giovedì 22 maggio 2014

CAFFÈ di Paolo Secondini




   Mentre sedeva da solo a un tavolino del bar, si materializzò, sul bordo della tazzina di caffè che stringeva fra le dita, l’oggetto del suo desiderio.
«Oh!» esclamò. «Caspita!»
Aveva intensamente pensato a Guendalina, soprattutto ai suoi baci soavi, vellutati, per i quali, spesso, andava in visibilio.
Ed ecco, come per incanto, apparire, sul bordo della tazzina, le labbra rosse e carnose di lei.
Strinse forte le palpebre, scrollò la testa, ma le labbra erano lì, sensuali, invitanti.
Volse rapidamente lo sguardo intorno, sperando che nessun altro, nel locale, avesse visto ciò che di certo era un prodigio.
A un tratto le labbra si schiusero, si mossero, dissero:
«Baciami! Baciami!»
E lui, dopo avere ancora guardato a destra e a sinistra, fece finta di bere l’ultimo goccio di caffè.

mercoledì 21 maggio 2014

AGENZIA MATRIMONIALE SHIDEJ di Sergio Gaut vel Hartman



«Prego, si abbandoni al godimento. Massimo piacere a letto e fuori.»
«E per quale motivo dovrei volere una foto di Nelson Mandela? È morto un secolo fa.»
«Non è Mandela.»
«No?»
«No. È un Vorterix di Goltren, simbiotico di grado due, trifalico e coprofago.»
«Lo chiedo ugualmente: perché mai dovrei volerlo?»
«Non cerca forse un marito? Non è venuta qui per averne uno? Questo è disponibile, e le vostre caratteristiche combaciano alla perfezione.»
«Almeno è maschio?»
«Approssimativamente, sì. Rammenti che è trifalico.»
«Approssimativamente?... Quale parte è quasi maschile?»
«Shidej, signorina, è una agenzia matrimoniale seria. Soddisfazione garantita in modo assoluto. Sia umano o extraterrestre, lo cambiamo tutte le volte che è necessario e, in caso estremo, le restituiremo il denaro.»
«Mi lasci vedere di nuovo l'immagine.» La donna osservò l'effigie per qualche minuto; poi guardò il titolare dell'agenzia. «Sa cucinare?» domandò alla fine.
«Da dio. Sa preparare raffinati manicaretti di mille mondi.»
«Dove devo firmare?»
 (Traduzione dallo spagnolo di Paolo Secondini)

lunedì 19 maggio 2014

SCANSIONE di Paolo Durando



Il colpo partì.
E quello fu l'inizio. Qualcosa che era in attesa da sempre si era rivelato, dandomi la possibilità di organizzarmi.
Solo un infimo istante, ma che aveva conosciuto una somma dilatazione  e  si era  dispiegato in valli e prati di secondi. Tutto era andato sgranandosi, in inauditi dettagli.
In quella parentesi di silenzio e sospensione radicali, avevo avuto modo di raccogliermi, per essere pronta a lasciare la presa. A fare, in un certo senso,  le valige, rassettare precipitosamente la mia stanza, riporre gli oggetti, eliminare la polvere, ma senza nasconderla sotto il tappeto. La tentazione era, del resto, forte. Furono fatte grandi pulizie dappertutto, fu cambiata l'aria, fu predisposta ogni molecola, ogni atomo. Era stata una prassi del vuoto, che fotografava me stessa in immagini che mi avrebbero replicata per l'eternità. Un avvallamento di tempo in cui avevo lavorato per superare la soglia. Ma questa, certamente, restava di là a venire. In quella parentesi che nessuno, nella vita ordinaria, avrebbe potuto percepire, io ricamai il mio congedo. Mi riferisco a ciò che riguardava il mio corpo, i miei organi. Ebbi la facoltà di distaccarmene affettivamente. Finché anche quella frazione di secondo finì,  dopo una teoria di svuotamenti.
A quel punto fui cosciente di cadere. Non avevo alcuna forza nelle gambe, che non sentivo affatto. Non provavo dolore, ma appena abbozzai questa consapevolezza, esso arrivò lancinante. E restai prigioniera di un altro tempo breve, ma stavolta talmente intenso da non poter essere posseduto. Il pieno del male assoluto.
Si può solo immaginare il portento di una pallottola nel petto, il suo incastrarsi nei tessuti vivi, la lacerazione della carne nell'affondo. Se la sofferenza aveva caratterizzato  il parto, quando mia figlia faceva le veci di quella pallottola in un percorso inverso, non era però stata altrettanto violenta. Allora espellevo il dolore, mentre stavolta lo accoglievo.  Ero una totalità in un punto. Una singolarità dalla quale, quasi avessi dovuto rivoltarmi come un guanto,  ero  stata  risucchiata. Avevo avuto la precisa sensazione di essere attratta nel mio petto, fino a caderci dentro, per rovesciarmi in un altrove che non mi era dato ancora discernere. Era stato come se facessi una disperata capriola dentro di me, per uscire dall'altra parte. Nel momento stesso in cui avevo la vaga fantasia di attraversare un cannocchiale, mi pareva di restringermi, raggrumarmi.
Inghiottita da me stessa, appallottolandomi in una porzione infinitesima pronta per essere espulsa, cambiava ancora la mia  percezione del tempo, che di nuovo conosceva la lentezza, la possibilità di indugiare sui particolari. Era un tempo di cui era possibile fare la scansione. Non per questo scorreva più lentamente, ero semplicemente io a cambiare. I secondi erano sempre secondi, ma per me erano piazze da attraversare in tutta tranquillità. Potevo contemplare, vivisezionare la grana del tempo. Era sempre un prima. Il dopo era del tutto celato, forse inesistente. Non mi ponevo più il problema della sopravvivenza dell'anima. Una volta di più mi fu chiaro che, se la sopravvivenza non ci fosse stata, non l'avrei saputo,  quindi il problema non si poneva neppure. Incistata nella vasta estensione di maglia temporale, potevo solo raccapezzarmi nell'assenso, senza potere né volere né guardare oltre. In fondo c'era la singolarità che mi stava tuttora divorando. Ma potevo rendermene conto, riflettere, soppesare.
Avvertivo un ricordo liquido delle mie membra, la traccia di qualcosa di sporco, maleodorante che mi vincolava nella sua finzione,  tutto ciò che mi aveva costretta, di materiale o anche immateriale, durante l'esistenza. E proprio la mia parte non animale  arrivava alla coscienza, verità spuria, venata di  complicità immonde. Nello stesso, tempo, però, ero distaccata, perché quella schifezza non mi riguardava più. Me ne stavo sgravando intanto che la contemplavo nella sua entropia.
Era la dispersione lenta delle mie asperità. Una sorta di forza centrifuga agiva in quello che divenivo, così che mi sentivo gonfiare e dilatare, nel momento stesso in cui mi alleggerivo.
Fu così che vidi il vialetto che portava alla casa di S. Sentivo anche perché lo stavo vedendo, nella calma e nel silenzio di un avamposto. Ero su una piazzuola di sosta nel cosmo e vedevo la casa di lui, dell'unico che mi aveva avuto. Casa, home, sito, locazione, bara. Tutto questo era quel vialetto e la porta liberty d'ingresso.
Respirando l'aria del primo autunno, sentii che quella che inalavo altro non ero che io, l'offerta al mondo in cui consistevo. Il mio contributo al suo rinnovo. Poca cosa. Null'altro che una scheggia, eppure, se fosse venuta meno, sarebbe stato un riflesso perduto. Non ero preziosa, ma ero sola. Poi,  da quella porta inalata, da quel sentiero assorbito, essenza gustosa e programmatica della mia esistenza, usciva l'uomo. Il desiderio è un processo di radicale individualizzazione. Era lì, su quel corpo che si concentravano le mie particelle, ronzandovi attorno. Il mio desiderio  costituiva un tappeto di falene. Ma, nel momento stesso in cui conseguivo il vialetto, prima di accedere alla verità di me stessa, fui scagliata via come un corpo estraneo.
Inarrestabile, il mio passato confluì come un ritorno di marea. In un'inondazione maldestra, tutto il mio materiale, cattiveria, gioia, superbia, invidia, fu toccato ma non del tutto, travolto ma in parte. Ciò che restava dopo il ritiro di quell'onda, era solo parzialmente intaccato, ma di sicuro cambiato più o meno in profondità. Vidi i sentimenti, le emozioni, le secche del mio animo, le piene e le risorse comporsi in un'architettura sfilacciata, enorme e fragile. Una scultura espansa che veniva meno ad ogni istante. C'erano angoli, anfratti, buchi nelle forme e, nonostante tutto,  era facile entravi  e poi fuggirne. 
Capii quanto la mia storia mi avesse lentamente ma inflessibilmente plasmata. Di anno in anno, fino all'ultimo giorno, fino al colpo mortale, mi ero instancabilmente edificata. Non avrei potuto  dire se ero migliorata, se mi ero  evoluta o se, al contrario, ero andata incontro ad una stratificazione di adattamenti. Compromessi a me così consustanziali, ormai, piccoli o grandi che fossero, da non avvertirli neppure più come tali.  Adeguamenti progressivi della vita alla vita. Lì, indubbiamente, ci si raffina. Si incidono progressivamente i solchi delle azioni e reazioni più opportune, dopo li si replica senza troppa fatica, anche se forse erano i più innaturali per noi. 
Ci facciamo fascinosamente, indefettibilmente persuasi. Allora si muore persuasi? Non lo saprei dire. Forse questa morte  inaspettata non mi trovava persuasa nella misura in cui non avevo avuto modo di sottostare a me, ai miei limiti, al mio degrado. Quel colpo che mi uccideva mi salvava da un'esperienza completa. Amputata della quarta dimensione, ero  un fiore reciso prima dello sboccio. Il rigoglio dei petali, il loro colore sono  potenziali. Ero rimasta potenziale. E accasciandomi a terra, analizzando il tempo che mi rimaneva, frazione di secondo dopo frazione di secondo, mi vedevo recisa e non potevo fare nulla se non vagamente rimpiangere le idee che mi ero fatta su come sarei stata. Rimpiangevo le idee, non la mia realtà, perché quella era stata interrotta e non si poteva  piangere su ciò che non era stato.
Raggiunsi così  la terra.  Avvertii allora lo squarciarsi di una membrana tesa. Uno scoppio,  definitiva coincidenza con la mia fine. Era la mia ora e la forza di cui avevo appena sentito la durezza definiva il confine. E improvvisamente, ritrovandomi oltre, si rivelava l' inganno.  Giungeva il momento in cui mi accorgevo della bugia che raccontavo a me stessa, avvertendo la botta, l'impatto osceno. La bugia delle cause e degli effetti, per mascherare la mancanza di visione. Non c'era nessuna barriera. In realtà avrei dovuto intuire subito che si trattava di questo. Che, per quanto impervia, esiste un'unica strada per la conoscenza.  Si doveva capire. Un attimo e la barriera non è più tale. Basta un lieve sollevamento della testa, uno sguardo fuori dal limite di allora. Basta un sussulto e siamo salvi. O forse no, perché altri sono rimasti indietro. Dentro il tempo, fuori dall'esperienza ultima della consapevolezza,  intenti a misure e ricapitolazioni, ancora fermi a quel colpo di pistola.

