Da
circa mezzora Vic Toraim vagava per le strade di Nork, sul pianeta
Gejal IV, non riuscendo a orientarsi per via della nebbia e del buio
della notte. Per di più la sua conoscenza della città era molto
approssimativa, essendovi stato in precedenza pochissime volte.
Lo
tormentava la voglia di bere e mangiare a sazietà, come ormai non
faceva da tempo. Gli pareva di avere nello stomaco una voragine che
bisognava riempire al più presto.
A
un tratto voci e rumori gli giunsero distintamente agli orecchi.
Finalmente!
pensò, dopo un breve sospiro. Proprio ciò
che cercavo!
Affrettò
l’andatura e giunse davanti a una taverna di infimo ordine, come
attestavano i muri bisunti, l’insegna scrostata, i vetri incrinati
delle finestre e i molti rifiuti ammucchiati accanto alla porta di
ingresso. Da essi emanava un odore pungente, insopportabile.
Vic
Toraim sembrò non badarci. Era un tipo poco esigente e abituato ad
ambienti anche peggiori di quello.
Di
tanto in tanto, stanco di vagabondare per la galassia a bordo della
sua astronave Randar X-125,
atterrava su qualche pianeta o satellite naturale.
Di solito non si fermava per molto: glielo impediva la sua attività
di mercenario, che svolgeva a favore di chiunque, umano o alieno,
fosse disposto a pagarlo profumatamente.
La
permanenza a Nork – nel cui porto spaziale era giunto da poco –
sarebbe durata il tempo di rifornirsi di viveri e carburante, di
riposare per qualche ora o, al massimo, per un giorno intero. Poi
sarebbe di nuovo partito per mondi lontani, a lui noti o
completamente sconosciuti.
Toraim
si avvicinò alla porta della taverna e, proprio sul punto di
aprirla, ebbe un istante di esitazione…
Rivide,
nella sua mente, la Locanda di Kaab, gremita di baldi e valorosi
miliziani.
Seduti
ai tavoli, bevevano birra o liquori assieme a graziose ragazze dai
vestiti sgargianti, dalle forme e dai modi procaci; parlavano di
guerre, di missioni rischiose, dei duri addestramenti militari,
dell'onore di indossare la gloriosa divisa della Forza Uxiale.
A
un tratto si fece silenzio, si abbassarono le luci e sul palcoscenico
apparve lei, la splendida Margiah, con un abito scuro che luccicava
di lustrini, dai lunghi capelli ondulati e rossi come il cielo
infuocato del tramonto, dagli occhi grandi, sereni, di un azzurro
intenso.
Vagò
con lo sguardo sui volti di quanti, innamorati di lei, l'ascoltavano
attenti, rapiti, mentre intonava, con voce suadente, Il Fiore di
Lilit.
Margiah!
All’improvviso
la scena svanì dalla mente di Toraim,
lasciando però nel suo animo un senso profondo di nostalgia.
Il
mercenario emise un sospiro, poi, con forza, serrò le mascelle.
Dov’erano
adesso quei valorosi miliziani che, come lui, avevano spesso
rischiato la vita in battaglia o azioni pericolose?... Dov’era la
splendida Margiah, in quale pianeta, piccolo o grande, della galassia
di Vega?... Su quali volti ora si posava il suo sguardo appassionato,
e quali cuori il suo canto melodioso accarezzava dolcemente?
Toraim scosse la testa, come a
scacciarvi i fantasmi della propria giovinezza. Poi spinse con
decisione la porta della taverna e indugiò un momento sull’uscio,
le mani appoggiate ai battenti di legno.
Il
vociare confuso all’interno si spense di colpo. Quasi tutti gli
astanti, in piedi o seduti, volsero gli occhi verso di lui. Dopo
averlo squadrato da capo a piedi, giudicato persona della risma alla
quale essi stessi appartenevano, tornarono a bere, a parlare, a
molestare le cameriere, che mostravano di sopportare ogni cosa con
infinita pazienza.
La
forte esalazione di vino e birra delle peggiori qualità procurò a
Toraim un lieve capogiro, per
quanto egli fosse un bevitore per nulla disprezzabile.
