lunedì 2 settembre 2013

IL MUTANTE di Fabio Calabrese

                        
Sceso dal taxi, mi guardai attorno. Dio, mi chiesi mentre l'autista ingranava la marcia allontanandosi a precipizio, ma dove diavolo sono capitato e cosa ci faccio qui, quando potrei starmene comodo in albergo?
L'ambiente che mi circondava pareva la quintessenza dello squallore: baracche sgangherate tirate su alla bell'e meglio che erano sicuramente costruzioni abusive, a meno che non fossero antichi pollai, e le cui facciate erano un mosaico di assi malconnesse e lamiere rugginose di bidoni di benzina, vecchie roulotte issate su trespoli di mattoni corrosi, marcite e coperte di muffa, e dappertutto immondizie di ogni genere, arrugginiti pezzi di ricambio, mota che si accumulava nelle fessure dell'arcaico acciottolato, mucchi di cartoni e di teli di plastica che forse erano il rifugio notturno di qualche senzatetto, ed il forte sentore stagnante che gravava su tutto, di orina vecchia e di putredine. Quasi non riuscivo a capacitarmi che alla periferia delle nostre città, città grandi, belle, ordinate, luminose, concepite con una disposizione razionale degli spazi, esistessero luoghi del genere, non solo ma che si stessero moltiplicando in ogni parte del mondo ad accogliere schiere sempre più numerose di diseredati: borgate, bidonville, baraccopoli, favelas.
In realtà sapevo benissimo cosa facessi lì, anche se lo squallore del luogo era tale da farmi quasi respingere l'idea: sapevo bene, con un'esperienza che derivava da lunghe frequentazioni nei miei viaggi di affari, che era soprattutto nei quartieri malfamati che si potevano trovare con facilità sesso ed esperienze erotiche particolari a buon mercato nei luoghi dove la gente perbene non ha il coraggio di recarsi a tarda sera.
Personalmente, non mi preoccupava molto l'eventualità di correre qualche rischio; anche quello faceva parte, per così dire, del fascino della situazione. D'altronde ero preparato a far fronte ad eventuali brutti incontri: avevo un fisico perfettamente in forma ed allenato per la mia età, facevo molta palestra ed avevo imparato un po' di arti marziali; ero tranquillo per quanto riguardava la mia capacità di autodifesa, tranquillità aumentata da una pistola nella tasca del cappotto. L'aspetto che aveva allora il sottoscritto, Mike Harmond, executive della finanza, sapevo per esperienza, era di una disinvolta eleganza che faceva colpo sulle donne ma poteva suggerire qualche brutta idea a qualche malintenzionato. Bene, costui, se il caso si fosse presentato, avrebbe trovato pane per i suoi denti.
Mi guardai intorno: la zona mi era stata segnalata come una di quelle dov'era facile trovare sesso e perversioni a buon mercato, ma in giro non si vedeva nessuno, mi sembrava di trovarmi in un deserto putrido e fatiscente, un gigantesco immondezzaio. Ebbi un brivido di freddo mentre uno sbuffo di aria umida e gelida mi arrivava fin dentro le ossa. Per tutto il giorno era piovuta un'acquerugiola stizzosa che verso sera si era trasformata in nevischio, ma ora vedevo che stava cominciando ad attaccare, ed una patina di cristalli biancastri si depositava sul selciato e sui cartoni abbandonati, sulle grondaie delle baracche, sul verdastro muffoso che il molti punti aveva smangiato e sostituito il bianco cromato delle decrepite roulotte.
Mossi qualche passo più che altro per scaldarmi, non che avessi una meta precisa, ma percorsi pochi metri in quel labirinto di baracche, mi accorsi di avere del tutto smarrito l'orientamento.
Corsi con la mano nella tasca del cappotto per prendere il telefonino e chiamare un taxi che mi riportasse in albergo, sarebbe bastato digitare un numero, una breve chiamata e sarei stato presto al caldo e al sicuro, ma fui preso dalla riluttanza a porre fine a quel modo alla mia avventura. Forse - pensai - inoltrandomi ancora un poco in quel dedalo di baracche fatiscenti, avrei potuto trovare una donna, una prostituta, magari una mutante dall'anatomia insolita con cui fare giochini strani.
Rimisi il telefonino al suo posto e m'inoltrai ancora di qualche passo a caccia dell'imprevisto.
Dopo un po' di tempo che camminavo, mi sentivo completamente intirizzito, i soli esseri umani che avevo incontrato, o meglio che mi parve di aver intravisto, erano un paio di mendicanti di cui era possibile distinguere la forma rannicchiata sotto cumuli di cartoni e teli plasticati per ripararsi alla bell'e meglio dal freddo; non osai avvicinarmi a nessuno di loro per chiedere indicazioni.
Ad un tratto, non so come, i miei passi si fecero più sicuri, a ciascuno dei molti bivi formati dal caotico agglomerato di baracche, in maniera istintiva e irriflessa svoltavo senza esitazione, e più proseguivo più forte e netta era la sensazione di avere una meta, anche se non riuscivo ad immaginare che genere di meta. Man mano che procedevo, mi accorgevo di accelerare il passo, spinto da un senso di urgenza dapprima vago, poi sempre più marcato, mi resi conto che stavo agendo come se rispondessi ad un inaudibile richiamo.