sabato 17 maggio 2014

SKYMASTER di Fabio Calabrese



Era sera, una tiepida sera estiva, una lieve brezza spirava dal mare sfiorando delicatamente le cime degli alberi. Dalla finestra di un villino a due piani che sorgeva non lontano dalle acque del Potomac che scorrevano nere e tranquille nell’oscurità incombente, un uomo guardava il cielo con apprensione. L’uomo non portava nessuna divisa, ma era uno dei principali responsabili dei servizi di sicurezza del Corpo Spaziale degli Stati Uniti d’America. Il villino sembrava una delle tante abitazioni di benestanti che affollavano le colline intorno a Washington, ma era il quartier generale dell’operazione Skymaster.
L’uomo fissava lo sguardo in direzione del cielo senza nuvole dove splendevano le stelle, fissava un dischetto brillante, simile ad una piccola luna piena o ad una stella troppo grande o troppo vicina che fosse scesa quasi a lambire le acque là dove il fiume incontrava i flutti salmastri dell’oceano.
Quella strana stella era stata realizzata dall’uomo, era lo Skymaster, ed era la chiave di volta della pace e della politica mondiale.
"Ancora una settimana", pensò il generale Henry Bolton. "Che tutto vada bene ancora per una settimana!"
Si ritrasse dalla finestra e richiuse le imposte.
"Stai calmo, Henry", disse il generale Sam Perini. "Ti vedo nervoso. Rilassati, sta andando tutto a meraviglia".
"La fai facile tu", rispose Bolton. "Per noi è essenziale che allo Skymaster non succeda nulla, e per i sovietici sarebbe un grosso colpo riuscire a distruggerlo".
"Un grosso colpo? Ci lascerebbero in mutande", osservò Perini in tono ilare. "Lo Skymaster è tutte le nostre difese, ma non può accadere nulla e non succederà nulla, le nostre precauzioni sono perfette".
"Vorrei esserne sicuro al mille per mille", rispose Bolton. "Ti dispiace se riesaminiamo ancora una volta tutto quanto?"
"Ok, per me va bene, se può servire a farti stare tranquillo".
Skymaster, un nome ambizioso, ma lo Skymaster era veramente il padrone del cielo. Negli ultimi decenni del XX secolo le nazioni industrializzate della Terra si erano trovate ad affrontare un periodo di crisi. Le risorse energetiche del pianeta erano limitate, e dovevano essere razionate nella difficile era della transizione fra l’epoca dei combustibili fossili e quella della fusione nucleare e dello sfruttamento su larga scala dell’energia solare; intanto il confronto fra le superpotenze continuava a risucchiare quantità sempre più considerevoli di risorse nel pozzo senza fondo dell’escalation militare. L’Unione Sovietica e i paesi dell’Est avevano accettato una sempre più drastica riduzione del tenore di vita delle loro popolazioni, pur di non perdere terreno nel braccio di ferro con l’Occidente, ma per gli Stati Uniti e l’Europa occidentale una simile soluzione, che poteva essere solo imposta con la forza, non poteva semplicemente funzionare.
Gli stati occidentali avevano deciso di dare un taglio di risorse all’emorragia rappresentata dalla crescente escalation nucleare, rinunciando alla possibilità di sferrare il primo colpo, ma garantendosi contemporaneamente da un attacco dall’Est: la risposta era stata lo Skymaster, una poderosa stazione spaziale orbitante molte miglia al disopra della superficie terrestre, in grado di intercettare e distruggere in poche decine di secondi qualunque missile lanciato da un qualsiasi punto del globo, ed a scatenare la più terrificante delle rappresaglie con i suoi missili puntati sulle principali città dell’Unione Sovietica e dell’Est europeo.
* * *
Lo Skymaster aveva per la propria difesa un vasto parco di missili tattici, mine orbitali, cannoni laser, armi antimissile ed antisatellite, e un generatore di potenti campi magnetici in grado di disperdere I flussi delle armi a particelle.
Lo Skymaster era inviolabile ad un attacco diretto, ma aveva un tallone d’Achille: ogni due anni la stazione era posta in un’orbita bassa, geostazionaria, per una ventina di giorni, per essere sottoposta ai controlli e alle revisioni che l’usura dei materiali rendeva necessari, e proprio in quel momento, da una dozzina di giorni, orbitava, simile ad una piccola luna, sopra le acque dell’oceano Atlantico.
Sam Perini premette alcuni tasti sulla consolle del computer. Sullo schermo apparve un modello dello Skymaster che non era poi molto diverso dall’immagine che si sarebbe potuta vedere in quel momento dalla Terra con un telescopio abbastanza potente: l’immagine era di forma sferica e ruotava lentamente su se stessa per mostrare l’intera struttura. Due vistose protuberanze ai poli alloggiavano gli impianti radar, mentre lungo l’equatore era visibile una serie di depressioni a struttura ovoidale, dove si trovavano i pontili di attracco e le camere stagne che permettevano alle shuttle ed ai loro equipaggi di accedere all’interno della stazione. I tubi di lancio dei missili ed i cannoni laser che armavano il satellite erano nascosti dalle scudature termiche che lo proteggevano dal contatto con gli strati più alti dell’atmosfera.
A lato dell’immagine scorreva sul video una serie di dati: altezza, velocità orbitale, velocità di rotazione, eccetera.
"Anche adesso", disse Perini, "lo Skymaster è perfettamente operativo e non è vulnerabile ad un attacco diretto. Se i nostri amici dell’Est decidessero di attaccare adesso, l’unica differenza è che, dato che lo Skymaster si trova in un’orbita bassa e geostazionaria, passerebbe qualche minuto prima di intercettare tutti i missili, forse un paio di essi riuscirebbero a passare prima che il nostro bravo soldatino riduca tutte le città più importanti da Varsavia a Vladivostok in crateri radioattivi e deserti quanto la luna. Il gioco non vale la candela, noi lo sappiamo e lo sanno anche loro. Non è verosimile che scelgano questa via, è piuttosto il sabotaggio da cui dobbiamo stare in guardia. Il punto è questo: io mi sono sforzato di pensare proprio come farebbero quei signori del blocco comunista. Come fai a sabotare qualcosa che ti passa a migliaia di metri sopra la testa, che è completamente automatizzato e che ti spara addosso una gragnola di missili e di fasci di radiazioni laser se ti avvicini? L’unico anello debole della catena sono proprio le shuttle che ogni giorno in questi giorni, una sola volta nella giornata, portano allo Skymaster gli uomini addetti ai controlli e alle riparazioni. Se io fossi al posto dei sovietici, tenterei proprio di impadronirmi di una shuttle".
"Fai finta che io non sappia nulla di nulla", disse Bolton. "Spiegami cosa succederebbe in questo caso, è il modo migliore per scoprire se nelle nostre difese ci sono punti deboli".
"Bene", rispose Perini. "Tralasciamo allora il fatto che penetrare con la forza in una delle nostre basi non è certo una cosa agevole, e che un velivolo che non provenisse da una di esse sarebbe subito identificato dallo Skymaster come nemico e quindi distrutto, immaginiamo per ipotesi che agenti nemici siano a bordo di una nostra shuttle. Ho istituito un sistema di controllo che è una specie di variante un tantino più raffinata tecnicamente del vecchio sistema ‘alto là, parola d’ordine!’. Quando la shuttle si avvicina a distanza di sicurezza, lo Skymaster emette un segnale radio a cui la shuttle deve rispondere entro trenta secondi, se non lo fa o da la risposta sbagliata, la navetta viene distrutta. La comunicazione avviene a modulazione di frequenza e a bassa potenza. Il segnale non può quindi essere intercettato né dalla Terra né da altri satelliti orbitali. Inoltre la "domanda" e la "risposta" sono variate ogni giorno secondo un codice preciso. Il codice di risposta non è inserito nel computer di bordo della shuttle, il computer può soltanto modulare la scansione del codice di risposta sulla base delle istruzioni ricevute dal capo missione, dopo aver ricevuto l’"altolà" dello Skymaster. Solo il comandante di ciascuna singola missione conosce il codice di risposta, diverso per ognuno".
