lunedì 17 agosto 2015

MORTE PER TURISMO di Renato Pestriniero



Tutto ebbe inizio tre anni fa. Io lavoro al SEDIFIDE (si pronuncia SIDIFAID) che significa Self Dispatching Files Dept., più o meno Reparto delle pratiche che si evadono da sé, un ufficio dove si provvede a mantenere certe pratiche in sospeso fino a quando si evadono automaticamente per scomparsa fisiologica dei soggetti interessati. Al SEDIFIDE di Candelù, frazione di Maserada sul Piave, arriva dalla sede centrale un flusso continuo di circolari che impongono strategie gonfie di neologismi dove la lingua italica è solo flebile traccia. Questa globalizzazione tecnologico-informatica si è infiltrata financo nei nostri nomi, ecco perché il mio collega Brusegan Teodoro viene chiamato Teddy, e Lacanà Agatino, prima di sparire, veniva chiamato Laky.
Laky era bello, statura sul metro e novanta, pesoforma di chili settantadue. Come la notte aveva i capelli, e come smeraldo entrambi gli occhi. Circa il colorito - che lui sosteneva essere naturale - c'era il sospetto che derivasse da lampade UVA o da banale, oltre che equivoco, fondotinta. Ma, a parte le invidie di bassa natura impiegatizia, egli era la dimostrazione di quanto un essere umano può esaltare l'opera del Signore. Però, come non c’è luce senza buio, come non c’è bene senza male, parimenti Lacanà Agatino non poteva esistere senza antitesi. Ecco allora Brusegan Teodoro.
Le caratteristiche di Agatino erano anche in Teodoro, solo distribuite in modo diverso. Per esempio il candore dentario di Laky balenava anche in Teddy, ma sulla pelle. E la chioma del primo la si ritrovava sì nel secondo ma disposta in ordine sparso dalle spalle in giù. Anche buona parte della statura di Laky era rintracciabile in Teddy,  però come circonferenza nella zona tra glutei e pettorali. E così via. Teddy aveva fatto cose turche per avvicinarsi allo splendore del collega: lifting, jogging, footing, fotting (neologismo non di radice anglosassone e comunque estraneo alle possibilità di Teddy), body building, hair transplant, aerobic... Tutto inutile.
È intuibile come molti attriti tra Laky e Teddy derivassero dal rapporto con l'altro sesso. Se teniamo conto della legge statistica del pollo, ognuno dei due ne usufruiva al cinquanta per cento, nella realtà il pollo intero se lo beccava sempre Laky.
Un giorno, Toni Braiello detto Brain, Staff Department Manager, volgarmente definito capo del personale, ci presentò una nuova collega. Nata a Casale Cremasco Vidolasco in provincia di Cremona, aveva preso il meglio dalla madre americana e dal padre italiano. Il suo nome era Cuglio Marigold. Mentre quell’incontro si limitò a impressionare come un timbro a secco la mente di Teddy, le ghiandole di Laky si misero subito in azione. E alla fine il suo fascino fece breccia.
Il tempo passò. La legge statistica del pollo ribadiva la sua validità. Un giorno particolarmente torrido - ferragosto era alle porte - il destino beffardo si presentò a Teddy sotto forma del solito autobus sette sbarrato inaspettatamente gonfio di comitiva forestiera. Sorte volle che quello fosse anche il giorno in cui la bellissima Marigold, chissà per quale imperscrutabile ragione, avesse deciso di prendere l'autobus anziché la sua Toyota rossa. Fu così che Brusegan Teodoro si  trovò faccia a faccia con la fanciulla in una situazione di estrema promiscuità. - Hi! - Fece Marigold con entusiasmo da spot TV.
- Si accomodi.- Ansimò lui spingendo con glutei sviluppati da anni di lavoro sedentario la muraglia di corpi gravanti alle sue spalle. È noto come gli abiti femminili, in piena estate, siano estremamente ridotti sia in superficie che in spessore, quindi la situazione era tale da trasformare una semplice promiscuità in intimità vera e propria, resa peraltro maliziosa dal dondolio del mezzo pubblico, dagli sfregamenti a ogni accelerata, frenata e curva provocati dalle leggi del moto.  La prorompente giovinezza di Marigold cominciò così a far sorgere a Brusegan Teodoro un problema che non si presentava da tempo. All'improvviso la ragazza lo guardò dritto negli occhi. Nei pochi attimi in cui lui riuscì a sostenere quello sguardo, Marigold, imprevista e meravigliosa, sorrise. Fu un sorriso appena accennato ma con un arcobaleno di sfumature. - Wow, Briusighein! - mormorò.
- La prego, mi chiami Teddy. - Boccheggiò lui, e in quel preciso istante si innamorò e decise che l'italostatunitense sarebbe stata sua.
Poiché tutto questo mi fu raccontato da lui stesso due giorni più tardi, quella mattina io ignoravo quanto era avvenuto nell'autobus del peccato. Sapevo però che Marigold aveva passato la notte nel mini che Laky si ostinava a definire alcova.  Quindi, ingenuamente, la prima domanda che feci a Laky appena arrivò in ufficio, fu: - Allora, com'è andata? - La risposta fu lapidaria, rozza e maschia: - Ragazzi - declamò l’incauto sorvolando sull'età. - Un vero miscuglio.
Miss Cuglio arrivò nella nostra stanza pochi minuti più tardi. La ragazza attribuì l'atmosfera inaspettatamente gelida a ragioni che le sfuggivano e delle quali non gliene fregava nulla. Intanto il cervello da burocrate di Brusegan Teodoro lavorava a pieno ritmo e alcune idee avevano messo radici robuste. Quando mi annunciò il proposito di eliminare Laky, mi resi conto con un brivido che in quelle parole non c'era traccia di eufemismo. Ormai l'uomo era lanciato. Pronunciava frasi del tipo ‘a lui la lingua, a me il pugnale' oppure ‘suoni pure le sue trombe che io suonerò le mie campane' o anche 'a lui la bellezza, a me la burocrazia'.  Fu quest'ultima frase a colpirmi in modo particolare. Lo sollecitai con tattica impiegatizia un po' settaria, un po' ruffiana. Resistette più di quanto previsto dalla prassi, poi si lasciò andare ed espose il suo piano nei minimi dettagli. Un capolavoro. Dal momento che le vie della burocrazia sono infinite, Brusegan Teodoro intendeva usarne le tortuosità più inique.
