Lo scrittore, seduto alla
sua scrivania male illuminata, tra le scartoffie, poteva soltanto, e con
fatica, parlare. Da molto tempo infatti
era perfettamente rigido, impossibilitato, nonché a scrivere, a muovere qualunque
parte del suo corpo. Di fronte a lui,
indifferente, stava Medusa, con i
serpenti neri e nervosi che, sibilanti,
le scendevano attorno al viso.
LO SCRITTORE: mi è stata
tolta la parola. Me la sono tolta.
Eppure una parte di me vorrebbe ancora dire. Una parte di me non crede
all’ammutolimento e alla sua
necessità. Lì sono ancora adolescente. Quella risacca presuntuosa e appassionata. Lì sono ancora
capace di credere di aver visto, di aver la possibilità di vedere. Di capire in
modo individuale, particolare e vero. Vero anche perché, appunto, individuale,
personale, ma non soltanto per questo. Vero perché sofferta conoscenza,
discriminazione intuitiva tra arte e non-arte. Ma la parte di me adolescente è
la risacca che sta per tornare indietro, per essere impotente per sempre. È
quella parola che sta per essere detta. Che forse non sarà mai detta. Un ancora
che sta per diventare un ormai. Per tutto il resto, per tutto il restante peso
di coscienza, pensiero, la parola mi è stata
tolta e, togliendomela io stesso, prevengo e collaboro all’immolazione.
Come se questa fosse l’unica via di uscita. Impuntata, infantile. Soprattutto
teatrale. Ma in verità attraggo l’attenzione di chi? Poiché chi riconosce la
mia parola è assente oppure ha perduto
autorevolezza, chi non le crede ascende
al paradiso terreno. Chi mi ha tolto la parola ha avuto le prove
di sapere come stanno veramente le cose. Il mondo intero è parso
schierarsi dalla sua parte. E perciò dalla tua. Io chi sono per sottrarmi al
plauso? Non posso oppormi a quella gigantesca verità. Il fiato è minimo, la
plausibilità della mia contrazione praticamente nulla. Non c’è la terra. Non
c’è l’acqua che può irrorarla. Sono dunque vissuto per molti anni in buona
misura ingannandomi, vedendo beatamente quello che non esisteva, confondendo
una parte con il tutto. Ed usavo le
parole per modellare orgoglio e traumi. Ora quale parola mi può essere data e
posso darmi, e per riferirmi a che cosa?
MEDUSA: ti eri fermato alle
parole, non eri andato oltre. Ora tu lo sai. Avevi dato forma, colore, sostanza
a un mondo di parole. Ora quel mondo non esiste più. Io l’ho fatto sparire. E
tu sei diventato di pietra.
LO SCRITTORE: tu hai
guardato il mio mondo di parole, cancellandolo con la felicità e la forza positiva a cui attingi
ogni giorno, adamantina, indistruttibile. Cancellando quel mondo mi hai fatto
vedere di che sostanza era fatto realmente, sotto la coltre di quelle parole.
C’era solo qualche grumo sfilacciato, batuffoli di sostanza pregna galleggianti
nel vuoto. Nulla di intero, di tondo e definito. Nulla di solido, da poter
colpire con mano schietta. Perché bastava uno sguardo. Il tuo sguardo di
Medusa.
MEDUSA: non ti eri temprato
nel vissuto che penetra e scuote, non avevi neppure mai scelto, non avevi avuto
coraggio. Mai. Eri molle come il fango. Per questo ora sei pietra.
LO SCRITTORE: e qual è il
mio futuro?
MEDUSA: in verità non ci
sono che tre strade. Quelle che tu stesso, nel tuo affannarti inconsistente,
vedi chiaramente e vedevi anche poc’anzi. La prima strada è l’uscita allo
scoperto. La franchezza come stile. La lotta, la rottura. Ma temo che non
sia per te.
LO SCRITTORE: è perché io
sento come un valico insormontabile lo scontro diretto. Comunicare una mia idea
o passione a chi penso non le condivida mi espone al rischio di perderle, tanto
sono influenzabile e capace di comprendere le ragioni altrui. È l’empatia di
chi non è nessuno, di chi fluttua senza avere un centro a cui saldarsi. Laddove
non potrei fare a meno di resistere, perché attorno all’osso scarnificato resta
pur sempre qualcosa di essenziale, di imprescindibile, allora perderei forse il mio interlocutore. Potrei
permettermi questo lusso? Sono davvero alla portata della condanna – o
privilegio - della solitudine?
Preferisco dunque l’azione laterale, con la tentazione persino dell’azione
nascosta, alle spalle. Non posso salvarmi da questa inettitudine. Forse è la
ragione stessa del mio scrivere. Erigere muri di parole essendo incapace di
erigerli di roccia. Incapace di essere corpo, ed in mancanza dell’anima.
MEDUSA: fa parte di questa
strada anche l’ironia. Non ci pensavi più?
LO SCRITTORE: non a questo
proposito. L’ironia è salsa per tutte le pietanze, può soccorrere qualsivoglia
scelta. La sento invocare di continuo, in questi tempi. Vi ricorro con notevole
fatica; come se essa adombrasse un sacrificio reale, per il quale non ho la
generosità né l’altezza.
MEDUSA: eppure l’ironia ti
riesce bene, quando ci provi.
LO SCRITTORE: ma in verità
non amo la parola depotenziata, il disfattismo dell’uomo diviso.
MEDUSA: la parola ti serviva
per accettarti, per difenderti e confonderti. Era una mediazione, come lo è
sempre. La protesi che ti consentiva di affacciarti e di non vedere la cloaca
ma l’aiuola in fiore.