"Fammi capire una cosa", disse Bolton. "Se il nemico potesse impadronirsi di una shuttle e se potesse intercettare i segnali per un periodo di tempo abbastanza lungo, diciamo dieci o quindici giorni, potrebbe decifrare il codice matematico che regola l’intera sequenza, e sarebbe così in grado di dare la risposta appropriata al momento giusto; in questo caso, cosa succederebbe?"
"In questo caso, potrebbe penetrare nello Skymaster, potrebbe decidere di distruggerlo oppure di puntare i nostri missili contro di noi. In ogni caso, la libertà degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale sarebbe finita, avremmo perso prima ancora di cominciare la partita, saremmo senza difese contro l’arsenale nucleare sovietico; ma sta tranquillo, se anche potessero impadronirsi di una shuttle e riuscissero ad intercettare i segnali, non sarebbero mai in grado di decifrare il nostro codice".
"Non vedo perché", disse Bolton, "dispongono di computer buoni quanto i nostri e di programmatori abili quanto i nostri".
Perini ebbe un sorriso furbesco, quella sua faccia da italiano incorniciata dai capelli neri e lisci, con quei suoi lineamenti angolosi, in quel momento era proprio tale e quale a certe vecchie illustrazioni della volpe del Pinocchio di Collodi.
"Diciamo che ho preferito prendere un’ulteriore piccola precauzione, una specie di trappola mentale".
"Non potresti essere più preciso?"
"Preferisco di no. A ogni modo, fatti animo, che gli orientali riescano ad impadronirsi di una shuttle od anche solo ad intercettare i segnali tra lo Skymaster e le shuttle, sono eventualità talmente remote che non vale la pena di prenderle in considerazione".
"Vorrei esserne sicuro, Sam", disse Bolton. "Questa mattina ho parlato con Washington, e là stanno con il fiato sospeso. I nostri rapporti con i sovietici sono molto più tesi di due anni fa, e in confronto ad adesso, quattro anni fa erano addirittura idilliaci. Sono ridotti male, e sono proprio nelle condizioni di tentare un colpo di testa, hanno sbagliato strada e lo sanno, In Unione Sovietica non sono mai esistite una ricerca scientifica ed una sperimentazione tecnologica che non fossero immediatamente subordinate all’applicazione militare, e questo in passato ha conferito loro un certo vantaggio nei tempi brevi, ma la stressa potenza militare dipende dallo sviluppo tecnologico globale di una società. Sono rimasti indietro in molti rami dell’elettronica e nello sfruttamento delle energie rinnovabili, noi abbiamo Skymaster e loro no, non possono fare altro che ammucchiare testate nei loro silos ed invitare i milioni di Ivan a stringere ogni volta un poco di più la cinghia, sono disperati, e i disperati sono pericolosi".
Se i due ufficiali avessero potuto vedere il piccolo oggetto che ruotava nel cielo alcune miglia esattamente al di sopra del polo nord dello Skymaster, Perini sarebbe rimasto scosso nel suo ottimismo, e Bolton avrebbe trovato le sue apprensioni cupamente confermate.
Tchkort teneva bene fede al suo nome, era davvero un piccolo demonio maligno che già da alcuni mesi si muoveva incollato tenacemente all’orbita dello Skymaster, era un piccolo gioiello di miniaturizzazione, quanto di meglio la tecnologia sovietica potesse realizzare. Tchkort era poco più grande di un pallone da football; i sovietici l’avevano messo in orbita alcuni mesi prima assieme ad un satellite meteorologico che ne costituiva la copertura. Il suo solo compito, che stava eseguendo fedelmente, era quello di attaccarsi a Skymaster come una remora ed intercettarne le comunicazioni radio. Le sue dimensioni rendevano praticamente impossibile l’intercettazione radar, ma anche se fosse stato individuato, l’avrebbero preso per un meteorite, un frammento di asteroide, un rottame di uno dei tanti satelliti artificiali che da quarant’anni venivano scagliati nel cielo, un pezzetto della spazzatura celeste.
La casa era molto meno elegante e molto meno pretenziosa del villino a due piani sulla riva del Potomac, era una fattoria isolata e dall’aria un po’ malconcia che si trovava né troppo lontano né troppo vicino alla base spaziale militare di Mount Vermont da cui partivano le navette che andavano a rifornire il gigante librato nel cielo, ma aveva almeno due cose in comune con la palazzina di Washington: la consolle di un computer ed un apparecchio per comunicazioni radio dotato di sofisticate schermature anti – intercettazione. Aveva ancora un’altra cosa in comune, i suoi abitanti svolgevano una professione molto diversa da quella che credevano i vicini.
Il colonnello Botvinnik era di umore particolarmente allegro quella mattina. Botvinnik era un uomo nato con un talento matematico, ma sapeva bene che nel suo Paese l’insegnamento e la ricerca pura offrivano ben poche possibilità di carriera. Era entrato nel KGB dove aveva messo la sua abilità a frutto nella decrittazione di codici e cifrari, ma non gli dispiaceva ogni tanto nemmeno un po’ di azione diretta, in realtà la sua lealtà sovietica era soprattutto una questione di convenienza; si era divertito moltissimo nei mesi di addestramento in cui a lui e ai suoi uomini era stato insegnato a parlare, a vestire, a muoversi, a mangiare come americani, gli piaceva vivere negli Stati Uniti e non sentiva alcuna nostalgia per i girasoli dell’Ucraina o per la neve e gli squallidi sobborghi di Mosca. Sperava che in futuro gli dessero altre missioni negli USA, ma se questa andava bene, sarebbe stato facile ottenerne.
"Il nostro Tchkort, il nostro piccolo diavolo sta lavorando a meraviglia", disse allegro al suo secondo, il maggiore Arbatov, "Vuoi sentire la voce di Skymaster?"
Armeggiò con la consolle del computer e ne uscì una serie di bip che sembravano dotati di una struttura armonica, come un motivo musicale.
"Questa", disse, "naturalmente questa è la traduzione sonora degli impulsi radio. Questo è il segnale che Skymaster ha emesso il primo giorno: un bip di quindici secondi, una pausa di cinque secondi, un bip di cinque secondi, un’altra pausa di cinque, un bip di dieci; il secondo giorno un segnale di quindici secondi, una pausa di quindici, un bip di dieci. Il terzo giorno la sequenza è stata dieci, cinque, dieci, cinque, dieci; il quarto giorno dieci, cinque, cinque, dieci, dieci; il quinto dieci, dieci, cinque, cinque, dieci. Dal sesto giorno in poi, i segnali si ripetono nello stesso ordine. Questa è la sfinge che pone le domande, dopo vediamo le risposte di Edipo. Cosa pensi che significhi?"
"Mah…numeri in codice binario, direi".
"Esatto, è abbastanza ovvio, non può essere altro. Se noi consideriamo che un bip di cinque secondi valga uno ed una pausa di cinque secondi valga zero e togliamo dieci secondi di bip all’inizio e alla fine di ogni segnale, considerando che valgono come "inizio messaggio" e "fine messaggio", la nostra sfinge ha chiesto ad Edipo "dieci" il primo giorno, "otto" il secondo, "sei" il terzo, "quattro" il quarto, "due" il quinto giorno, poi di nuovo "dieci" il sesto giorno e così via".
Il maggiore Arbatov guardò il suo superiore con aria speranzosa.
"Allora dovrebbe essere piuttosto facile", disse.
"Beh no, gli yankee sono dei tontoloni ma non fino a questo punto, le risposte degli shuttle non seguono affatto la stessa periodicità".
Premette un’altra serie di tasti sulla consolle, ed il computer emise un’altra sequenza di bip.
"Il primo giorno lo shuttle ha risposto dieci – dieci – venti, insomma per farla breve, tre, il secondo cinque, il terzo giorno ancora tre, il quarto giorno quattro, il quinto tre, il sesto giorno di nuovo tre ma a questo punto la sequenza delle domande è ricominciata daccapo, il settimo giorno la risposta è quattro, poi tre, poi ancora sei. Dal decimo al quindicesimo giorno di operazioni, qualunque sia la domanda dello Skymaster, la risposta è sempre quattro, tranne al tredicesimo che è cinque. Al sedicesimo giorno, cioè l’altro ieri, le cose cambiano ancora, e le risposte della shuttle sono cinque e ieri quattro. Cosa te ne pare?”
Arbatov era perplesso.
"Francamente non lo so", disse. "Mi sembra quasi che i comandanti delle shuttle giochino a carte o a morra con il computer dello Skymaster".
Il colonnello Botvinnik sorrise.
