Attingendo ai ricordi che conservo nei cassetti
della memoria, finisco sempre per imbattermi nelle vacanze in casa della nonna,
che furono piene di misteri affascinanti e insoluti. Ci furono avventure
incredibili e indimenticabili, ragnatele gigantesche negli angoli bui e
scandali messi a tacere.
Dormivamo nella vecchia dimora, di legni
scricchiolanti e di mattoni cotti e consumati, con una sala da pranzo con
altissime sedie tornite e una lunga tovaglia bianca. Vicino alla nostra camera,
il letto della nonna era ricoperto da un tulle contro i moscerini e altri
insetti.
Due ficus centenari facevano ombra sulla
verde ringhiera dell’entrata e sulle amache oziose dove gli zii passavano la siesta,
lasciando i loro stivaloni infangati per terra. Non lontano, si sentiva il
nitrire impaziente di Cid e di Caligula che, per via della mia statura di
allora, mi sembravano cavalli grandi come cattedrali. Ci sedevamo per ore sotto
quegli alberi perché era l’unico luogo fresco fuori casa, lanciando pietre
contro i carrubi e gli arbusti di cotone per veder correre le lucertole.
C’erano sempre visitatori forestieri e
originali, e molti arrivavano da lontanissimi luoghi e pianeti. Alle volte si
perdevano in mezzo alle dune dove atterravano per studiare la fauna o la flora
e probabilmente a osservare gli esseri come noi, che eravamo una colonia di nipotis
terribilis come ci chiamava la nonna.
Una stanza misteriosa dove ci piaceva riunirci,
quando arrivavano forestieri, era la bottega dei vini, con odore d’uva pestata
senza scarpe. In quel posto fresco invecchiava il succo dell’uva in barili con
strisce di legno o in giganteschi fusti, dietro i quali ci sedevamo a respirare
l’odore di mosto, all’ombra, sotto il tetto coperto di stuoie e di scorie che
rimanevano dopo aver sgranato l’uva negli appositi apparecchi. Il succo d’uva
acerba aveva un sapore aspro ma gradevole e ce la svignavamo all’ora della siesta
per provarlo di nascosto così come il vino dolce e invecchiato.
Un pomeriggio, la nonna sorprese Federico,
Claudio, Pepa e me nella dispensa dei vini, mentre bevevamo liquore dal barile
e cantavamo a squarciagola canzoni messicane. Ci mise tutti dentro la vasca con
piedi di leone e ci spedì a letto senza mangiare, dopo averci fatto bere una
tisana. Ricordo la stanza da bagno con pavimenti a quadri bianchi e blu e
l’enorme tinozza di metallo smaltato che sembrava una piscina, dove ci lavavamo
tutti insieme senza quella malizia che arrivò molto dopo, col passare dei fogli
del calendario.
In mezzo al giardino della nonna, circondato da
un corridoio con porte di vetri colorati e finestre con sedili incastrati,
cresceva un gelsomino che profumava il cortile con il suo aroma penetrante.
Girando intorno a quell’odore che opprimeva nei pomeriggi di calura, ci
rifugiavamo nell’ultima stanza della casa, dove l’unica luce entrava dalla
finestra del tetto e non illuminava mai gli angoli bui e solitari. Era un
cantone misterioso che diventò, secondo le necessità, un rifugio segreto, un
club in miniatura o una nube di sogni giovanili.
Era pieno di bauli impolverati, gambe tornite di
tavole che avevano assistito ai banchetti coloniali, libri, riviste di mezzo
secolo prima, oggetti misteriosi che si accendevano da soli o producevano suoni
ritmici che ci meravigliavano. Il nostro preferito era un attrezzo per produrre
arcobaleni in cielo. Lo aveva lasciato in regalo uno dei forestieri che
arrivarono alla fattoria e, quando potevamo adoperarlo, ci divertivamo cercando
tesori sulle dune alla fine d’ogni arco di colore.
Fra tante meraviglie scoprimmo antiche pitture
magiche che davano vita agli oggetti più strani che potevamo disegnare, c’erano
anche macchine che aspiravano e assorbivano l’oscurità nel recinto e che poi
soffiavamo sopra qualche lucertola, lasciandola schiacciata sotto la notte buia
che le cascava sopra d’improvviso. Fra gli altri tesori, esisteva un
apparecchio insolito e inquietante che riproduceva immagini, chiare e precise,
di persone d’altri tempi che avevano dormito in quella stanza, attraversando le
dune, come se fossero fantasmi del passato in movimento, ma che poi si
dissolvevano nell’aria.