LO SCRITTORE: giusto, giusto… ma torniamo alle tre strade…
MEDUSA: subito: la seconda
non può essere altro che la resa, il riconoscimento del fallimento. Un
fallimento che potrà non conoscere vere sventure. Hai titillanti ossessioni,
meandri che, entro certi limiti, ti proteggeranno dal vuoto. E questo
crepuscolo durerà fino a quando la morte
ti sfiaterà sul collo, se non decidi di anticipare tu stesso – faccio per dire
- la mia illustre collega.
LO SCRITTORE: è la
condizione a cui ho pensato più volte, abbandonandomi fiaccamente alla linea
incorrotta del tempo. È quella già ora
presagita e per certi versi già realizzata. Potrebbe definirsi una volta per
tutte, cucendo gli ultimi squarci. Finito l’effetto dell’anestesia, ritiratasi
l’onda lunga del sopore della rassegnazione, il fondo irriducibile di
sofferenza e nonsenso resterebbe
definitivamente scoperto, fino a prevalere. A quel punto dovrei… fare ciao ciao
con la manina, uscire dalla porta di servizio. La resistenza all’ironia di cui
ti dicevo non mi permetterebbe di salvarmi sul limitare. Non sarei né il primo
né l’ultimo. E neppure il più interessante.
MEDUSA: quell’epilogo
potrebbe non esserci affatto. Non crogiolarti. L’estremo e la grandezza, se di
grandezza si può parlare in quel caso – cosa che non credo – non fanno per te.
Ma c’è l’ultima strada. Quella che ti illudi talvolta di avere scelto. La
strada che è la tua speranza ma anche il tuo alibi.
LO SCRITTORE: già lo so?
Figurarsi se non avevo fritto anche quest’aria… e senza mai cambiare l’olio,
tra quattro mura di cucina…
MEDUSA: la strada
dell’amore.
LO SCRITTORE: innegabile.
Amore più ironia, di nuovo. L’ironia non è forse in quell’orbita? Perché tutto
nacque dall’amore e tutto confluirà nell’amore.
MEDUSA: ma ricorda: l’amore , se è la tua speranza,
rischia soprattutto di essere il tuo alibi. Potrai parlare d’amore perché non
avrai il coraggio di voltarti altrove. Ti sentirai nobilitato dall’amore,
perché in fondo aspiri all’armonia ed all’evoluzione, e invece sarai solo stato
pavido, sforzandoti come sempre di tenere tutto sotto controllo. Ancora non avrai saputo dire di no, in
momenti cruciali della tua storia.
LO SCRITTORE: ma l’amore è
superiore a qualsiasi cosa, anche alla pavidità stessa.
MEDUSA: certamente, per
questo non devi confondere le due cose. Ma tu sei un inetto e questa confusione
potrà cullarti in un‘illusione perpetua.
LO SCRITTORE: ti rammento
che cose profonde mi legano a chi sceglierei di amare senza riscatto. Ci sono
momenti in cui ritengo di appartenere, nonostante tutto, realmente o
potenzialmente, al loro universo. E se anche sarà un’illusione? Sarò vissuto di
questa, perché mi sarò fermato sulla soglia della vera consapevolezza. Ma ci
avrò comunque guadagnato. Avrò ammesso i miei limiti e aderito alla condotta
conseguente. L’unica possibile.
MEDUSA: così pensi che
dipenda unicamente da te. Praticheresti in realtà la sospensione del giudizio,
pretendendo che anche gli altri facciano altrettanto. Tutti ti piacciono e
nessuno ti piace. Fai e disfi. Attento,
potresti essere facilmente smascherato. L’illusione non vale che per se stessi.
LO SCRITTORE: ma potrebbe
invece bastare. Infine anche gli altri dovrebbero arrendersi. O almeno avere il
tarlo del dubbio.
MEDUSA: fai come vuoi, come
credi. E’ una vicenda che non mi riguarda.
Io ho svolto il mio compito. Io ho svelato, prosciugato, preparato il
pieno che, ora come ora, è anche un
vuoto da riempire. Il tuo vuoto. La scelta sta a te. Puoi riempirlo di te
stesso o delle tue macerie.
Medusa si ritrasse e lo
scrittore rimase di pietra.
Dopo un tempo che nessuno
poté misurare, qualcosa iniziò a scricchiolare dentro di lui. E il suo corpo
riprese, poco a poco, a muoversi.
Ricordando il futuro.
Per rivivere?
Un cordiale benvenuto, nella famiglia di Pegasus, a Paolo Durando, scrittore e collega.
RispondiEliminaBenvenuto Paolo.
RispondiEliminaMolto curioso il tuo racconto. Mi ha ricordato un vecchio film giapponese la cui trama coinvolgeva solo due personaggi.
Scritto bene.
Benvenuto Paolo! Il tuo racconto è stupendo, complimenti!
RispondiEliminaBel racconto in forma di dialogo. Attraverso l'incredibile incontro con la Medusa, lo scrittore sostanzialmente si confronta con se stesso e con il significato della sua arte. La narrazione coniuga brillantemente l'introspezione e la riflessione di tipo filosofico con la dimensione fantastica.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino
Più che un racconto, una sorta di manifesto in forma di dialogo. Molto interessante, ma in particolare mi hanno colpito le considerazioni sull'uso dell'ironia, davvero tutt'altro che banali.
RispondiEliminaBenvenuto anche da parte mia.
Grazie per questi commenti e per avermi accolto nella famiglia di Pegasus, per essere letto e leggere...
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