La
taverna era piena del fumo di una friggitrice, dalla quale emanava un
odore pungente di carne bruciata. Sembrava che la nebbia, che
invadeva le strade di Nork, fosse penetrata nel locale.
Facendosi
largo tra i molti avventori e le cameriere che, senza sosta, andavano
a destra e a sinistra, avanti e indietro, portando vassoi con piatti,
boccali e brocche di vetro o terracotta, il mercenario raggiunse un
tavolo libero, in un angolo poco illuminato.
Desiderava
starsene in pace e non attirare, possibilmente, l’attenzione di
nessuno.
*
* *
La
taverna era un locale piuttosto lungo, dai muri sporchi come
all’esterno, dal soffitto basso e fatto con travi di legno
annerito, da cui pendevano lampade a olio irradianti una tremula luce
giallastra.
Volgendo
solo la testa, il mercenario vagò con lo sguardo all’intorno.
Frasi spezzate, pronunciate con voce alterata dal vino o dalla birra,
gli giunsero chiare agli orecchi.
«Quella
baldracca di Tyra fa la smorfiosa con tutti, ora che Sadlos…»
«Chi,
quel farabutto dalla pelle olivastra?»
«Già!
Proprio lui!»
«Ho
sentito che è stato rinchiuso nel penitenziario di Rakmon.»
«Riuscirà
a fuggire anche da lì, vedrete. È soltanto questione di tempo.»
«Io
spero che vi marcisca, quella canaglia! Anni fa, durante una rissa,
mi colpì alla guancia con il pugnale. Guardate: mi fece un ricamino
niente male!»
«Vorrei
proprio vederlo adesso, costretto a lavorare a furia di frustate.»
«Senza
vino né birra…»
«Né
quella baldracca di Tyra… Eccola là che se la ride, piena di alcol
come una botte.»
«Lasciala
fare, Polk, è vecchia e sdentata. Che si goda la vita, finché è in
tempo!»
Bastò
a Toraim girare la testa in
un’altra direzione, per sentire parole e frasi diverse.
«Il
colonnello Demistrel?... Accidenti! Un tipo in gamba!»
«Un
po’ vecchio, non credi?»
«Vecchio
senz’altro ma in gamba!»
«Ci
puoi scommettere, Dawal. Io lo conosco.»
«Tu
conosci Demistrel?»
«Ho
combattuto ai suoi ordini nella battaglia di Rasmor. Ero fuciliere.»
«Si
starebbe tranquilli su questo pianeta se quei maledetti hilderiani…»
«Tu
pensi che quei rinnegati possano rappresentare una seria minaccia per
il nostro mondo?»
«Lascia
perdere quei maledetti, Klom. Bevi. Non pensare ad altro.»
«A
tutto penserà Demistrel.»
«È
in gamba, vi dico. Il miglior ufficiale che abbia conosciuto in vita
mia.»
*
* *
Una
cameriera si avvicinò a Toraim
e rimase un istante a osservarlo. Era giovane e molto graziosa, i
capelli ramati e lunghi fino alle spalle, gli occhi azzurri, il seno
racchiuso in un’attillata camicetta color malva.
«Che
bevete?» domandò con un vago sorriso sulle labbra, probabilmente lo
stesso che rivolgeva a chiunque per apparire cordiale.
«Che
cosa mi consigliate?» rispose il mercenario, senza entusiasmo.
«Solo
vino e birra serviamo qui dentro. Siete fortunato: non dovete
scervellarvi troppo per scegliere ciò che preferite.» Sorrise di
nuovo, forse per farsi perdonare la lieve impertinenza. «Volete che
vi porti della birra?» aggiunse, subito dopo. «Viene direttamente
da Alghéar. È speciale, sapete? Ed è anche molto robusta.
Parecchi, al primo boccale, finiscono stesi sul pavimento… Oh, non
dovete vergognarvi se capiterà anche a voi!»
Questa
volta, più che sorridere, ella rise apertamente, mostrando una fila
di denti smaglianti e perfetti.
«Tanto
per cominciare portatemi pure un boccale di birra, ma che sia
veramente robusta come dite,» fece Toraim
strizzando l’occhio.
«Lo
sentirete voi stesso, non dubitate,» esclamò la ragazza sorridendo
ancora.