Per prima cosa si trasformò nel persuasore occulto di Agatino. Il quale intanto continuava a usufruire della bionda Marigold contribuendo inconsapevolmente ad affinare le trame del collega.
Arrivò l'autunno. Una delle idiosincrasie di Agatino era partecipare a viaggi organizzati. Come mai allora decise di intrupparsi segretamente nel terrificante tour de force turistico ‘Le sette meraviglie d'Italia'? Semplice. Guarda caso, Marigold veniva a trovarsi a Venezia per una manifestazione di moda proprio in concomitanza con la tappa veneziana del tour dalle sette meraviglie. L'accreditamento in possesso della ragazza era il risultato di un normale scambio di favori tra il Brusegan e un amico funzionario nella città lagunare. Non fu quello il solo scambio di favori. Successe per esempio che l'hostess veneziana che guidava il gruppo cadde preda del fascino lakiano con imprevista sollecitudine e fece capire ad Agatino che dopo la night gondola serenade gli avrebbe fatto omaggio di panorami fuori programma. In realtà le difese della hostess erano crollate con tanta prestezza grazie ai bigliettoni che Teddy aveva sganciato attraverso un groviglio di aderenze.
Laky ruminò l'opportunità. Nella sua veste di tombeur de femmes si conformò alla legge che ogni lasciata è persa e quindi, con virile cinismo, concluse che Marigold sarebbe sempre stata disponibile in quel di Candelù.
Piccola partentesi esplicativa: a Venezia i gruppi turistici raggiungono in certi periodi una densità da paralisi. Per ciò i tour operator devono presentare in anticipo il loro programma indicando dettagliatamente durata, percorso e soste; in questo modo i gruppi si intrecciano, si intersecano e si scambiano, regolati cronometricamente da hostess munite di identificatore. Chi avesse la sventura di smarrire la propria hostess si trasformerebbe in naufrago senza possibilità di essere recuperato poiché le regole ferree del turismo intelligente non prevedono tempi supplementari per le ricerche.
All'ora prevista il Nostro era in attesa incollato nella rientranza di un portone. A pochi centimetri scorreva il flusso di umanità nell'adempimento dell'obbligo turistico. Finalmente scorse il simpatico cetriolo di plastica verde smeraldo, l'identificatore luminoso descritto dall'hostess e previsto per la conclusione notturna del tour, la serenata in gondola. Quando raggiunse il cetriolo, Laky scoprì due cose: la hostess era una ragazza sconosciuta e qualcuno gli aveva fregato la personal card. Nulla aveva lasciato al caso la mente machiavellica di Teddy.
Fu così che Lacanà Agatino si trovò incastrato nell'ingranaggio della burotica. Si guardò intorno smarrito. Quelli del gruppo avevano occhi a mandorla e parlavano una lingua strana. Gli venne di pensare che una via di fuga ci sarebbe stata. Sbagliato. Senza personal card ormai non è possibile usare nemmeno una toilette pubblica, quindi solo continuando a seguire il gruppo del cetriolo avrebbe potuto sopravvivere poiché solo il cetriolo gli avrebbe assicurato la sicurezza del 'tutto compreso'. Dovette proseguire fino a Roma, ultima tappa delle sette meraviglie previste dal programma.
A questo punto successe qualcosa che nemmeno la raffinatezza burocratica di Brusegan Teodoro poteva prevedere. Proprio quel giorno, per la prima volta nella storia della cristianità, il Santo Padre fece sciopero. Al posto della ieratica figura bianca si affacciarono alla finestra due chierici per stendere uno striscione. Su campo porpora risaltavano in oro le parole 'SCIOPERO SANTO'. Il Vaticano aveva sottolineato ripetutamente la difficile situazione finanziaria all'interno della chiesa cattolica. Applicando le strategie della deregulation avrebbe potuto incrementare le entrate attraverso una sorta di diritti d'autore sugli interventi papali. Ma poichè la proposta non riusciva a passare, ecco la drammatica scelta.
All'annuncio dello sciopero santo, ogni hostess pensò bene di intruppare i propri clienti e abbandonare il campo. Anche il gruppo del cetriolo seguì la stessa tattica. In blocco compatto raggiunse il pullman che sgommò verso l'aeroporto.
Da allora sono passati tre anni. Di Lacanà Agatino nessuno parla più. Forse è ancora vivo in qualche località asiatica in attesa che le pratiche per il rimpatrio seguano il normale iter burocratico, ma l'impossibilità di farsi identificare rende ogni passo difficile, sospetto, estremamente lungo. D'accordo, ci sono fax e computer che trasmettono informazioni in tempo reale ma chi manovra quei gioielli tecnologici sono sempre esseri umani sottoposti a leggi burocratiche che giorno dopo giorno diventano sempre più indecifrabili. E' quindi probabile che, se Laky esiste ancora, la sua pratica si trovi bloccata per un ennesimo cavillo. E se un giorno essa dovesse finalmente arrivare al SEDIFIDE di Candelù, cadrebbe sempre nelle mani di Brusegan Teodoro, l’elemento più efficiente nell'espletamento delle pratiche che si evadono da sé.