L'agglomerato di baracche prese a diradarsi, ora mi trovavo nei pressi di un ampio slargo, una vasta area di terreno asfaltato che sembrava aver fatto parte di un tratto di raccordo autostradale caduto in disuso, era probabilmente una parte della vecchia circonvallazione della città che l'ampliarsi del tessuto urbano aveva poi spinto ad abbandonare a favore del nuovo raccordo più esterno.
Pochi metri più avanti, una balaustrata contorta e rugginosa mi permetteva di capire che mi trovavo sopra un viadotto.
Non vidi tracce d'illuminazione elettrica ed il sole era tramontato da un po', ma ci si vedeva abbastanza bene, anche perché la neve che si andava depositando moltiplicava per un effetto di specchio la poca luminosità residua.
Avevo freddo, ma lo strato di neve che si andava depositando al suolo non era tale da ostacolare i movimenti.
Mi diressi alla balaustra ad uno dei lati del cavalcavia e trovai la scaletta di servizio che consentiva l'accesso alla strada sottostante.
Agivo con una disinvoltura che mi sorprendeva, come se fossi pienamente consapevole di quel che stavo facendo e di dove stavo andando, come se un’altra volontà si fosse sovrapposta o sostituita alla mia.
Lo stradone sottostante non presentava un aspetto migliore di quello che avevo lasciato: anche qua case fatiscenti, baracche, immondizia dappertutto.
Mi inoltrai sotto l’arcata del viadotto.
Lo vidi all’improvviso, la sua figura si stagliava appena distinguibile dalle ombre del muro screpolato e corroso a cui si appoggiava, pareva attendere lì fermo immobile da chissà quanto tempo.
Man mano che mi avvicinavo ed i suoi lineamenti diventavano più nitidi in quel chiarore fioco, mi rendevo conto di star osservando l’uomo più ripugnante che avessi mai visto. In quella luminosità incerta non posso esserne sicuro, ma mi sembrò che la sua pelle corrosa e butterata avesse una sfumatura verdastra; quel che indossava non si poteva chiamare un abito, ma erano piuttosto degli stracci luridi e consunti che parevano coprirlo ben poco, il suo viso era più che altro un’informe massa di carne butterata dove riuscivo solo a distinguere i due occhi grandi, profondi, di un colore intenso, come due pozzi oltre il bordo dei quali non ci si poteva affacciare senza provare un senso di vertigine.
Il corpo era deforme: vidi le braccia anormalmente lunghe, scheletriche che pendevano ben oltre l’altezza del bacino, il torace stretto e magro, e sotto di esso un ventre spropositato, enfiato, tondeggiante che dava alla figura dell’uomo l’aspetto di una pera. Mi colpirono le mani dalle dita anormalmente lunghe e contorte, sembravano dei viticci, e il petto dove tra i resti laceri di una camicia sbottonata vi era una grossa piaga ulcerosa dalla quale stillava un liquame purulento.
Non distinsi bene le gambe, ma mi pareva stesse accovacciato sopra una cassa fatta di assi sconnesse e che accanto a lui fosse poggiata una ciotola di quelle che usano i mendicanti.
Riflettei che quell’essere, quell’infelice creatura era con ogni probabilità un mutante, uno dei molti che sapevo essere nati in quella città dopo l’esplosione della vicina centrale termonucleare nel 2046.
Mi avvicinai ancora di un passo, mentre il mio animo era avvinto da uno strano miscuglio di timore e curiosità. Mi sentii come catturato dal suo sguardo, era come se i suoi profondi occhi scuri, quei due pozzi senza fondo, si dilatassero fino ad escludere tutto il resto dell’universo intorno a me. Per un lungo momento, per un istante che si dilatò fino a divenire interminabile, non vidi nulla e non fui consapevole di nulla.
Poi lentamente la vista e la consapevolezza tornarono.
Ora mi trovavo nell’ombra del viadotto e sentivo contro la schiena la parete scabra di cemento scrostato.
Davanti a me c’era Mike Harmond, od almeno il suo corpo, il suo corpo ben fatto ed in buona forma, avvolto nei suoi abiti caldi, con il suo aspetto gradevole ed elegante così apprezzato dalle donne.
Mike Harmond, l’uomo che io ero stato, mi rivolse un’occhiata frettolosa e si allontanò a grandi passi. Vidi che infilava la mano nella capace tasca del caldo cappotto, ne estraeva il telefonino ed iniziava una conversazione sempre senza fermarsi; con ogni probabilità stava chiamando un tassì per farsi portare alla calda ed accogliente camera d’albergo ed alla cena abbondante che avevo prenotato.
Vedendo il mio corpo allontanarsi a quel modo, provai un crescente senso di smarrimento: l’ultimo resto della mia vecchia vita che se ne andava. Fui tentato di richiamarlo indietro, ma cos’altro avrei ottenuto se non la derisione di chi se n’era impossessato?
Ha ripreso a nevicare, fa freddo e gli stracci che ho addosso mi danno ben poco riparo, e la piaga che ho sul petto ha ripreso a farmi male.
Quando lo sconosciuto che si è impadronito del mio corpo è scomparso a bordo di un tassì, ho provato una sensazione di sgomento, di abbandono, l’ultimo brandello della mia vecchia vita che se ne andava.
Per un momento mi sono sentito sopraffatto dall’angoscia e dal panico.
Ma è stato solo un momento, non è il caso di darsi per vinto.
Presto o tardi, passerà qualcuno.

2 commenti:

  1. Racconti come sempre avvincenti e ben scritti quelli di Fabio.

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  2. Di piacevole lettura, scritto bene e interessante.

    Giuseppe Novellino

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