Ancheggiando,
si diresse in fondo al locale.
Il
mercenario volse di nuovo lo sguardo nella taverna e ascoltò, ma
senza interesse, altre parole, altre frasi, pronunciate da quanti gli
sedevano intorno.
Non
chiedeva di meglio che riposare, ristorarsi, senza pensare a niente,
specialmente ai tanti problemi che lo tormentavano da un pezzo, come
anche all’urgenza di procurarsi continuamente denaro per vivere.
Dopo
alcuni momenti tornò la cameriera. Depose sul tavolo un boccale e un
bicchiere e fece per andarsene.
«Versate!»
lui la fermò con voce decisa.
La
ragazza rimase a guardarlo, poi, lentamente, scosse la testa.
«Non
è compito mio,» esclamò. «Le mani le avete. Potete versarla voi
stesso.»
Toraim
non rispose. Fissò la cameriera con occhi di ghiaccio, dai quali
emanava una forza magnetica irresistibile. Non gli fu necessario
pronunciare altre parole per farle cambiare atteggiamento.
«Siete
proprio un bel tipo, sapete?» lei disse prendendo il boccale dal
tavolo. Versò la birra nel bicchiere. Appena lo ebbe riempito,
glielo porse. «Da dove venite? Non mi pare di avervi mai visto prima
di adesso. Ricorderei una faccia anche a distanza di anni. Ho una
buona memoria.»
«Non
vorreste bere con me?» domandò il mercenario eludendo le sue
osservazioni.
«Bere
con voi?» si stupì la ragazza. Per un istante volse la testa in
fondo al locale, quindi tornò a osservare lo straniero. Gli sorrise.
«Berrei volentieri con voi, dal momento che siete simpatico, ma…»
Si interruppe e, con un cenno del capo: «Vedete laggiù quel brutto
grassone pelato? Quello in grembiule che frigge la carne dietro il
bancone?... Si chiama Erog. È il proprietario di questa taverna.
Dovreste chiedere a lui se posso sedermi al vostro tavolo e bere con
voi. Senza il suo permesso…»
«Vi
prego!» la interruppe Toraim,
risolutamente. «Bevete un goccio di birra.» E spinse il bicchiere
sul tavolo verso di lei. «Per conto mio mi servirò dal boccale.»
La
ragazza lo guardò di nuovo con una espressione sbalordita.
«Siete
sordo per caso?» disse alla fine. «Di certo non conoscete quel
porco di Erog! È
capace di uccidermi!…Ucciderà anche voi. Statene certo.»
«Per
un bicchiere di birra? Credo che al vostro padrone manchi del tutto
il senso delle proporzioni… Sedete, vi prego!... Non bevo da anni
con una ragazza graziosa come voi. Mi dareste una gioia immensa, più
di quanto possiate immaginare.»
La
cameriera, lusingata da quelle parole, non poté fare a meno di
sorridere. Ciò nonostante esitò. Ancora una volta ella volse lo
sguardo in fondo al locale, e rimase a guardare più a lungo il
grasso taverniere. Anche da quella distanza poteva vederne il viso
arrossato e bagnato di sudore, l’espressione
perennemente cattiva nei suoi occhi.
«Sono
sicura che accadrà qualcosa di spiacevole,» disse tornando a
fissare lo straniero. «Ma in fondo, alle risse sono abituata. Una in
più, una in meno… Non sembrate il tipo che abbia paura di Erog.
Dovreste averne, invece. Quando si arrabbia è una belva furiosa.»
«State
tranquilla. Non ci saranno problemi di alcun genere.»
«Lo
spero davvero!» disse la cameriera e ingollò un sorso di birra.
Sul
momento sembrò che la forte bevanda non avesse causato il minimo
effetto. Ma subito dopo, ella fece una smorfia di disgusto e tossì
con violenza.
«Mi
dispiace!» disse Toraim
crollando la testa. «Ho l’impressione che la birra non sia di
vostro gradimento. Vi ho costretta…»
«Oh,
non datevi pena! Non è colpa vostra.» Tossì ancora. «In ogni
caso, siete stato gentile a invitarmi.»
Si
cacciò due dita tra i seni e trasse una piccola fiala di colore
arancione. Tolse il tappo e versò poche gocce nel bicchiere che
spinse sul tavolo verso lo straniero.
