morire, mentre il respiro diventava più affannoso.
Nel suo rantolo finale sorrise di odio… sì, sciamavano, a ondate, nel vuoto nero silenzioso dove sembrava che anche le stelle si perdessero, sciamavano crudeli e fameliche verso il terzo pianeta… cavallette, cavallette spaziali a compimento della sua vendetta.  

martedì 3 dicembre 2013

LA SCELTA DI SU di Massimo Mongai

Non è possibile definire con esattezza Su. Era senza dubbio una entità senziente ed aveva avuto una origine organica di cui manteneva alcune tracce nella sua attuale configurazione. Per il resto era formato da tecnologia molto avanzata, ma il più era una configurazione topologica su più piani tempo-dimensionali. Appariva come una sfera di metallo, una sfera di luce accecante, del diametro di un chilometro, circondato da una nebbia colorata in movimento, bello a suo modo.
Su era praticamente immortale, antichissimo e anche se non era propriamente onnipotente, ci andava vicino.
Avendo dimenticato molte volte quasi tutte le sue precedenti fasi, Su forse non era nemmeno immortale, perché se si vive tanto a lungo da dimenticare il 90% della propria vita, questo vuol dire che non si è più quel che si era, quindi quel che si era è morto.
Su era arrivato da molti eoni alla conclusione che l'unica cosa che aveva senso per uno come lui era porsi domande e trovare le risposte, diciamo crearsi e stimolare varie forme di curiosità.
Nel seguire più o meno metodicamente queste sue curiosità era arrivato nel sistema solare.
Troppe volte aveva incontrato la vita organica per esserne ancora sorpreso. Ma aveva imparato che i Senzienti Organici, pur così elementari, a volte elaboravano qualche forma di comportamento interessante, che poteva stimolare la sua curiosità.
E nell'umanità aveva trovato questa strana cosa che gli umani definivano "arte", in tutte le sue manifestazioni: in particolare i quadri e le sculture. Aveva identificato poi nei meccanismi riproduttivi della specie un comportamento di fortissimo legame fra gli adulti della specie ed i neonati.
Seguendo le fredde volute di un pensiero estremamente alieno, tutto suo, era arrivato a mettere sullo stesso piano di analisi, l'amore per i capolavori e l'amore per i bambini.
Gli umani attribuivano un estremo valore ad entrambi. Parte della loro economia era basata sul commercio degli uni e degli altri. E Su non riusciva a capire quale dei due valori fosse prevalente, perché si trattava di oggetti molto diversi fra di loro, con diverse prestazioni e deperibilità.
E si pose la domanda: quale delle due cose è più importante per gli umani?
Prese quindi il controllo dell'umanità e con i mezzi che aveva ci mise pochi mesi: era onnipotente, poco meno di un dio però tanto indifferente da essere malevolo. Poi pose ad un numero ristretto di esseri umani, circa 10.000, una scelta. Posti davanti a due contenitori trasparenti con all'interno l’uno un'opera d'arte famosa e l’altro con un neonato della specie, dovevano scegliere: dovendo distruggere uno dei due, quale? Fra un neonato di pochi mesi e “La Gioconda"?
Non era uno scherzo, un sogno, era tutto reale. In migliaia di casi tutto ciò avvenne in pubblico e comunque davanti alle telecamere di tutte le TV. L'umanità era choccata e ridotta male, ma il sistema nell'insieme stava reggendo. Tutti i tentativi di distruggere Su erano falliti e la sua possibilità di controllare la materia era tale che era impossibile fare resistenza.
Su disse chiaramente a tutti gli umani prigionieri che dovevano decidere: o distruggere l'opera d'arte o il neonato, in caso di mancata decisione sarebbero stati distrutti entrambi compreso l'umano indeciso. L'umano indicasse un contenitore e quello sarebbe stato distrutto.
Dolore, terrore, disperazione dilagarono sulla terra.


Alla fine, allo scadere del termine circa la metà degli esseri umani prese una decisione, gli altri non ce la fecero: svennero, morirono, impazzirono.
E nel millisecondo che precedette la realizzazione concreta della scelta, la distruzione del contenitore indicato, Su capì che per capire meglio avrebbe dovuto fare una cosa nuova, diversa. E a suo modo sorrise.
Non distrusse il contenitore indicato da ogni singolo umano. Distrusse quello che non aveva indicato. L'altro.
E rimase incuriosito a guardare gli effetti.