L’antica tradizione di ricevere cordialmente i
visitatori forestieri d’altri spazi ci aveva dato una certa ampiezza mentale
per accogliere senza riserve i più sorprendenti esseri, oggetti, idee,
utensili, arnesi o macchine da trasporto in quel cantuccio lontano dal resto
del mondo, com’era la fattoria della nonna. Ricordo che quella estate, quando
si stava già lavorando all’ultimo raccolto di cotone, mais e patate e si
preparavano i campi per la successiva semina, arrivò il più straordinario e
sbalorditivo forestiero che si fosse mai avvicinato alla vecchia dimora, in
mezzo al deserto lambito dalle acque del Pacifico meridionale.
Era rilevante la sua chiara rassomiglianza con
noi, la gente del luogo, ma ci accorgemmo subito che arrivava da un altro
pianeta e che era un personaggio femminile. I suoi tratti erano umani, non
aveva artigli né squame anche se non aveva nemmeno peli o capelli di alcun
genere. La sua pelle era blu a righe arancioni, liscia, morbida e sinuosa.
Giunse una mattina presto, avvicinandosi dalla
collina arida, mentre il riflesso la faceva apparire e sparire davanti agli
occhi come se fosse un miraggio. Capivamo quello che ci riferiva, con la sua
voce soave, e Federico si affiancò a lei per accarezzare la sua pelle lucida.
La femmina ci osservava con curiosità e un sorriso sulla faccia, anche se non
potevo dire se fosse amichevole o se si beffasse di noi. Facemmo entrare la
forestiera nella grande casa e la portammo davanti alla nonna che la salutò con
rispetto e le chiese di lasciare il suo pesante apparecchio per terra. Lei lo
portava appeso sulla spalla e sembrava un fucile da caccia alla volpe come
quella dello zio Carlo, ma poi scoprimmo, a nostre spese, per quali scopi
interessanti poteva servire. Lei obbedì e disse di chiamarsi Berenice.
Quella mattina avevamo già preso la prima
colazione con il latte appena munto, ma la nonna c’invitò ad accompagnarla a
prendere una “seconda prima colazione,” come la chiamava Ignazia, quando
volevamo fare il bis della vera ‘prima’.
Per quelle idee che si presentavano alle volte,
c’eravamo alzati molto presto nella mattinata per andare di nascosto al recinto
dove dormivano cavalli, puledri e la grossa mucca Yolanda. Portammo le nostre
tazze e decidemmo di riempirle di latte alla fonte, prendendo la mira con i
capezzoli. Intenti a mungere la mucca, Federico le tirava la coda, ridendo a
crepapelle, finché i muggiti e le pedate della poveretta ci fecero desistere da
tanta stupidaggine.
In mezzo a quel silenzio colpevole che si
accumula alle volte riempiendo il vuoto, i cugini e io ci sedemmo nella sala da
pranzo con la nonna a capotavola. Metteva sempre un piatto in più, ormai lo
saprete, abituata com’era a ricevere la gente che arrivava a questo posto
lontano dalla civiltà, anche se erano d’altre culture, razze o credi, perché la
nonna ripeteva: “Non perché sono diversi bisogna trattarli come cittadini di
seconda categoria, a maggior ragione se sono esseri di buona volontà.”
In genere si mettevano sedici posti a tavola ma
quella mattina gli zii erano già fuori per il lavoro dei campi. Berenice si
sedette dall’altra parte del tavolo, di fronte alla nonna e dopo un po’ sedusse
tutti con la sua voce dolce e melodiosa. Federico la guardava con gli occhi
mezzi chiusi e la bocca aperta dalla quale scappava ogni tanto un sospiro
ansante. Mi fece rabbia e volli svegliarlo con un pizzicotto, ma non mi diede
nemmeno retta. Era istupidito, sbalordito, sedotto da quella pelle blu a righe
arancioni.