«Omaggio
della casa!» esclamò la ragazza. «Per ricambiare la vostra
cortesia.»
«Ambrosya?»
«Pura
al cento per cento.»
Il
mercenario fischiò debolmente.
«Roba
che scotta!» disse.
«Già!»
lei annuì. «Ho sempre una grande paura che me la trovino addosso.
Le autorità sono poco indulgenti con chi fa uso di droga. Qui a
Nork, per una piccola dose possono darti fino a sei anni di prigione.
Per una quantità giudicata considerevole si rischia l’ergastolo;
addirittura la vita, se si è recidivi.» Scosse la testa gravemente.
«A mio parere, i magistrati sono troppo severi.»
«Non
avete pensato sia meglio farne a meno? Una bella ragazza come voi non
dovrebbe rischiare così tanto. Sarebbe un peccato se…»
«Cosa
volete che vi dica?... Per niente al mondo mi priverei di un po’ di
ambrosya. Mi basta ingerirne un paio di gocce per sentirmi subito
un’altra persona, come se…» Si interruppe. Emise un sospiro.
«Con le parole non sono capace di spiegarvelo, ma penso che voi…»
«Conosco
perfettamente il suo effetto,» rispose Vic Toraim
e, preso il bicchiere, lo scolò d’un fiato.
Fu
come ingoiare del fuoco liquido.
Alla
sensazione di intenso bruciore seguì, immediatamente, un’altra di
potenza inaudita. Sentì i muscoli del petto e delle braccia
contrarsi autonomamente, e una grande energia sprigionarsi da tutte
le fibre del suo corpo. In quel momento avrebbe affrontato, senza
timore, una decina di avversari, sicuro di batterli.
«Come
vi sentite?» chiese la ragazza, lo sguardo fisso negli occhi
dell’uomo.
Lui
rispose con un’altra domanda, altrettanto precisa:
«Fate
uso di droga per difendervi da Erog?»
La
ragazza esitò un momento, prima di rispondere.
«Lo
avete capito!» Annuì. «Ma quel bastardo ne assume più di
qualsiasi altro. Ne è pieno in ogni momento della giornata, anche
adesso. Lo sanno tutti e tutti lo temono per questo, perfino i
gendarmi, che molto di rado mettono piede qui dentro.» Tacque un
momento per asciugarsi con la mano il sudore sulla fronte. «Fa uso
di droga per sedare le risse che scoppiano frequentemente nel locale,
per strapazzare per bene quelli che non pagano il conto o urlano o
danno fastidio alle inservienti… ma anche per fare i suoi sporchi
comodi, quella carogna.»
Vic
Toraim rimase a osservare gli occhi della
ragazza. Erano meravigliosi e brillavano come due puri lapislazzuli.
«Non
mi sembra che abbiate molta simpatia per il vostro padrone,» disse
alla fine.
«È
un porco, ve l’ho
detto! Si prende con noi certe libertà che non dovrebbe.»
«Con
voi cameriere, intendete?»
Lei
annuì, in silenzio.
«Non
fate nulla per ribellarvi?» chiese il mercenario.
«Ci
scaccerebbe. E trovare un altro lavoro in questa città non è
facile.»
Vic
Toraim scosse la testa.
«E
così preferite che il vostro padrone…» Si interruppe, non volendo
apparire scortese. Aggiunse: «In ogni caso, se posso darvi un
consiglio, cercate di non abusare di ambrosya. Anzi, fareste bene…»
«Senza
di essa non riuscirei a svolgere questo lavoro nemmeno per un’ora.
Tutte noi inservienti, qui dentro, ne facciamo uso.» Per un attimo
volse lo sguardo intorno. «Avete visto quanti clienti? È sempre
così, in ogni momento della giornata. C’è molto da fare
continuamente. Un po’ di ambrosya è quel che ci vuole per…»
La
voce, roca e profonda, giunse improvvisamente.
«Lurida
scansafatiche, credi che i clienti siano disposti ad aspettare i tuoi
comodi?»
La
ragazza volse la testa e incontrò il viso di Erog, la cui
espressione non differiva da quella di un feroce mastino.
