Ogni notte, sentendo mia sorella
Dalina rientrare nel nostro appartamento, mi alzavo dal letto e, camminando in
punta di piedi per non far rumore, percorrevo lo stretto corridoio che dalla
mia stanza portava alla sua. Raggiunta la porta di quest’ultima, aprivo pian
piano uno spiraglio, quel tanto che bastava a cacciare lo sguardo all’interno.
Come sempre restavo in silenzio,
immobile, quasi col fiato sospeso, a spiare Dalina che si svestiva lentamente,
con gesti abituali, in una luce soffusa.
Prima di tutto si toglieva le
scarpe, che riponeva appaiate sotto la sedia ai piedi del letto. Poi si
avvicinava alla parete di destra, si levava il cappello (ne aveva parecchi
nell’armadio; ogni volta che usciva, ne indossava uno diverso). Lo posava, dopo
averlo un po’ spolverato con le dita, sul ripiano di marmo della toilette.
Infine – ed era ciò che attendevo con grande impazienza – si accingeva a
sfilarsi il soprabito.
Fa’ presto!
Fa’ presto! la incitavo col pensiero. Ti prego, Dalina!... Fa’
presto!
Riuscivo a stento a trattenere un
mugugno e un fremito di eccitazione. In nessun modo volevo che lei si
accorgesse che la spiavo da dietro la porta. Sarebbe stato imbarazzante,
soprattutto per me.
Dopo un po’ Dalina si toglieva il
soprabito.
La vista della sua camicetta e
della sua gonna sporche di sangue mi turbava profondamente.
Il mio sguardo subito andava al
volto grazioso di mia sorella. La vedevo osservare le macchie di un rosso intenso che, a tratti, toccava, premendole,
col palmo della mano. In quell’istante pareva che un senso di piacere invadesse
ogni fibra del suo essere, che una vivida luce irradiasse dai suoi occhi.
«Oh!… Oh!… Oh!…» sospirava con
voluttà. «Oh, gioia! Oh, meraviglia! Oh, momenti inebrianti!... Li proverò di
nuovo domani… Domani!... Domani!»
Sembrava godere anche allora, al
ricordo di ciò che aveva vissuto quella notte.
Prima che lei continuasse a
spogliarsi, riaccostavo la porta allo stipite e, in silenzio, con il cuore in
subbuglio, tornavo nella mia stanza, rasentando nel buio le pareti dello
stretto corridoio.
Mi coricavo di nuovo sul letto,
facendo attenzione a non farlo cigolare.
Supino, le braccia incrociate
sotto la nuca, restavo a fissare nel buio il soffitto della mia stanza. Per
molti minuti, prima di cedere al sonno, pregustavo il momento in cui – come Dalina
– mi sarei anch’io aggirato di notte nelle strade della città in cerca
di uomini o donne, per succhiarne avidamente il sangue fino all’ultima goccia,
dopo avere affondato i denti nel loro collo.
Ero ancora un giovane vampiro
piuttosto inesperto: sarebbe dovuto trascorrere qualche decennio prima che
fossi stato capace di procurarmi il sangue da solo. Potevo aspettare. Non c’era
fretta. Di tempo ne avevo abbastanza: praticamente era inestinguibile.
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