Essi costruiscono con pietre e non
si accorgono
che ogni loro gesto per posare la pietra nella calce
è accompagnato da un’ombra di gesto
che posa un’ombra di pietra in un’ombra di calcina.
Ed è la costruzione d’ombra che conta.
(Jean Giono)
Il cane si muoveva negli intrichi di arbusti che circondavano la casa,
seguendo tracce accessibili solo alla sua sensibilità canina. Dal terreno
sbocciò un fiore metallico. I suoi petali si allargarono fulminei e
squarciarono il cane.
Duccio
Mancava poco alle tredici. Quando il telefono suonò, lui intuì che era
la mamma. Si rendeva conto dell’assurdità, il suono di un telefono non può
essere influenzato da chi chiama. Eppure succedeva sempre più spesso.
- È sua madre, dottor Silvestri. Sulla due.
La madre di Silvestri viveva sola, in una delle vecchie case sparse
oltre la periferia dove la piattezza del panorama era interrotta dallo
spiralare della tangenziale e dai tralicci dell’alta tensione.
- Duccio – disse la voce della mamma. – Sta uscendo. Devi deciderti a
venire.
Lui guardò Monica, la segretaria. La ragazza sembrava intenta alla
tastiera.
- Cos’è che sta uscendo, mamma?
- Ma il ragno, no? Dal muretto del giardino. Se uscisse del tutto
potrei schiacciarlo, ma se ne sta rintanato tutto il giorno dentro la fessura e
sol…
- Mamma, adesso non…
- … e soltanto verso sera mette fuori una zampa. A volte ne mette fuori
un paio.
- Mamma…
- Lasciami parlare! Fa freddo uscire di sera per scoprire dove vada. E alla
mattina è già rientrato nella fessura. Cosa pensi che faccia durante la notte,
potrò trovarmelo nel letto?
- No. Verrò appena esco dall’ufficio.
- Bravo. Ma devi sbrigarti, perché se arrivi tardi mica lo vedi.
- Sì, mamma, ho capito.
- Un’altra cosa. Il pallone è pieno di bestie. Mi tolgono la luce. È
talmente pieno che non ci vedo nemmeno a camminare. – La voce della donna aveva
adesso un tono flebile, lagnoso: – Ho telefonato a quell’altra, a tua sorella,
ma non la trovo mai. Sarà appiccicata a qualche schifoso che le sbava addosso,
dopo che ho sacrificato tanto per…
- Ci vediamo dopo.
- Duccio mio, prometti che verrai? Sei l’unico che mi può aiutare.
- Ho detto che ci vediamo tra poco. – Duccio incontrò lo sguardo della
segretaria.
- Bravo, ti aspetto. Fa presto, Duccio, mi raccomando.
Era tentato di uscire subito, ma doveva completare la pratica in corso.
Pregò Monica, nel caso sua madre avesse ritelefonato, di dire che lui era già
uscito.
La mamma richiamò dopo mezz’ora.
- Era ancora sua madre. – Disse Monica dopo aver messo giù il telefono.
Soffermò lo sguardo su Duccio qualche attimo più del necessario.
Ancora una manciata di minuti, poi non riuscì a trattenersi. Affidò a
Monica l’incarico di finire il lavoro. La ragazza fece notare che certe responsabilità
non le competevano e che si sarebbe rivolta al dottor Mancini.
- Va bene, faccia come crede.
Duccio si lasciò alle spalle la periferia. Dicembre era appena passato.
Un leggero nevischio lo obbligava a usare il tergicristallo intermittente. Nel
buio del cielo intravedeva le luci rosse in cima ai tralicci dell’alta
tensione. La tangenziale era una fila di lumini gialli che s’involava in una
larga curva.
Ancora mezzo chilometro e la casa fu dinanzi a lui, contornata dal
muretto sbrecciato, le finestre serrate, apparentemente disabitata. Non usò le
chiavi e nemmeno suonò, forse la mamma si era assopita e lui voleva evitarle un
risveglio brusco. Bussò nel modo convenuto. Quel suono di nocche l’avrebbe
estirpata dal sonno più profondo senza provocarle ansia.