"Potrebbe essere un’ipotesi buona come qualsiasi altra, se non fosse per il fatto che allora l’abbinamento delle due serie di numeri sarebbe del tutto casuale. Ho passato più volte la sequenza al computer senza ottenere grandi risultati: si tratta con tutta probabilità di una funzione complessa, come ad esempio una tabella di distribuzione dei numeri primi, allora ho provato ad affrontare le cose in maniera diversa. Gli Yankee sono intelligenti, ma hanno il torto di fidarsi più degli uomini che delle macchine".
"E questo è sbagliato?", chiese Arbatov.
“Certo che lo è. Gli uomini si ingannano, si stancano, sono confusi, si distraggono, sono corruttibili e ricattabili, esitano, hanno stupidi moralismi; le macchine no.Da quello che sappiamo, il computer delle shuttle è programmato per modulare il numero voluto in modo tale che il segnale abbia quella lunghezza esatta di secondi che permette allo Skymaster di riconoscerlo e di individuare la navicella come apparecchio amico, ma non conosce il numero della risposta, quello lo sa solo il comandante della shuttle. Bene, non si può pretendere che tutti i comandanti delle navette siano dei matematici, quindi il nostro codice può essere una funzione complessa, ma deve essere stata scelta in modo da essere scomponibile in una serie di sottofunzioni semplici, addirittura banali.  Guarda bene, fino a sei giorni fa, le shuttle hanno risposto quattro per quattro volte consecutive e lo Skymaster ha accettato la risposta. L’altro ieri lo Skymaster ha chiamato dieci e la shuttle ha risposto cinque, ieri otto e quattro. Tra un’ora circa c’è il prossimo rendez vous e lo Skymaster chiamerà sei. Stiamo a sentire quello che ci dirà il nostro caro piccolo Tchkort, e se la shuttle risponderà tre, vuol dire che domani le battute del dialogo saranno quattro e due, solo che questa volta a bordo della shuttle ci sarete tu e i tuoi ragazzi. Quando lo Skymaster vi avrà fatti passare, basterà regolare anche solo una testata nucleare sull’autodistruzione, poi ve la filerete tranquilli con la shuttle in direzione Bajkonur, mentre lo Skymaster diventerà il più bel fuoco d’artificio che si sia mai visto, lasceremo gli Stati Uniti con le mutande abbassate, verranno da noi a piangere perché non gli bombardiamo la loro amata capitale o quelle dei loro alleati da quattro soldi".
Arbatov era perplesso.
"Certamente, compagno colonnello, ma scusami se azzardo un’osservazione, la parte del tuo piano che concerne la cattura della shuttle mi sembra si fidi un po’ troppo della fortuna".
Botvinnik rise.
"Non fortuna, mio caro: psicologia, calcolo, tempismo. Sai perché ho deciso di agire proprio domani che è il penultimo giorno di permanenza dello Skymaster in un’orbita bassa, geostazionaria? Per avere più tempo di studiare lo scambio di segnali fra lo Skymaster e le navette, certo, evitando proprio l’ultimo giorno, altrimenti qualche intoppo imprevisto potrebbe mandarci fuori tempo massimo, ma anche per un’altra ragione. Gli Yankee sanno bene quanto lo Skymaster sia importante per loro, i primi giorni saranno stati tesi e all’erta, poi poco per volta si saranno rilassati, l’operazione diventa routine, ma dopodomani sarebbero di nuovo all’erta come grilli, non avrebbero nessuna voglia di bruciare tutto proprio all’ultimo, quando tutto è andato bene, hanno macchine potenti come lo Skymaster, ma non si rendono conto di quanto è facile giocare sulle debolezze umane dei deboli uomini che le controllano. Un cavallo di Troia per entrare nel cavallo di Troia, domattina tu ed i tuoi ragazzi vi impadronirete del pulmino che porta l’equipaggio della shuttle da Mount Vermont alla zona di lancio. C’è un controllo elettronico all’accesso all’area di lancio, ma quello che il computer controlla sono solo i tesserini plastificati, che saranno quelli buoni che avrete tolto al vero equipaggio della shuttle, chi dovrebbe controllare la rispondenza delle vostre facce con quelle delle foto stampate sui tesserini, sono i soldati di guardia. Voi avrete i lineamenti alterati con la paraffina ed a controllarvi, alle sei del mattino, saranno dei ragazzi annoiati e assonnati. Se state calmi, gliela farete elegantemente sotto il naso. Te l’ho detto, gli Yankee si fidano troppo degli uomini".
Cinquanta minuti più tardi, Botvinnik, Arbatov e i cinque ragazzi che componevano il resto della sua squadra erano in attesa dei segnali provenienti da Tchkort.
L’altolà dello Skymaster era, come previsto, un sei. Seguì il segnale della shuttle: un bip di dieci secondi seguito da quello di venti, non c’era neppure bisogno della traduzione del computer, era un tre chiarissimo, di solare evidenza.
"E’ fatta, ragazzi", disse Botvinnik, "Domani siamo in azione".
"Roger!", gridò uno dei ragazzi della squadra, "Roger!"
Arbatov gli diede un’occhiataccia: "Tu sei rimasto troppo a lungo negli Stati Uniti!"
Botvinnik aveva tolto da uno stipetto una bottiglia di liquore e sette bicchierini e li stava passando in giro, era raggiante.
"Ragazzi", disse, "domani il sogno americano si trasformerà in un brutto risveglio. Coraggio, un bel brindisi! E’ bourbon wisky, ho l’impressione che fra non molto non ce ne sarà tanta di questa roba in giro, anche qui si troverà solo wodka.
"Ehi, non viene con noi, capo?", domandò uno degli uomini.
"Purtroppo no, ragazzo mio, ho un po’ di roba da distruggere qui, poi ci penserà la nostra ambasciata a farmi rimpatriare per via diplomatica".
* * *
Erano le cinque e trenta del mattino, il pulmino con le insegne del Corpo Spaziale stava percorrendo il breve tratto di strada, una decina di miglia, da Mount Vermont alla base di lancio. L’autista aveva preso due caffè per tirarsi su, aveva tatto tardi la sera prima con una certa biondina. Beh! Per due settimane era stato ligio ed era andato a letto presto come un monaco, ma ci sono dei limiti a quello che si può chiedere a un poveraccio, e poi i suoi superiori erano gente che vedeva agenti del KGB anche sotto il letto. Anche se fosse successo qualcosa al pulmino, come potevano sperare di farla franca entrando nella base? Non credeva ad una possibilità del genere, e, per sua disgrazia, non ci credevano molto nemmeno i suoi superiori.
Quella era una strada pubblica, e chiuderla al traffico civile in quel tratto, avrebbe significato bloccare la circolazione della zona per le tre settimane dell’operazione Skymaster solo per far andare avanti e indietro il pulmino due volte al giorno. Fu per questo che l’autista non ebbe sospetti quando, proprio al momento di passare sotto il cavalcavia, vide un uomo con il volto ed i vestiti insanguinati buttato di sghembo sulla strada davanti a lui, la vittima di qualche incidente stradale, con ogni probabilità.
Frenò, apri la portiera del veicolo e scese. Si avvicinò al ferito, ma quando era arrivato ad un passo dall’uomo, quello si alzò in piedi di scatto e gli vibrò un poderoso colpo di karate alla carotide. Contemporaneamente, da un cespuglio al lato della strada, fu lanciato qualcosa attraverso la portiera aperta del veicolo, qualcosa che era una bomba a gas narcotico.
Il finto ferito si precipitò a chiudere la portiera.
I cinque astronauti della shuttle erano in trappola come pesci in una boccia di vetro. I finestrini del veicolo erano saldati e infrangibili, una precauzione che ora tornava a favore degli aggressori; più che agitarsi per alcuni minuti prima di crollare sul fondo del pulmino o sui sedili, altro non poterono fare.
Arbatov ed i suoi uomini si misero al lavoro rapidi ed efficienti; imbavagliarono e legarono per bene gli astronauti privi di sensi dopo aver tolto loro le divise. Dimitri, che era stato truccatore dell’Opera di Leningrado, rifece loro le facce. L’unica seccatura per Arbatov era di non essere il più somigliante al comandante della shuttle, doveva rassegnarsi per il momento ad una posizione di subalterno.
Dopo che i corpi degli uomini narcotizzati furono nascosti nei cespugli ai lati della strada, il pulmino si rimise in moto. Arbatov guardò l’orologio: erano le cinque e quaranta, orario perfetto. La strada era deserta, nessuno li aveva visti.