La bluastra rigata, come pensai di chiamarla,
domandò alla nonna delle coltivazioni in mezzo alle dune, dei raccolti, delle
malattie delle piante, dell’alimentazione del popolo, tutti argomenti a cui la
veneranda anziana rispose con entusiasmo, alle volte con orgoglio per aver
guadagnato qualche metro in più di terra coltivabile e altre lamentandosi delle
infestazioni nocive sulle piante e la mancanza d’acqua nei canali. Mentre
chiacchieravano, la ‘mamma grande’, come chiamavamo fra noi la nonna, bevve il
caffè forte con latte appena munto mentre si scusava per non poterle offrire
uova strapazzate. Le galline erano diventate un po’ pigre in quei giorni. La
forestiera quasi non mangiò niente anche se noi approfittammo della distrazione
dell’anziana per mangiare a cucchiaiate il miele già indurito.
Finalmente ci alzammo da tavola e la donna prese
il suo utensile, lungo come un telescopio, e si mise a osservare dal corridoio,
sopra la veranda verde, l’area coltivata nei dintorni. Intanto che lei
guardava, muoveva la lente per mettere a fuoco, mentre si sentiva un forte
sibilo. Vedemmo uscire dallo strumento una specie di fumo che volava fino alla
terra rimossa e appena seminata dell’orto. Accortasi della nostra sorpresa, la
forestiera spiegò alla nonna:
‒ Voglio che i vostri
prodotti crescano meglio e senza infestazioni.
‒ Puoi fare quello con il
tuo cannocchiale? ‒ domandò
la veneranda.
‒ Non è
un cannocchiale, né un teleobiettivo, né un telescopio. È un biogeneratore che
assorbe particelle microscopiche, le rigenera e le trasforma in microrganismi
riportandoli alla terra per ottenere piante più robuste, produttive e immuni
alle malattie.
‒ Non posso affermare che
non lo credo! Ho visto tante invenzioni nuove che, ormai, niente più mi
meraviglia! ‒ assicurò
la nonna.
Io pendevo dalle sue labbra. Sicuramente quel
coccio o cianfrusaglia spaziale era qualcosa di notevole e trascendentale.
‒ Stregonerie! ‒ bisbigliò Ignazia, e tornò in cucina, facendosi il segno
della croce. Se vedesse la città al giorno d’oggi, piena di macchine, semafori,
ascensori, scale mobili, porte girevoli, lavatrici, elicotteri e altre
invenzioni, che cosa direbbe la vecchia cuoca? Oppure, se potesse capire che la
funzione di quell’arnese della bluastra rigata non era assolutamente un fucile
per cacciare la volpe, quella ladra di galline che la faceva disperare?
Affermerebbe che è un attrezzo incontrollato e, perciò, intrinsecamente
maligno.
Federico non toglieva gli occhi di dosso a
Berenice e quell’adorazione che s’intravedeva nei suoi occhi mi stava rodendo
in profondità. Pepa, Claudio e i cugini più piccoli corsero nel pollaio a fare
volare le piume delle galline mentre recuperavano qualche uovo nei nidi.
‒ Posso anche modificare
le acque contaminate ‒ ascoltai, intanto,
dalla rigata che lo spiegava alla nonna.
‒ Sarebbe magnifico
contare su un utensile simile per risolvere il problema dell’acqua
potabile! ‒ rispose lei con entusiasmo.
Provai indignazione scoprendo l’ammirazione che
provava per lei pure la mamma grande, come Federico, fra i più anziani della
casa. Eccetto Ignazia, naturalmente. Lei non usciva dalla cucina perché
continuava a pregare bisbigliando, quando arrivavano forestieri, per non
contagiarsi con la malignità e le perversioni che ci assicurava portassero.
‒ Le scorie agricole
possono diventare materiale utile come biogas, se si modificano geneticamente
con il biogeneratore.
‒ Quel gas darebbe molta
più energia a questo posto lontano dalle fonti d’elettricità.
Abbiamo soltanto un motore per l’illuminazione o per
tirar fuori acqua dal pozzo, quando non arriva l’acqua del fiume, o per
far funzionare le macchine necessarie. Il resto si fa tutto a mano.