domenica 1 dicembre 2013

IL CACCIATORE di Paolo Secondini



Il cavallo affondava con le zampe nella soffice neve caduta nella notte. A cavalcioni sulla sua groppa, il crow lo incitava con piccoli suoni gutturali e, di quando in quando, ne spazzava dalla criniera i cristalli di ghiaccio che si formavano continuamente.
Il freddo era intenso, la nebbia fitta. Non si vedeva a più di tre metri di distanza in quel tratto montuoso della Teton Range, tra lo Stato del Wyoming e quello dell’Idaho. Ciò nonostante, l’indiano sapeva orientarsi molto bene. Conosceva quel territorio a menadito, per tutte le volte che vi aveva cacciato da solo o con altri guerrieri del villaggio. In quel luogo del resto era nato, vissuto e, probabilmente, sarebbe anche morto.
D’un tratto, volse la faccia verso il cielo e, aspirando con forza, fiutò l’aria per qualche momento. Non poteva sbagliarsi: la preda era molto vicina. Benché non riuscisse a vederla, ne sentiva l’inconfondibile odore selvaggio.
Il cavallo emise un basso nitrito, quasi un iroso brontolio. Anch’esso aveva avvertito la presenza di qualcosa.
«Buono, buono!» disse il crow, battendogli sulla criniera piccoli colpi con la mano. Si piegò sul collo dell’animale come a parlargli all’orecchio. «C’è qualcosa laggiù, dietro quegli alberi. Potrebbe trattarsi di un cervo o di un orso. Tra poco lo sapremo.»
Accarezzò con dolcezza la testa del cavallo poi, silenziosamente, scivolò dalla groppa affondando nella neve fino ai ginocchi. Si levò la pelliccia di bisonte, affinché non gli fosse di impaccio, e lasciò che cadesse sulla candida coltre che ricopriva il terreno. L’avrebbe recuperata più tardi.
Con addosso una casacca leggera rabbrividì fortemente, ma resistette. Poi condusse il cavallo al tronco di un albero; legò le sue briglie a un grosso ramo.
«Ora sta’ buono!» gli mormorò di nuovo all’orecchio. Lo accarezzò sulla folta criniera spazzandone ancora i molti cristalli di ghiaccio. «Resta qui e cerca di non far rumore.»
Il cavallo, come se avesse capito il senso di quelle parole, scosse più volte la testa, quindi si volse a guardare il crow, quasi a fissarlo negli occhi. Conosceva assai bene il suo padrone, come pure le sue mosse, le sue intenzioni e, soprattutto, il suo indomito coraggio. 
Con il fucile imbracciato, l’indiano avanzò a passi lenti, curvo in avanti, circospetto, gli orecchi tesi a ogni rumore. Era uno scaltro cacciatore. Mai una volta che fosse tornato al villaggio a mani vuote.
Ma quella mattina la preda era molto più astuta e infallibile di lui.
L’urlo si alzò improvviso e prima che il crow potesse voltarsi, un violento fendente si abbatté sul suo capo. Cadde a terra senza un lamento, il volto affondato nella neve, che subito si tinse  del suo sangue.

* * *

L’indiano respirava a fatica e, ancora cosciente, capì che quella era l’ultima caccia della sua vita.
Con uno sforzo sovrumano cercò di resistere alla morte: voleva prima sapere chi o che cosa lo avesse colpito.
Sentì un rumore di passi che scricchiolavano nella neve. Poi, ci fu silenzio.
Con un altro indicibile sforzo il crow dischiuse le palpebre e scorse, a breve distanza dal suo viso, un paio di grossi stivali confezionati con pelle d’orso. Non poteva sbagliarsi: erano, quelli, i noti stivali di John Johnston, lo spietato uccisore di crow, il solitario delle montagne, il folle, il reietto, la belva assetata di sangue, l’uomo da tutti conosciuto come Mangia Fegato Johnston.
Com’era possibile?  Quel dannato assassino era morto e sepolto ormai da due mesi!... Probabilmente qualcuno gli aveva sottratto gli stivali (tanto a lui non servivano più), profanando la sua tomba.
L’indiano fu invaso da un senso di terrore, quando nell’aria risuonò la forte e sprezzante risata del suo assalitore.
Si volse a osservarne il viso emaciato, di colore verdastro, a tratti nero – gli parve in stato avanzato di putrefazione –, dalle orbite vuote, dai denti lunghi, ingialliti…
Non ebbe alcun dubbio: era, quello, il viso di Johnston. E sebbene la morte lo avesse trasfigurato, il crow non stentò a riconoscerlo.
Ebbe un sussulto e, mentalmente, pregò Wakan Tanka, il Grande Spirito, di fargli al più presto esalare l’ultimo respiro, prima che John Johnston – o quello che era – gli aprisse la pancia con il coltello, e vi affondasse la mano per strappargli il fegato.