Con pochi minuti di ritardo sull’orario abituale, il pulmino era davanti ai cancelli della base. Arbatov sentiva le ginocchia che gli tremavano mentre fissava i volti inespressivi dei militi della M. P. che lo guardavano mentre inseriva il tesserino plastificato nell’apposito lettore del terminale del computer, e si aspettava a ogni istante di ricevere una raffica di mitra in mezzo agli occhi. Se almeno gli yankee non avessero avuto quella schifosa abitudine di ruminare continuamente chewing gum! Ma non accadeva nulla. Botvinnik aveva dunque ragione, quel sistema teoricamente impenetrabile poteva essere violato con tanta facilità?
Il computer della base diede il segnale di via libera. Arbatov si incollò dietro a Dimitrevich che impersonava il comandante della shuttle, subito seguito dagli altri. Fortunatamente, il personale della base provvedeva alle sue incombenze e non aveva molta voglia di attaccare discorso.
Gli uomini furono accompagnati a indossare le tute pressurizzate, poi un piccolo veicolo elettrico li portò fin sotto bordo della navetta. Arbatov notò con una certa soddisfazione che la cabina di guida e la consolle dei comandi con il terminale dell’elaboratore di bordo, erano esattamente identiche a quelle del simulatore su cui lui ed i suoi uomini si erano addestrati in Unione Sovietica. Chissà come, il KGB riusciva sempre a procurarsi le informazioni estte fin nei dettagli più minuti.
Un’ora circa di preparativi, un’altra di count down, poi alle 8.02, il lancio.Mentre la mano gigantesca dell’acceleratore lo schiacciava contro l’alcova imbottita, Michail Arbatov aveva quasi voglia di mettersi a urlare: fino a pochi secondi prima non aveva creduto che fosse veramente possibile rubare una shuttle, eppure lui ed i suoi ragazzi l’avevano appena fatto!
"Chissà cosa starà facendo Botvinnik in questo momento!", disse uno dei ragazzi allegro.
L’euforia si era sostituita alla tensione, mancavano pochi minuti al rendez vous con lo Skymaster che era già inquadrato dal radar della navetta.
"Porca miseria, è davvero grosso!", disse qualcuno osservando l’immagine che ingrandiva sullo schermo del radar.
La navetta era ormai giunta quasi alla fine del suo silenzioso volo senza attrito. Lo Skymaster attendeva, simile a una piccola luna.
Nella cabina di comando risuonò la voce del ciclope, era un quattro come previsto.
Le dita di Arbatov corsero sui tasti della consolle del computer di bordo, ordinandogli di modulare due in risposta.
Non vi furono altri segnali, ma sulla superficie dello Skymaster un portello scivolò di lato, portando un missile tattico in posizione di sparo.
Una frazione di secondo più tardi vi fu un lampo abbagliante, un’esplosione silenziosa, poi la shuttle, Arbatov e i suoi compagni cominciarono a dilatarsi per l’universo sotto forma di una nube di atomi vaganti.
* * *
Il colonnello del KGB Konstantin Botvinnik stava vivendo momenti di estrema inquietudine, da ventiquattro ore stava attendendo notizie sull’esito della missione del maggiore Arbatov. Era chiaro che gli Stati Uniti non avevano interesse a diffondere la notizia: anche se l’attacco fosse fallito, avrebbe dimostrato che lo Skymaster era vulnerabile; nemmeno l’Unione Sovietica aveva interesse a rendere nota la cosa se Arbatov e il suo commando avessero fallito, ma se le cose fossero andate per il verso giusto, a Mosca non avrebbero dovuto porre tempo in mezzo per informare la stampa estera su chi erano i nuovi padroni del mondo, e se Botvinnik conosceva bene la stampa occidentale, la notizia sarebbe stata presto strombazzata ai quattro angoli del globo. Di conseguenza, quel silenzio sulla stampa ed i notiziari radio e televisivi, che gli sembrava diventasse sempre più pesante, quasi tangibile di ora in ora, poteva significare solo che qualcosa era andato storto.
In caso di insuccesso, gli era stato detto di non aspettarsi nessun aiuto da parte dell’ambasciata sovietica di Washington. Non poteva fare altro che aspettare e distruggere documenti...
Una rapida successione di colpi e la porta venne sfondata di prepotenza, cinque o sei giovanotti entrarono di corsa nella stanza e si precipitarono su Botvinnik immobilizzandolo. Non gli gridarono nessuna intimazione, non portavano uniformi né distintivi, ma Botvinnik sapeva benissimo chi erano quei giovani vestiti di scuro e dai capelli tagliati corti, agenti della FBI. Ruppe la capsula di cianuro che portava in un dente finto.
Il generale Henry Bolton era di ottimo umore, addirittura raggiante.
"I ragazzi della FBI stanno facendo un lavoro splendido", disse allegro, "hanno preso l’uomo che guidava il pulmino rubato e sono risaliti alla base dell’operazione, dove hanno catturato quel Botvinnik che si è suicidato, ora stanno mettendo le mani su di una buona metà della rete spionistica sovietica qui da noi. Sembra che il defunto Botvinnik fosse nientemeno che un colonnello del KGB, per i sovietici quest’operazione per distruggere o impadronirsi dello Skymaster non era certo poco importante".
Sam Perini annuì tranquillo.
"E invece non sono riusciti ad ottenere altro che un ritardo di ventiquattro ore, e adesso lo Skymaster è di nuovo al sicuro in orbita alta".
"Mi meraviglio di come hai avuto ragione. Forse li abbiamo sottovalutati i sovietici, sono riusciti a rubare una shuttle e sono riusciti ad intercettare i segnali dello Skymaster, ma non a interpretare il tuo codice, anche se credevano di averlo fatto".
Sam Perini sorrise.
"So già dove vuoi andare a parare, vuoi che ti sveli il mio piccolo asso nella manica. Loro non potevano decifrare il mio codice per la buona ragione che non è un vero codice matematico. Lo Skymaster chiamava i numeri dieci, otto, sei, quattro, due e le shuttle dovevano rispondere un numero corrispondente al numero di lettere del numero chiamato nelle quattro principali lingue dell’Alleanza occidentale, inglese i primi cinque giorni, poi francese, tedesco e italiano.
Ora, che two in inglese sia di tre lettere e deux in francese sia di quattro, è un puro e semplice caso. Il linguaggio verbale, con tutta la sua casualità e ambiguità, è un linguaggio umano, il linguaggio matematico è più adatto alle macchine. I sovietici non sarebbero riusciti a penetrare una cosa apparentemente così banale perché commettono lo sbaglio di fidarsi più delle macchine che degli uomini".
"Adesso abbiamo due anni per pensare a qualcos’altro", disse Bolton, "Sempre che i sovietici non decidano nel frattempo di scendere a più miti consigli, il che è probabile, visto come si sono messe le cose. Ma tu non me la racconti ancora del tutto giusta. Potevi prevedere che se i tovarich avessero deciso di agire, l’avrebbero fatto gli ultimi giorni per avere più tempo di studiarsi il codice. Ora, guarda caso, l’ultima parte del codice era in italiano, e tu sei italiano e per quanto ne so, conosci la lingua dei tuoi nonni altrettanto bene che l’inglese".
"Esatto, vecchio mio. In italiano dieci, otto e sei sono rispettivamente di cinque, quattro e tre lettere, cioè esattamente la metà del loro valore numerico. Chi cercava una relazione matematica, poteva credere di averla trovata, ma quando lo Skymaster ha chiesto quattro, i compagni avrebbero dovuto rispondere sette e non due. Un altro italiano l’avrebbe capito facilmente, tu potevi forse arrivarci, ma i sovietici, che non hanno nessuna familiarità con la lingua italiana, non potevano farcela in nessun modo".
"Hanno telefonato da Washington", disse Perini. "Tira fuori la divisa migliore e lustrati le medaglie. La segreteria privata del presidente. Alla Casa Bianca danno un party questa sera per festeggiare il successo dell’operazione Skymaster".
"Non so se verrò", rispose Bolton:
"Perché?", chiese Perini, "Hai forse qualcosa in contrario al caviale, le belle donne e lo champagne?"
"Il punto è proprio questo", rispose Bolton ridendo, "Lo champagne. Non voglio champagne, ma spumante italiano. Dopo quanto è successo, mi sembra il minimo che l’Italia, che ha inventato quella lingua meravigliosa, si meriti".
"Va bene", rispose Perini. "Vedremo di farglielo sapere, ma ricordati che l’hai detto tu, non io".