Nessun’altra delle case sparse intorno era più abitata, tutte ridotte
ormai a ruderi. Solo la casa dove la mamma si ostinava a vivere era
sopravvissuta discretamente.
Un fruscio. Duccio aspettò la solita domanda, poi: - Sì, mamma, sono
io. – La porta si aprì facendo strusciare le imbottiture che la sigillavano.
Anche le finestre erano chiuse allo stesso modo, listate di gommapiuma e nastro
adesivo. Rimanevano così tutto l’anno.
Con lo sbuffo di luce giallastra che lo investì quando la porta fu
aperta arrivò anche l’odore della casa, un miscuglio di polvere rappresa,
umidità di cotture e un sottofondo dolciastro di sciroppo per la tosse. Non
vedeva la mamma da una decina di giorni. La trovò ancora più curva. La malattia
le deformava il corpo in modo sempre più deciso. Evitò di accendere la luce
grande perché era lei che, eventualmente, l’avrebbe fatto, e lui rispettava il
rituale. L’unico chiarore proveniva dalla lampadina da 15W dell’abat-jour
sul comodino accanto al letto. Nella penombra, la figura scura della mamma
s’inoltrò all’interno della casa, un braccio teso per mantenere il contatto con
il muro e i contorni dei mobili. Il termostato era regolato come al solito sui
sedici gradi; lei preferiva coprirsi con vecchie robe messe l’una sull’altra
che la sformavano ancora di più. Sembrava un enorme carapace che strisciava
lento, silenzioso.
- Non accendere la luce – disse la mamma. - Ti faccio vedere il
ragno.
Prese una piccola torcia e si avvicinò alla portafinestra. – Ho fatto
un buco all’altezza giusta. Tu guarda attraverso la fessura. – Accese la torcia
dopo averla accostata al foro. Un filo di luce trasse dal buio una costolatura
del muretto del cortile che lei chiamava giardino. – Vedi? Proprio tra quei due
mattoni… quel segno nero è una zampa. Un po’ alla volta esce del tutto e poi
scappa e non lo vedo più. Chissà dove andrà a procurarsi il cibo durante la
notte. – Spense la torcia. – Pensi che troverà un passaggio per entrare qui?
Duccio sospirò. – Perché non ti metti tranquilla e guardi la televisione,
eh?
- Ma l’hai visto? Hai visto come tiene fuori la zampa?
- Sì. Adesso accendi la luce e dimmi cos’altro ti serve che devo
scappare.
- Sempre di fretta. Mi sembri quello sgangherato di tuo padre,
continuamente alla ricerca di chissà cosa. E quando è diventato matto del
tutto, guarda come mi ha lasciata.
- Posso accendere?
- Faccio io. Ma tanto, non si vede niente delle bestie che si sono
infiltrate nel pallone.
Dopo che la donna ebbe accesa la luce, Duccio salì su una sedia per
staccare il globo di vetro, lo rovesciò nell’acquaio e i corpi rinsecchiti di
tre zanzare scomparvero nel tubo di scarico. Rimise il globo. – Ecco fatto.
- Quand’è che mi farai il lavoro in giardino, Duccio? – La voce della
mamma aveva ripreso il tono querulo. – Non voglio più vederla quella faccia. Mi
ha rovinato la vita e continua a perseguitarmi.
- Ho già parlato con l’impresa. Uno di questi giorni portano il
materiale.
- Anche le piante, mi raccomando.
- Certo, anche le piante. – Assicurò Duccio sistemandosi il giubbotto.
Si chinò per darle un bacio. Ogni volta doveva chinarsi un poco di più. Dal
viluppo che copriva il corpo della vecchia filtrava un odore rancido di capelli
non lavati. La baciò sulle guance infossate. Sentiva una specie di singulto
vicino all’orecchio dove la mamma teneva appiccicate le labbra.
Luis
- Ma cos’è ‘sta roba, stai sudando come una bestia. Sarai mica malato?
Luis si passò il fazzoletto sulla fronte madida. – Ma che malato, è che
fa un caldo qui dentro!
La ragazza lo fissò mettendoglisi scherzosamente a contatto di naso. –
Di’, tutta ‘sta faccenda del caldo e del sudore sarà mica perché è la prima
volta?