Mentre spiegava, la nonna portò la forestiera
verso la cucina per istruirla sulle nostre deficienze in fatto di
sopravvivenza, mentre lei lasciava il suo aggeggio sul tavolo, sicuramente per
non sporcarlo con la fuliggine di carbone che macchiava il focolaio e le pareti
intorno. Ne approfittai per fare una delle mie birichinate, ma questa volta non
calcolai l’effetto che avrebbe causato nella famiglia.
Appena voltarono la schiena, rubai il
biogeneratore della rigata e lo portai nel pollaio della nonna, ricoperto da
campanule blu. Stava proprio dietro la cucina enorme, fresca e scura d’ombre e
di carbone, che era il regno della vecchia Ignazia. Sotto quella calura
soffocante che faceva fumare la sabbia mentre si respirava polvere assieme al
profumo del gelsomino, decisi di risolvere il problema della mancanza di uova
al mattino, riproducendone meccanicamente altre più grandi, più belle e senza
malattie genetiche. Mi credevo una scienziata. Ricordavo tutte le spiegazioni
di Berenice perché ero stata molto attenta ad ascoltarla.
Mentre i cugini raccoglievano un paio di uova,
mi guardarono con gli occhi meravigliati quando entrai nel pollaio e presi la
mira col cannocchiale verso un angolo. Girai la lente e per mia gran sorpresa,
la cianfrusaglia della forestiera assorbì il gallo. Non fece nessun rumore. Non
si ascoltò alcun canto del gallo, soltanto qualche piuma svolazzò in aria, e
cadde lentamente scivolando in aria con la brezza del mattino.
‒ Che cosa hai fatto? ‒ urlò Federico, entrando infuriato nel pollaio proprio in quel
momento. Mi resi conto che aveva seguito tutti i miei movimenti invece di
andare dietro alla rigata e alla nonna come uno zombi. Feci un passo indietro e
mi girai tenendo in mano il cannocchiale e muovendo la lente per metterlo
meglio a fuoco. Senza frastuono, baccano o chiasso, il cugino sparì, si sfumò,
svanì nell’aria.
Rimasi muta per il panico. Gli altri fanciulli
lasciarono cadere le poche uova raccolte e uscirono strillando diretti verso la
cucina. Disperata, lo girai, lo strinsi, lo mossi e cercai di spremere l’arnese
stregato. Diedi pedate per terra e imprecai in silenzio fino a far apparire
nuovamente Federico in un angolo del pollaio, ricoperto di piume rosse. Quasi
mi venne un collasso. Strillai inorridita e le mie grida fecero svegliare
perfino i pavoni, le oche, i galli e tutti gli animali nei dintorni che cominciarono
a cantare, ringhiare, nitrire, muggire, fischiare e grugnire.
La veneranda anziana venne fuori della cucina
ansimando e correndo come poteva, seguita dalla forestiera e da Ignazia. Anche
lei quasi svenne vedendo il ragazzo coperto di piume, come un enorme pollo con
gli occhi sgomenti, aperti come la bocca, che non emetteva alcun suono dalla
paura. Ignazia urlava pulendosi le mani sul grembiale.
‒ Non uccidete il gallo! ‒ ripeteva, perché non aveva capito
niente.
La rigata, sentendosi in colpa per quanto
successo per aver lasciato senza protezione il biogeneratore, non mi guardò
neanche. Prese la lente e l’appoggiò al corpo di Federico. Una a una sparirono
le piume del gallo. Il cugino la guardava come ipnotizzato mentre lo
spiumavano. Al principio, invece di piangere, gridare o lamentarsi, Federico
emise il canto del gallo e poi divenne muto ancora. Poco a poco incominciò a
parlare piano, quasi bisbigliando. La nonna lo accarezzò sulla testa e gli
diede il suo fazzoletto per soffiarsi il naso che gli colava, mentre continuava
a tremare con quell’espressione da pollo spiumato. E io provavo compassione per
lui...
‒ Credo che sia arrivata
l’ora
di partire ‒ pronunciò
con la sua voce carezzevole la donna blu. ‒ Devo arrivare alle rive
dell’oceano per selezionare i microrganismi che risolveranno il
problema della contaminazione ambientale.
‒ La ringrazio, cara
amica Berenice. Non soltanto per il suo aiuto e appoggio con questi ragazzi
terribili, ma anche per i suoi validi consigli. Se qualche volta vuole tornare
alla mia fattoria, sarò felice d’averla come ospite.