giovedì 15 maggio 2014

IL RE DELLE FORMICHE di Paolo Secondini e Peppe Murro



Narrano i miti storie impossibili e orrende che covano nel fondo dell’animo umano e, come tutti i miti, celano in equilibrio il caos primordiale della menzogna e della verità. Questa è una di quelle.

«Cosa c’è, figlio mio?» domandò Egina al giovane Eaco. «È un po’ di tempo che ti vedo triste, immusonito. Non mi sembra tu viva momenti felici nemmeno con Ersippo, l’amico-automa che tuo padre Zeus ti ha fatto appositamente costruire da Efesto nella sua grande fucina… Insomma, vuoi dirmi che cosa ti addolora?»
Il ragazzo fissò lo sguardo negli occhi azzurri e sereni di sua madre, quasi a coglierne tutta la dolcezza.
«Mi addolora,» rispose, «non avere intorno – a parte te, naturalmente – esseri in carne e ossa, con cui stabilire rapporti di vera amicizia, di amore… Sulla nostra isola, purtroppo, non c’è che il vuoto: paesaggi brulli, solitari, popolati soltanto da formiche… Formiche dappertutto!... Le odio, madre, le odio immensamente!... Invidio Ersippo che non prova per esse alcun sentimento. D’altronde come potrebbe? È un essere fatto di bronzo e vari ingranaggi che ne permettono i movimenti. Mio padre…»
«Tuo padre ti ama, figliolo,» lo prevenne Egina, temendo che Eaco dicesse qualcosa di spiacevole contro il re degli dei.
«Mi ama? Se davvero fosse così mi darebbe sollievo e compagnia… Sono un uomo, madre, che regna su delle formiche; non è nell’ordine delle cose. Solo un dio maldestro o sarcastico troverebbe normale una simile realtà. O un dio che odiasse l’uomo…»
La madre lo guardò e in cuor suo pregò quel dio antico amante come non aveva mai fatto.
Negli anfratti ovattati dell’Olimpo, il re degli dei sentì quello strazio di madre, ne fu colpito e decise di fare qualcosa.
Si parò davanti a Eaco… «Ti darò la compagnia degli uomini che chiedi,» gli disse, «e però, per non aver capito il dono che ti avevo fatto, i tuoi Mirmidoni conserveranno la loro insensibilità di automi e porteranno nel mondo il terrore e la morte che si celano nella tua disperazione.»