La luce proveniente dall’esterno era appena sufficiente per
tratteggiare le loro figure. Solo quando passava una macchina i fari mettevano
per qualche attimo in evidenza i particolari. Luis prese dal portaoggetti il
pacchetto di sigarette.
- Ennò, adesso ti metti pure a fumare! Credi che abbia tutta la serata
per te? Vabbé che non sei da buttar via ma il taim è il monei, come dicono gli
americani.
- Io non ti pago?
La ragazza si ridistese sul sedile abbassato. – Ci mancherebbe. Solo
che… uno paga più volentieri se rimane soddisfatto. Questa ce la fumiamo dopo,
ochei? – Gli si accostò ancora con mossa avvolgente. A pochi centimetri dai
suoi occhi, Luis aveva una vaga immagine di volto femminile con una gran massa
di capelli scuri e lo sprazzo chiaro di un sorriso. Sentiva sull’inguine il
peso del suo corpo che si muoveva con abilità professionale. Passò una
macchina. Il volto della ragazza scoppiò in una fuga d’ombre. Luis avvertiva
con disagio le gocce di sudore spuntargli sulla fronte, il tessuto fradicio
della camicia appiccicarsi sotto le ascelle, il respiro farsi pesante. E il
corpo che si stava seminando di macchie rosse. Come al solito.
La ragazza continuava a strofinarsi. – Forse ho capito cos’è che vuoi
te, qualcosa di speciale ma non hai il coraggio di chiederlo. Perché allora non
vieni da me? Qui va bene appena per una sveltina.
Luis si slacciò il colletto bagnato. – Senti. – disse. - Non è serata.
A volte càpita, no? Ecco, prendi e… scusami.
Lei prese il danaro e fece una smorfia che voleva essere buffa. – Facciamo un altro tentativo? Dài, che col
giochetto che la Marisa sa fare così bene…
Il giovane scosse la testa, poi aprì la portiera. La ragazza scrollò le
spalle. Prese la pelliccia e scese. Luis mise in moto curvando lentamente per
immettersi sulla strada principale. Attraverso lo specchietto vide la ragazza
che parlava con le altre. Ridevano.
Duccio
- Dovresti curarti di più, sei sciupato.
Dalla porta e dalle finestre sigillate non entrava nessun rumore,
nemmeno il brusio della tangenziale. La televisione era spenta, il bruciatore
non ronfava perché il termostato tenuto basso non gli trasmetteva l’ordine di
accendersi. Solo dal frigo arrivava una sorta di borborigmo. Erano seduti l’uno
di fronte all’altra, lei sulla sedia di vimini con lo schienale alto. In quella
sedia aveva ancor più l’aspetto di un fagotto scuro buttato lì in un momento di
distrazione.
- Allora, mi dici cos’è che non va? – Insistette la mamma.
- Niente, va tutto bene. Sono solo un po’ stanco.
- Perché non ti prendi una bella vacanza? Un paio di giorni possono
bastare… solo che se mi dovesse servire qualcosa… A proposito, non ti ho ancora
detto perché ti ho fatto venire qui… ma te lo dirò dopo, adesso parlami di te.
- Che ti devo dire?
La vecchia gli mise una mano sul ginocchio. Solo le punte delle dita
uscivano dalla manica del maglione grigioferro. – Duccio, ascoltami, hai la
fortuna di essere solo, senza donne tra i piedi che ti succhiano il sangue,
niente moglie, niente figli, nessuno dei problemi che rovinano la gente. Perché
non ti decidi a venire qui? Avresti spazio, tranquillità… Duccio, mi ascolti?
- Sì, mamma.
- Non so dove abiti, però tua sorella, durante una scappata che si è
degnata di fare, mi ha detto che vivi in un paio di stanze con l’umidità che
cola dalle pareti.
- Lo sai che lei esagera sempre.
La vecchia non rispose, ma dalla fessura delle labbra stirate uscì un
lamento prolungato, appena percettibile. Erano nella stanza chiamata soggiorno
perché c’era la televisione. Una bava di luce filtrava dalla cucina attraverso
la porta a vetri. Il corpo della mamma oscillava avanti e indietro chinandosi
fino a toccare con la fronte la mano che teneva sul ginocchio del figlio. Lui
sapeva che sarebbe andata a finire così, succedeva sempre quando sua madre
tentava di convincerlo ad andare a vivere lì.