venerdì 14 agosto 2015

DOBLETE (Testo originale e traduzione) di Sergio Gaut vel Hartman



 —¿En qué puedo ayudarla? —dijo el doctor Freud franqueando el paso de la joven a su consultorio.
—Soy Greta Samsa, la hermana de Gregor.
—Ajá —comentó el famoso psicoanalista que no tenía la menor noticia de la existencia de una familia Samsa en Viena.
—Lucho contra la fuerte atracción que siento por mi hermano —agregó Greta sin rodeos.
—Ah, pulsiones incestuosas. Podemos tratar eso.
—No es tan simple, doctor Freud —refutó la joven—; me tendrá que tratar por incesto y zoofilia al mismo tiempo.

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– In che posso aiutarla? – chiese il dottor Freud accompagnando la ragazza nel suo studio.
Sono Greta Samsa, sorella di Gregor.
– Oh! – Esclamò il famoso psicanalista che non aveva mai saputo dell’esistenza di una famiglia Samsa a Vienna.
– Lotto contro la forte attrazione che provo per mio fratello, – aggiunse Greta senza mezzi termini.
Ah, impulsi incestuosi! Possiamo curarli.
Non è così semplice, dottor Freud – ribatté la ragazza – Si troverà a che fare con incesto e bestialità nello stesso tempo.