Ma il mito nasconde anche una verità dimenticata, come l’abisso dell’orrore che accompagna la vita quotidiana.
Da qualche altra parte si racconta, infatti, che il dio guardò il cuore di quel re desolato e, col sorriso lieve e bonario di ogni dio, trasformò Eaco in una formica.

martedì 13 maggio 2014

ZEUS – DIOS di Giuseppe C. Budetta



  



Spinta da onda anomala, la zattera di Ulisse schizzò in cielo, navigando nell’infinità dell’etere sidereo. L’eroe era abituato alle lunghe traversie, causategli dall’ira di Nettuno. Adesso, era diverso perché era stato catapultato addirittura negl’infiniti spazi interstellari. In cuor suo, l’eroe sapeva che gli dei amici prima o poi, ne avrebbero consentito il ritorno in patria. Dopo un poco, la navigazione divenne placida come sul mare piatto. Si trovava a veleggiare nello spazio uniforme, buio e solitario. Per quanto allungasse lo sguardo non scorgeva promontori, isole, scogli, o amene spiagge. In lontananza, il luccichio di remote stelle. Non c’erano venti avversi, o Arpie selvagge, o il canto traditore delle sirene. Navigava senza limiti di riferimento in un indefinito oceano nero. Spariti per incanto il sole e la luna. Pensò di essere nel regno di Ade. Aveva cibo, acqua e vino donatigli in abbondanza dalla maga Circe.
   Gli venne incontro un grosso meteorite, rischiarato appena da un lontano astro. Ivi attraccò senza indugiare. Confidando negli dei amici, scese dalla zattera e scrutò verso l’alto dov’era un cocuzzolo arrotondato e calvo con sopra una dimora sontuosa, rivestita di marmo bianco. Sembrava il tempio di un dio sconosciuto. Restava da capire se il dio gli fosse amico. Se ci abitava Nettuno era fottuto. Da quando aveva seguito gli Atridi nell’avventura contro Troia, Odisseo aveva sfidato la morte. Non temeva più la sorte. Salì con circospezione per l’ampia scalinata, stringendo la spada rinfoderata al fianco. Il titubante piede calpestò i lucidi marmi dell’atrio di un palazzo antico, o di un sontuoso tempio, sormontato da altissime colonne la cui fine non si vedeva. Tutto sembrava strano. Non si vedeva nessuno nei paraggi. Gli apparve un’aurea e massiccia porta, immensa che si aprì all’istante. Curioso penetrò nell’ampia sala interna, illuminata da lumi luminescenti, ma senza vampa. Ogni angolazione dell’edificio splendente di marmi, ogni altissima colonna dorata, ogni apertura laterale piena di luce, aveva un’anima misteriosa, un vero enigma che accompagnava ogni cosa, come in  una nuova esistenza. Quel grandioso palazzo, pieno di luminescenza, poteva essere già esistito, ma quando? ma dove? Gli venne in mente la reggia di Priamo che i Greci avevano distrutto. Suadente voce gli disse: “Vieni avanti e non temere.”
    Dal lato opposto, ad una certa distanza, apparve una figura smilza come anoressica, barbuta con incolta chioma grigia. Indossava una lunga tunica sacerdotale, grigiastra. Quando gli fu di fronte, il tunicato scompigliato nei capelli, disse:
“Tu sei Ulisse, il re della selvaggia Itaca. Non dire no che non ci credo.”
Ulisse ne fu certo: era un dio. Chi se no? Solo un dio poteva conoscere all’istante uno sconosciuto. Disse riverente e sorridente: “A quale dio che in casa sua mi accoglie, rendo onore?”
 “Ti dirò tutto tosto. Ho piacere che qualcuno di tanto in tanto passi per di qua. Adesso, però togliti quel brutto tanfo di sudore e cambiati. In quella stanza, c’è il bagno con la vasca e l’acqua calda, resinosa. Lavati bene, asciugati ed indossa la tunica che troverai appesa al muro. Torna qui e parleremo con calma, seduti intorno a questo fuoco.”
   Alle spalle del dio c’era un caminetto con una vampa, alimentata da tizzoni ardenti e di lato due lettighe riposanti. Più che il tempio di un dio, sembrava la sala di un re. Ulisse si lavò ed uscì dal bagno ben temprato, tunicato e profumato. Accanto al fuoco bevvero del nettare ed il dio infine così parlò: “O tu che vieni da remote sponde, ascolta le mie parole pronte. Sono relegato qui perché la gente questo vuole e solo questo accetta. Per la cronaca, siamo nell’anno 2013, cioè trenta secoli dopo le tue peripezie…più o meno trenta secoli dopo.”
   Ulisse non conosceva le leggi della relatività quantistica, pensò: “Com’è che sono ancora vivo?”
   Non profferì parola da uomo furbo e attento. Il dio a Ulisse disse:
   “Una volta, mi chiamarono Zeus e come tale anche tu mi conosci.”
  L’eroe d’Itaca tirò un sospiro di sollievo. Non era un camuffamento di Nettuno, o di un mago avverso. Era Zeus che in fondo in fondo gli era amico. Zeus disse: 
“Abitavo il celeste Olimpo, circondato dalle eccelse dee e dei. Ah, quanti banchetti ed orge e feste a più non posso! E quanti figli avevo legittimi e illegittimi. Mi scopavo anche le più belle donne della terra che a me si davano, senza esitazione. I miei figli erano dei, semidei ed eroi. Questa era la religione di quel tempo, la tua religione in fondo. Poi, le cose a poco a poco permutarono. Arrivò il Cristianesimo monoteista e la maggioranza dei popoli scelse questa religione, adesso maggioritaria. Per questo, come vedi, sono solo. Non mi chiamo più Zeus, ma Dio.”
   Ulisse ascoltò e gli saltò impellente una domanda che estrinsecò: “Che differenza c’è?”
   “Te l’ho detto. Secondo la religione corrente esiste un unico dio. Ed io sono unico e solo. Altre figure sono state assimilate agli dei di una volta. Che so: santi, eroine, martiri beati di vario genere. Ma sono incorporee e caste. Non amano e non odiano come gli dei di una volta. Dopo morti passano sotto spirito, persi in etere sidereo, oranti e sempre preoccupati per le umane sorti.”
   “In poche parole una rivoluzione. E’ cambiato l’ordinamento celeste.”
   “Macché. E’ cambiato in apparenza. I risultati sono sempre gli stessi: guerre, omicidi, odi etnici, tentativi di distruzione di massa…e, spesso questo avviene con il paravento della religione. Chi ci è andato di mezzo sono io, costretto a cambiare identità e tenore di esistenza. Come Zeus, me la passavo bene, amando ed odiando a volontà. Per Zeus, non c’erano restrizioni. Adesso Onnipotente, posso solamente amare castamente e l’odio è da me avulso. Anche gli uomini per meritarsi la vita ultraterrena in questo etere sidereo, devono solo amare. Bello eh? Invece, presso l’umanità terrena, i sentimenti d’odio sono prevalenti. Hai capito?”
   Assaporando dal kylix il dolce nettare Ulisse chiese: “Che è giusto fare?”
   Rispose orbene Zeus: “Cosa è giusto fare? Niente. Ah, il libero arbitrio! Prima intervenivo fulminando i miei nemici. Adesso, non posso farci niente. Posso solo agire bene ed indirettamente. Ai sacerdoti di religione cattolica è devoluta la benevolenza minuta. Intercedo presso i santi per migliorare situazioni familiari compromesse, alcuni tipi di devianze, certe avversità, ma devo rispettare il libero arbitrio. Questo stabilisce la nuova religione. Una volta su di me agiva solo l’oscura volontà del Fato. Adesso, devo rispettare la volontà dei popoli monoteisti. Per questo, muto nome: da Zeus a Dios. Hai capito?”
   “Secondo me, era meglio prima. Nonostante le avversità di Poseidone, il mio potere era sancito dagli dei la cui benevolenza mi assicuravo con celesti voti ed are sacrificali.”
Sospirando il tunicato ad Ulisse disse:
   “Adesso, invece sarebbe importante il sentimento di profondo amore: o c’è o non c’è. Se c’è, l’uomo può chiedere l’eternità dopo morto. Se non c’è, muore dannato. Tutto qui.”
   “Capiranno che è una fregatura e torneranno a desiderare i vecchi dei.”
   “Il pericolo è un altro. Eh, caro mio. L’uomo è imprevedibile e tendenzialmente stronzo. Homo sapiens sapiens è una brutta bestia. E’ terribile dentro. Può stabilire per esempio che Dio è morto.”
   “Come?”
   “Eh sì caro mio. Lo ha affermato uno molto tempo fa. Tempo fa rispetto a questo presente e non al tuo che chissà qual è. Un filosofo di nome Nietzsche, uno mezzo pazzo, lo ha detto esplicitamente: Dio è morto. Se prende piede l’ateismo, io sono fottuto. Fottuto sono io se piede prende l’ateismo. Dovrò sparire insieme con le folle dei santi impetranti, delle anime oranti e sacerdotale gerarchia. Tutti via, oplà.”
   Zeus fece uno schiocco secco tra indice e pollice. Uno schiocco secco egli fece ad indicare l’inevitabilità dell’evento. Ulisse incredulo esclamò:
   “Allora è tutto relativo. Non solo il tempo a quanto pare, ma anche religioni ed istituzioni. Non esistono certezze. Immensa onda può sommergere o cambiare tutto improvvisamente.”
      Lo aveva detto Eraclito che all’inizio era il Chaos. Odisseo ora sa: tutto tornerà nel Chaos, la grande voragine. Solo il Chaos è eterno, immutabile, indistruttibile.
   Zeus disse ad Ulisse ancora solo queste cose:
   “Da uomo intelligente lo hai capito. Ricorda: è la scoperta più importante nei tuoi anni di peripezie, ma non voglio tenerti a lungo qui. So che vuoi tornartene alla tua isola. Vuoi rivedere la tua reggia ed i tuoi dei. Ti guiderò nella strada del ritorno e non temere l’ira di Poseidone che placherò. Io come Zeus, placherò gli dei avversi…gli dei avversi dell’epoca in cui vivi.”
   Ulisse salpò con la zattera, diretto verso la Terra, ammarando nello Ionio. Nel breve viaggio tra le pieghe dello Spazio-Tempo, aveva compreso l’infinita vastità del futuro remoto, dove gli dei e la storia umana si allungano senza confini netti. Ammarò nello Ionio felice e dopo poche ore di mare calmo approdò nella sua isola. Ringraziò Zeus ed in cuore si rasserenò.