- Cerca di calmarti, altrimenti stai male e devo fermarmi, con tutto il
lavoro che ho lasciato in sospeso. – Nel dire questo, Duccio aveva stretto il
corpo della mamma e l’aveva tratto a sé. Adesso aveva la sua testa appoggiata
alla spalla. Tra le braccia teneva un fagotto singhiozzante. Poi, con lieve
sforzo, spostò la vecchia sulle proprie ginocchia e, insieme, continuarono il
movimento di ninnananna. Avvertì odore di lana rilavorata, lasciata per anni
nell’umidore di una scatola, avvolta in fogli di giornale.
Quando la vecchia si fu calmata, Duccio la depose sulla sedia di
vimini. – Allora, perché mi hai fatto venire?
- La lampadina del comodino si è fulminata.
- Potevi metterne un’altra, ne hai un cassetto pieno.
- Non mi va di lavorare con l’elettricità, posso prendere la scossa e
il cuore non resisterebbe. Se ci fosse quel pazzo di tuo padre qualcosa
riuscirebbe a combinare, anche se dovrei pregarlo. Mi chiedeva cosa avrei fatto
quando non ci sarebbe stato più. Lui aveva ben chiara nella sua testa malata
l’intenzione di abbandonarmi, e non certo crepando. Sembrava un forsennato
nell’inseguire le sue idee strampalate.
Duccio andò nella camera da letto seguìto dalla vecchia che,
strisciando lungo la parete, continuava a parlare dell’uomo che l’aveva
abbandonata. Nell’osservare la spina, Duccio si accorse che non era inserita
del tutto nella presa. La sistemò e premette il pulsante. L’abat-jour si
accese.
- Non avevi inserito bene la spina – disse. – Bastava premere un poco
di più.
- Tu sei giovane, per te è niente fare sforzi che a me potrebbero
costarmi la vita. Sei sicuro di averla messa bene? Mi sembra faccia meno luce.
Piuttosto, quando verrai adesso per quell’altro lavoro?
- Appena mi sarà possibile. Intanto hanno portato il materiale. Alle
piante ci si penserà al tempo giusto, fra un paio di mesi. Dirò all’uomo di
sistemare anche il muretto.
- Non voglio estranei in casa mia, una decina di mattoni sei capace di
metterli anche tu. Se abitassi qui potresti lavorare in giardino tutti i sabati
e le domeniche e le feste comandate, piantare piante, fiori e anche ortaggi e
alberi da frutto. Ma non mi ascolti. Io però quella faccia sul muretto non la
voglio più vedere, hai capito? Sono obbligata a tenere chiuso anche da questa
parte per non averla sempre davanti agli occhi.
- Ho scrostato il muretto già due volte, mamma, e tu continui a
vederla. È solo immaginazione.
- Lo sai che non è vero. È la faccia di quel pazzo di tuo padre che mi
perseguita e se ne starà lì fino a vedermi morire.
Duccio
Già nell’entrata cominciò a calpestare fogli di giornale, poi vide che
ogni stanza ne aveva il pavimento coperto.
- Si sta sgretolando tutto – gemette la vecchia guardandosi intorno. –
Ho messo questi giornali per riparare il pavimento. Adesso che comincia il
caldo vorrei aprire qualche finestra ma mica posso far vedere i pavimenti in
queste condizioni, anch’io ho il mio orgoglio!
- Che c’entra l’orgoglio, mamma. Sarebbe invece tempo di togliere
quella roba incollata sulle finestre e far entrare aria e sole.
- Mio povero Duccio, anche tu ti sei imbarbarito come quella sciagurata
di tua sorella che chissà dove è andata a finire e cosa starà combinando! Tu ne
sai niente, Duccio? Dillo alla tua mamma se sai qualcosa.
- Ma cosa vuoi che combini, ha il suo lavoro all’ospedale, i suoi
impegni. Qualche volta ci sentiamo. So che, quando può, viene a trovarti, a
volte si ferma qui a dormire.