martedì 11 agosto 2015

AULD REEKIE - L’ENFUMEE di Pierre Jean Brouillaud



Deacon Brodie’s, un pub au coeur du vieil Edimbourg.
Une salle décorée de tartans, ces tissus de laine aux vives couleurs disposées en carreaux qui servent d’emblèmes aux différents clans écossais. Ils découpent ainsi la salle  en un certain nombre d’espaces, comme autant de cabinets.
En vain je me cherchai une place. Toutes les tables étaient occupées. C’était le temps du Festival annuel qui attire des foules considérables.
La serveuse, une belle rousse, accompagna son sourire d’un geste d’impuissance.
Je me préparais à ressortir quand, d’un angle peu éclairé, me parvint une voix :
- Je serais heureux que vous acceptiez de partager ma table et que vous vous considéreriez comme mon invité.
 La voix mit fortement en relief le mot guest avant de poursuivre, un ton plus bas :
- A condition, toutefois,  que vous n’ayez rien contre les … revenants.
Humour écossais, me suis-je dit. Sans doute ce monsieur veut-il se désigner comme un vieil habitué de l’établissement.
- Bien au contraire, ai-je répliqué. Ayant « vécu » plusieurs expériences, ils n’en sont que plus intéressants.
Un sourire effleura les lèvres de mon interlocuteur qui m’invita à prendre place:
- Make yourself at home !
J’écartai un pan du rideau rouge et vert et m’approchai.
L’habitué s’était levé. Je notai son bizarre accoutrement. Il portait une sorte de trois-quarts « prince de Galles » de couleur verdâtre. Une tenue qui me faisait penser à l’image conventionnelle d’un certain Sherlock Holmes.
Thank God ! pensai-je. Il y a encore ici de ces originaux qui ont fortement contribué à la renommée de leur pays.
Dans la mesure où la pénombre permettait de distinguer ses traits qui me parurent très marqués, l’homme ne devait pas être de première jeunesse.
Il me tendit une main osseuse :
 - How do you do ? My name is William Brodie. Et il souligna :
    Brodie, comme cette taverne. Mais je précise que je suis ici en tant que  client et non comme tenancier de  l’établissement.
Je n’ai pas osé lui demander si le personnage sulfureux qui a donné son nom au pub faisait partie de ses ancêtres. J’ai choisi de le laisser parler.
Brodie, donc,  reprit place devant  son assiette d’où montait un fumet trahissant un plat de haggis, cette panse de mouton farcie qui est toujours restée pour moi aussi exotique et bizarre que les règles du cricket.
En ouverture, nous parlâmes de choses et d’autres, surtout de cette bonne vieille d’Edimbourg dont j’ai toujours apprécié, depuis mes années d’étudiant, le charme nordique, un rien austère, cette sorte de noblesse que lui donnent sa situation sur son ancien volcan, son histoire, ses mystères. Cette ville dont il était certainement originaire, comme en témoignait son accent avec la relative brièveté des voyelles et les r  roulés.
En arrière-plan je ne pouvais m’empêcher de me remémorer la célèbre histoire de cet autre William Brodie qui aurait inspiré à Robert Louis Stevenson son roman Strange Case of  Dr Jekyll and Mr Hyde.
Le William Brodie du XVIIIème siècle était un « honorable » dignitaire de la Guilde des ébénistes. Le jour, il menait la vie pieuse d’un riche citoyen membre du conseil municipal. Mais la nuit se passait à jouer et à boire dans les tavernes de la vieille ville.
A partir de 1786 il se mit à commettre des cambriolages pour payer ses dettes de jeu. Trahi par un de ses complices il fut pendu en 1788.
C’est ainsi que le cas était présenté dans une fiche proposée au public.
Bon, il fallait en revenir au présent,  donc à la présence de celui qui était mon hôte.
- Euh ! Tout à  l’heure, ai-je dit, j’ai remonté un de ces passages couverts, si caractéristiques d’Edimbourg, un de ces closes qui n’ont plus d’âge.
- Avez-vous fermé les yeux ? m’a alors demandé mon interlocuteur
- Ma foi non, pourquoi l’aurais-je fait ? De là on avait une très belle vue sur la vieille ville et sur l’estuaire du Forth.
- Certaines choses se  voient mieux les yeux fermés… Le présent n’existe que dans la mesure où il fait écran.