«Vedo
che te la spassi, piccola sgualdrina!» ringhiò il taverniere. «Alza
il sedere da lì, se non vuoi che ti frusti a dovere. Torna
immediatamente fra i tavoli.»
Toraim
guardò biecamente il grassone che, immobile, le mani sui fianchi,
schiumava di rabbia. Notò che era un uomo massiccio, tarchiato,
sulla cinquantina, con spalle e braccia robuste, ma con una pancia
flaccida, enorme. Aveva la fronte e le guance imperlate di sudore.
Del
suo aspetto colpì il mercenario un piccolo tatuaggio
sull’avambraccio sinistro, raffigurante due lettere rosse dentro un
quadrato azzurro: una f e una u maiuscole.
Era
quello il simbolo della Forza Uxiale, di stanza sul pianeta Voskel,
nel settore X32-KL della galassia di Vega.
Significava
in sostanza che quell’individuo era stato, un tempo, un miliziano
della Grande Alleanza Interplanetaria, un uomo in cui, durante il
periodo d’addestramento, erano stati inculcati alti ideali e
valori: libertà, giustizia, onore, spirito di abnegazione.
Osservandolo,
Toraim stentò a credere di
avere di fronte un ex miliziano, praticamente un suo commilitone,
benché non lo avesse mai visto né incontrato in vita sua.
Mentre
la ragazza si alzava dalla sedia, il mercenario fece sentire la sua
voce, calma e possente.
«Restate
dove siete. Non vi ho detto di andarvene. Se lo faceste, sarebbe un
atto di scortesia nei miei confronti.»
Lei
lo guardò, le mani poggiate sul piano del tavolo e una espressione
basita sul viso. Lentamente volse la testa verso il taverniere. Non
sapeva come comportarsi, ma capiva che, tra breve, sarebbe successo
il finimondo.
«Allora,
ti decidi ad alzarti e servire i clienti?» sbraitò il padrone.
«Ha
già deciso!» fece Toraim
con pieno controllo dei suoi nervi. «Tornate senza voltarvi al
vostro bancone. Eviterete un sacco di guai.»
Il
taverniere fissò lungamente il viso dell’uomo che si era permesso
di parlargli in quel modo. Dopo avere serrato le mascelle, gonfiò il
petto stringendo i pugni con forza, le braccia distese lungo i
fianchi.
«E
voi chi diavolo siete?» ringhiò alla fine. «Bevete tranquillo la
birra e impicciatevi dei fatti vostri.»
«È
proprio quello che faccio, se ancora non l’avete capito. La ragazza
è con me, è mia ospite. E non voglio che voi la trattiate
sgarbatamente. Né ora, né mai!... Ve lo ripeto: tornate in fondo al
locale a occuparvi dei vostri clienti. Ve lo consiglio per il vostro
bene.»
Intorno
al tavolo, all’improvviso, si era fatto il vuoto.
Molti
avventori erano in piedi e distanti di alcuni passi, non volendo
essere coinvolti nella rissa imminente. Qualcuno, addirittura,
cominciò a incitarla.
«Che
cosa aspetti, Erog, a dargli una lezione? Fagli vedere chi sei.»
«Soltanto
con noi sei capace di usare i tuoi modi gentili?»
disse un altro. «Accarezza anche il suo viso con quelle tue luride
manacce.»
«Non
avrai per caso paura?» fece un terzo. «Credo che l'ambrosya abbia
del tutto rammollito, oltre al cervello, anche i tuoi muscoli.»
«Dài,
Erog, saltagli addosso, maledetto bastardo!»
«Su,
forza, forza!»
«Muoviti,
brutto grassone!»
«Avanti!»
Spinto
da quelle parole, il taverniere si slanciò, sbuffando come una
belva, contro Toraim. Questi,
che si aspettava quell’attacco, gli affibbiò con il piede una
tremenda pestata all’addome, che lasciò il povero Erog senza
fiato, piegato in due, la saliva che gli colava agli angoli della
bocca. Il mercenario si alzò lentamente dalla sedia e, con un pugno
ben assestato alla punta del mento, spedì all’indietro il
taverniere che, cadendo su un tavolo, lo fracassò con il peso del
corpo, assieme a bicchieri, piatti e boccali.