sabato 10 maggio 2014

ASSALTO ALLA DILIGENZA di Giuseppe Novellino

Kurt Larson e Pierre Lacroix stavano improvvisando.
- Da due ore gli stiamo alle costole – disse il francese. Indossava una giacchetta da città impolverata. In testa una bombetta ormai logora.
- Ho voluto scegliere il posto adatto. Quel canalone laggiù fa al caso nostro – spiegò Kurt, avvolto in un lungo spolverino giallastro. Con una manata si aggiustò il cappellaccio nero con le larghe tese che lo proteggevano dal sole.
I due ultimi esponenti della banda Larson osservavano la diligenza dalla sommità di una collina impervia, fra macchie di arbusti e rocce affioranti. Di lì a poco si sarebbe infilata nella stretta valletta: un gioco da ragazzi fermarla e ripulirla per benino. Tante volte lo avevano fatto, in dieci lunghi anni, laggiù nel Texas. Larson e Lacroix si erano conosciuti in un bordello di New Orleans e da allora erano inseparabili.
- Non ne posso più – fece Jane, sbuffando. -  Mi sta venendo il culo quadrato, ho la bocca impastata di polvere e… non riesco più a stare in quest’abito. – Aveva tolto la cuffietta da viaggio. I capelli a boccoli biondi ondeggiavano graziosamente a causa dell’aria che entrava dai finestrini.
- Coraggio, pupa! A Reno finisce il nostro viaggio – la consolò Fred, un giovanotto prestante in un bel completo di velluto verde ma pieno di polvere. – Questa è proprio l’ultima fatica.
La diligenza procedeva traballando.
- Ho una sete! – disse Jane. – Ne bevo un sorso… - E allungò una mano verso una sacca posata al suo fianco, sul sedile di legno.
- Non te lo consiglio – la dissuase il compagno di viaggio. – Bisogna essere rigorosi, fino alla fine.
- Ma chi mi vede? – protestò la ragazza. – L’uomo se ne sta seduto a cassetta con il conducente.
Fred scosse il capo.
- Boh, forse hai ragione – sospirò lei.
Kurt Larson e Pierre Lacroix aggirarono un costone, poi scesero lungo il valloncello e finirono per appostarsi dietro una curva della pista.
Non scesero da cavallo.
Kurt si tirò indietro il cappellaccio, arrotolò una sigaretta e se la ficcò tra le labbra. Il francese bevve un sorso dalla borraccia dopo avere sputato un bolo di tabacco.
- Quest’ultimo tratto del viaggio è un’autentica tortura – disse Jane. – Fosse almeno previsto un diversivo!
- No – disse Fred, – solo fatica. Devi rassegnarti, carissima. Ma è l’ultima tappa.
La diligenza si arrestò di colpo.
- Cosa cazzo… - imprecò il giovane.
Per poco Jane non gli cadde in braccio.
- Okay, gente! Fine della corsa – sbraitò Kurt Larson. Impugnava una Remington dalla lunga canna.
- Chi diavolo siete? – disse l’uomo seduto a cassetta, accanto al conducente. Sembrava contrariato, più che spaventato. Il compare teneva le briglie e guardava con la bocca spalancata i due banditi a cavallo.
Pierre Lacroix smontò e andò verso lo sportello della diligenza.
- Ehi, che succede? – domandò Jane, la bionda testa fuori dal finestrino.
- Mademoiselle! – esclamò Pierre, sollevando la logora bombetta con affettata galanteria. E sghignazzò.
Poi si affacciò Fred.
- C’è anche il garcon, naturalmente. – Pierre sputò: - Bene, a terra! – E accompagnò l’ordine frustando l’aria con la Colt che teneva in una mano.
Intanto, sul sedile del conducente, l’uomo protestava. E parlava in modo assai poco sensato, dicendo delle autentiche corbellerie, al punto che Larson cominciò a innervosirsi.
- Non me la date a bere – disse Lacroix, a sua volta contrariato. I due giovani ora gli stavano davanti, in piedi accanto alla diligenza. - Mi sembri un damerino arrivato fresco fresco dall’Est con la sua pollastrella.
- Se fate parte del gioco, ditecelo – protestò Fred, - altrimenti…
- Quale gioco? – gracchiò Pierre Lacroix.
Jane si strinse contro il suo compagno.
 Fred infilò una mano nella tasca interna della giacca.
 Ma Pierre fu più svelto di lui. Almeno così pensò, mentre faceva partire il colpo.
 Il giovane spruzzò sangue dal petto e andò a sbattere con le spalle contro la fiancata della diligenza. Lentamente, scivolò a terra.
Jane lanciò un urlo isterico.
Poi fu la volta dei due che stavano a cassetta. Con due colpi in rapida successione, Larson li fece volare dalla loro postazione.


L’elicottero atterrò sul luogo della sparatoria una buona ora più tardi.
Il regista Peter Gomez e la sua assistente Stella Richardson poterono rendersi conto dell’accaduto.
Era stato difficile rintracciare la diligenza in quel tratto desertico. L’operatore, infatti, non aveva ripreso quel tratto di cammino. Non era previsto che andassero in onda in quel momento.
Gomez si rese conto che i quattro disgraziati non ce l’avevano fatta a lanciare l’allarme. Il giovane Fred Franciosa probabilmente aveva cercato di comunicare con il cellulare, prima di crollare a terra fulminato da un colpo di pistola in pieno petto. Teneva ancora l’apparecchio stretto in una mano, che probabilmente aveva estratto da una tasca interna della giacca.
Solo Jane Crispin, attricetta in fase di decollo, era rimasta in vita, ma sotto shock. Doveva essere stata violentata, perché era piena di lividi e il lungo abito ottocentesco era strappato in più punti
- Tutto è andato a puttane – commentò Peter Gomez.
“In viaggio nel vecchio West”, il reality dell’anno, era proprio finito male, in modo a dir poco incomprensibile, proprio quando l’ultima coppia di concorrenti si stava avvicinando al traguardo. La diligenza d’epoca su cui viaggiavano era stata assalita dai banditi. Il tutto misteriosamente fuori programma.
L’operatore, che di certo stava al fianco del conducente, non aveva ripreso nulla. Anzi, la videocamera era sparita. E forse quella era la cosa più spiegabile, essendo l’apparecchio professionale di un certo valore.
Solo Jane avrebbe potuto aiutare a capire, qualora si fosse ripresa dallo shock.
Intanto Stella Richardson provò a farle bere un goccio di Coca Cola, calda come piscio, che aveva trovato in una sacca, sul sedile della diligenza. E le disse, con discreto cinismo:
- Hai rischiato grosso, bella mia! Se l’operatore ti avesse ripreso con questo reperto della civiltà dei consumi, saresti stata squalificata… proprio all’ultimo momento.