- Sarà più di un mese che non si fa viva nemmeno al telefono. Ormai
quella è perduta. E anche tu ti sei trasformato se non capisci perché non
voglio aprire le finestre e mostrare i pavimenti rotti. E poi, cosa vedrei
oltre la tangenziale e i tralicci dell’alta tensione? Ero abituata a ben altri
panorami prima di incontrare quell’incosciente di tuo padre. E adesso eccomi
qua, nel deserto. Credi che non mi piacerebbe aprire almeno la portafinestra?
Ma c’è quel ragno che diventa sempre più gonfio. E adesso mi troverei davanti
agli occhi non solo la faccia di tuo padre ma anche le pietre che hai fatto
portare e che sono ancora lì. Sai che spettacolo. Quando ti deciderai a tirare
su quei due metri di muretto, eh?
Mentre la vecchia parlava, Duccio passava da una stanza all’altra
calpestando fogli che gridavano avvenimenti sbiaditi dall’oblio, riviste di
moda diventate bizzarrie. – Aspetto i rampicanti – spiegò. – Così sistemo il
muretto e metto a dimora le piante. Ti piaceranno, vedrai.
La vecchia lo seguiva. Non avendo la forza di staccare i piedi dal
pavimento, stracciava e trascinava i fogli calpestati. La scia di pavimento
nudo che generava dietro di sé dava l’impressione di un secreto. Adesso che il
grande freddo era passato, si era tolta qualche indumento, mettendo maggiormente
in evidenza la stortura dello scheletro.
- Ho dovuto spostare la cucina a gas – disse la donna. – Dalla canna
fumaria è venuto giù qualcosa. Bisognerà coprire anche quella.
- Rischierai di soffocare se chiudi…
- Ma dal camino può entrare di tutto! Tu sai a cosa mi riferisco.
- Il ragno?
- Si capisce. Anche se la roba che oggi è caduta dentro la pentola non
era il ragno ma una specie di muffa polverosa. Il brodo l’ho dovuto passare, e
nel passino è rimasto qualcosa che sembrava fondo di caffè.
- Ma non hai buttato via tutto?
- La roba schifosa sì ma il brodo era buono. Intanto ho spostato la
cucina così se viene giù qualcos’altro non andrà a finire dentro la pentola. La
fatica! Credevo di morire.
Duccio osservava sua madre mentre prendeva il bricco dallo stipetto,
toglieva da una scatola un sacchettino di plastica con del tè, la cui estremità
arrotolata era fermata da una molletta. Le sue braccia anchilosate sembravano
chele.
La vecchia mise l’acqua sul fuoco. Lui ricordava di aver visto quel
bricco da sempre. L’interno del recipiente aveva una crosta di calcare. Sua
madre si apprestò a disporre su un piatto i dolci che lui aveva portato. Per
qualche minuto nessuno dei due parlò. Nell’aria immobile si percepiva solo il
fruscio del gas. Erano le tre del pomeriggio di un sabato. Al di là delle
pareti il sole splendeva. Durante il tragitto dal centro, Duccio aveva lasciato
i finestrini della macchina aperti, e, subito dopo la periferia, l’aria gli
aveva fatto provare una sensazione che ritenne fosse di libertà.
Un ronzio seguìto da un leggero tonfo lo distrasse da quei pensieri.
Adesso il ronzio era accompagnato da una sorta di sciacquio. Guardò nel bricco.
Un grosso insetto nero era caduto attraverso il budello della canna fumaria e
si dibatteva freneticamente. Duccio versò il contenuto nella tazza del bagno e
tirò lo sciacquone.
- Non andava bene? – Chiese la mamma.
- Si era staccato del calcare. Questo bricco dovresti buttarlo.
- Va ancora benissimo, è l’acqua che non è più quella di una volta.
- Quando verrò a sistenare il muretto coprirò il camino. Farò una
struttura che lasci passare solo il tubo del bruciatore.
La vecchia sedette di fronte a lui, le sue labbra si stirarono in un
sorriso. Un braccio intorpidito si protese verso Duccio. Lui lo strinse. (Segue)