«Alzati!»
lo incitò un avventore piuttosto deluso dalla rapida fine dello
scontro. «Che aspetti a dargli una lezione?»
«Avanti!
Avanti!» disse un altro.
«Tirati
su, bestione!»
Ma
Erog non rispose, né si mosse, immerso com’era nel mondo dei
sogni.
Due
colpi soltanto lo avevano messo fuori combattimento: due colpi che,
sicuramente, egli avrebbe ricordato per un pezzo.
Gli
occhi di tutti si volsero allora a scrutare il viso dello straniero,
dal quale non traspariva alcuna emozione, tranne una espressione di
imperscrutabile durezza.
Videro
l’uomo avvicinarsi alla ragazza, che poco prima sedeva al suo
tavolo, e farle una a carezza sulla guancia.
«Fatemi
un fischio,» lo sentirono dire, «se quel bestione al risveglio vi
darà fastidio.» Poi, volgendo lo sguardo verso Erog: «Credo,
purtroppo, che la voglia di fare il prepotente non gli passerà
facilmente! »
La
ragazza sorrise allo straniero e rimase a guardarlo mentre, a piccoli
passi, usciva dal locale.
*
* *
Appena
il mercenario fu all’aperto, si avviò lentamente lungo la strada.
Ma dopo pochi metri si fermò, si volse e stette a fissare, con occhi
assorti, la porta della taverna.
Vide
di nuovo…
…alcuni
baldi e valorosi miliziani seduti ai tavoli nella Locanda di Kaab.
Ridevano rumorosamente alterati dall'alcool, dalle luci, dalla viva
allegrezza dell'ambiente, insieme con belle ragazze dai capelli
fluenti, dagli occhi chiari e lucenti come rugiada, dalle forme e dai
modi procaci.
A
un tratto si fece silenzio, si abbassarono le luci e sul palcoscenico
apparve lei, la splendida Margiah. L’orchestra mandò le prime note
e lei, con voce suadente, melodiosa, intonò Il Fiore di Lilit.
Tutto
successe all'improvviso.
Il
capitano si alzò dalla sedia visibilmente ubriaco. Le gambe
malferme, avanzò barcollando nel locale, urtando i tavoli e
rovesciando bicchieri e bottiglie.
Prima
che qualcuno capisse le sue intenzioni, salì sul palcoscenico, fu
addosso a Margiah. La strinse voluttuosamente con forza e tentò di
baciarla sul collo, sulla bocca, sulle spalle, mentre lei, gli occhi
sbarrati e urlando dal terrore, cercava disperatamente di liberarsi
dal suo abbraccio.
Qualcosa
scattò in Vic Toraim
come una molla e lo indusse ad alzarsi dal suo tavolo, a correre
verso il palcoscenico.
Furente,
si scagliò sul capitano colpendolo ripetutamente con i pugni. Era
cieco di rabbia. Lo avrebbe di certo ammazzato se alcuni miliziani
non fossero accorsi per separarlo dall’ufficiale, che ormai si
accasciava senza difese, inerte, il volto imbrattato di sangue.
Ancora
stravolto dall'ira e respirando con affanno, Toraim ascoltò le voci
dei propri commilitoni che, intorno a lui, lo incitavano a fuggire
per evitare l’arresto e l’inevitabile condanna a morte, prevista
in caso di aggressione agli ufficiali della Forza Uxiale.
Fu
costretto dunque a scappare, ad abbandonare il suo mondo, i suoi
compagni, a non rivedere la splendida Margiah… a non indossare mai
più la gloriosa divisa della Grande Alleanza Interplanetaria, di cui
era stato sempre orgoglioso e che, in ogni circostanza, aveva saputo
onorare.
Per
guadagnarsi da vivere non gli restò che mettere a frutto le sue
qualità acquisite in anni di militanza nella Forza Uxiale,
offrendosi, dietro compenso, a chiunque avesse bisogno dei suoi
servizi.
Cominciò,
da quel momento, la sua rischiosa carriera da mercenario e il suo
inarrestabile vagabondare per la galassia di Vega.
Vic
Toraim scosse la testa, poi sospirò e riprese a
camminare per le strade di Nork, ancora immerse nella nebbia.