Mi fecero male le parole dell’anziana padrona di
casa, perché, anche se ero sua nipote, non condividevo con lei l’ammirazione
per la bluastra rigata, né ero d’accordo di riceverla ancora con tamburi e
grancassa. In fondo, anche se mi sentivo un pochino colpevole per la mia
birichinata, pensavo che la forestiera avesse stregato tutti, soprattutto
Federico.
Lui non tremava più e la guardava estasiato,
muto e affascinato. Non poteva dire una sola parola. Invece, guardava me come
se fossi l’esecrabile mostro delle tenebre e questo mi faceva male dentro
l’anima.
Berenice mosse le labbra per salutare, con il
suo sorriso che sembrava una smorfia, e se ne andò com’era venuta,
allontanandosi in mezzo alle dune, sparendo e apparendo come un miraggio. La
nonna ci rimproverò tutti, ma ci fece promettere di nascondere quei ricordi
nella cantina della memoria. Alle volte, io la osservavo con la coda
dell’occhio, per sapere se mi biasimava, ma col tempo dimenticò o non volle
ricordare la mia avventura col cannocchiale e io adesso sospiro con sollievo
ricordando le prime paure e gelosie.
I vicini del villaggio si riunivano durante la
settimana ad ascoltare nella bottega i pettegolezzi sul nipote Federico che,
secondo alcuni aveva mangiato il gallo da combattimento in un boccone. In quei
pomeriggi si ascoltavano le comparse folcloristiche e i gruppi di spettatori
che mescolavano bisbigli proibiti con canti e odori, riempiendo la mia fertile
immaginazione di ricordi pittoreschi.
Anche se sono passati gli anni, continuo a
sentire la gigantesca campana della cappella della fattoria che rintoccava a
qualunque ora del giorno o della notte, quando scendeva violenta l’acqua nuova
dalle Ande, avvisando così di aprire le saracinesche e inondare i campi di
vigne e cotone, assetati. Allora, correvamo in camicia da notte respirando il
vapore dell’umidità che si alzava dalla terra calda. Quell’odore che si sente
ancora in mezzo alle dune, quando piove qualche rara volta, ed è motivo di
festeggiamenti.
Non dimentico neanche le passeggiate a cavallo,
lungo le vigne caricate di pesanti grappoli d’uva annoiata di tanto sole che,
mordendoli, lasciavano sgorgare il succo tiepido e dolce. Oppure quando
raccoglievamo il cotone in ceste di canna per riempire le bambole di stoffa.
Come dimenticare il cugino Federico che diventò un galletto molto combattivo!
Invece, quel gallo svanito non apparve mai più nella fattoria, ma forse si
rigenerò sulle rive del mare, anche se Federico, ancora oggi, quando parla
molto in fretta, si lascia sfuggire un quasi impercettibile canto del gallo.
A fianco dei brutti ricordi, non posso però
dimenticare che da quando passò dalla fattoria in mezzo alle dune la famosa
Berenice, l’orto diventò un delizioso giardino e i campi dei paradisi fertili.
Le piante sono diventate insensibili agli insetti e, poi, si autofertilizzano,
producendo raccolti vari e sani, e mantenendo le coltivazioni pulite e senza
contaminazioni. L’informazione genetica delle piante che si coltivano in questa
zona è classificata e protetta per non propagare la crescita di erbe e cespugli
nocivi, e almeno fino a ora, non si sono prodotti cambiamenti nella resistenza
degli insetti che divorano le piante, piuttosto stanno scomparendo con gran
soddisfazione di tutti i contadini.
Anche se sono aumentati i raccolti, le terre
intorno continuano a essere dune incolte e lande desolate, deserti come steppe
sterili. La nonna, invece, conserva la speranza di trasformare il deserto in
terre coltivabili, se tornasse un giorno la bluastra rigata col suo
biogeneratore. Anch’io aspetto il suo ritorno, per investigare quei misteri
nati fra il mezzogiorno, lo spuntare dell’alba e il canto del gallo.
Intanto, il tavolo della nonna è sempre pronto
e, in questo angolo del mondo, un piatto aspetta sempre il forestiero.