- Vous voulez donc parler du passé.
- Je vois… que nous nous comprenons. Alors, si vous le voulez bien, nous allons fermer les yeux… Mais je suis impardonnable ! J’ai omis de vous demander ce que je puis vous offrir.
- Vous êtes trop aimable. Ce serait plutôt à moi…
- Vous êtes sur mon territoire. Mon invité, répéta-t-il.
- Eh bien, je prendrai un Glenfiddich naturellement.
Je remarquai que, de temps à autre, les clients tentaient de jeter un ?il derrière le rideau. Comme intrigués par notre présence ou, surtout, par celle de mon interlocuteur.
La journée avançait. Les taverniers forcèrent l’éclairage. Maintenant, je distinguais mieux les yeux de mon comparse. On aurait cru qu’ils avaient changé de couleur, qu’ils étaient devenus quelque peu phosphorescents. Ça vient de l’éclairage, pensai-je.
- Comme dans la plupart des cas dont s’occupe la justice, dit mon voisin de table, si vous reprenez ce qui demeure du dossier, l’affaire Brodie n’est pas exempte d’obscurités, de personnages, de comparses ayant joué un rôle double, ou, tout au moins, obscur, sans parler de leur identité. Un tel comportement n’était pas longtemps tenable sans certaines complicités
Par ailleurs, je ne vous ai pas dit l’exacte vérité. En fait, je suis lointainement apparenté à ce William Brodie de triste mémoire.  Et les origines de ce lien, nul ne peut mieux les expliquer que le principal intéressé. Je vais donc lui donner la parole.
- Pardon ?
- Vous êtes Français, m’avez-vous dit.
 - En effet.
- Cher monsieur, votre langue, fidèle à son origine latine, ne dispose que d’un seul et même mot pour désigner le temps qui passe et le temps qu’il fait. Une carence ? Pas vraiment. Car il est bien évident que les deux acceptions sont liées. Le temps, c’est ce qui change : le temps qu’il fait change avec le temps qui passe. Le temps, c’est d’abord la fluidité. Alors pourquoi ne pas, en quelque sorte, inverser la séquence, imaginer que le temps qui passe – et ses subdivisions arbitraires - les époques - change avec le temps qu’il fait ? Partons donc du temps qu’il fait et de l’ambiance pour essayer de retrouver l’époque. Et maintenant, regagnons celui des passages qui porte précisément le nom maudit de Brodie.
Ici la nuit tombait.
Les yeux phosphorescents de mon accompagnateur éclairaient quelque peu le passage.
Sous les lampes au gaz qui vacillaient, le close n’offrait maintenant pour tout horizon qu’un de ces brouillards brunâtres, à forte odeur de charbon, qui avait valu à la ville son surnom de Auld Reekie, la Vieille Enfumée.
Brodie passa sous un bec de gaz. J’eu le temps là encore  de m’apercevoir qu’il portait une casquette à rabats, comme dans l’image convenue de Sherlock Holmes.
- Vous me direz : le brouillard, cela ne nous aide guère, reprit-il. Mais au
contraire. Il nous aide à gommer le présent. Or, qu’est-ce que ce présent qui, à peine énoncé, a basculé dans le passé ? Voyez, déjà les détails se gomment. Bientôt ne restera que ce que nous appelons skyline, la silhouette, la découpe sur le ciel que domine le rocher volcanique du Château et qui continue à changer.
- Nous y voilà. ? Ah !
Là, un corps recroquevillé sur le sol nous barrait  la route. Il avait apparemment été roué de coups jusqu’à ce que mort s’ensuive.
- Que pouvons-nous faire pour ce malheureux ?
- Rien, car ce n’est qu’une image destinée à nous mettre sur la piste. D’ailleurs, la nuit et le brouillard l’ont déjà avalée.
………….
Et la voix sortit de la nuit, celle du célèbre, (du vrai ?) William Brodie :
- Dans sa progéniture, ma mère comptait un fils né hors mariage. Ce garçon ne fut jamais déclaré. Nous nous ressemblions à s’y méprendre. Ce qui fut la source de l’équivoque. Notre mère lui avait donné le même prénom qu’à moi. Pour nous distinguer, et dans le cadre familial, elle m’appelait Will et lui, Willy. Sans doute notre mère, qui était assez rouée, s’était-elle dit qu’un jour viendrait où, dans une situation sociale difficile, comme la sienne, une certaine ambiguïté présenterait quelques avantages et qu’on pourrait en jouer. On ne sait jamais ! C’était sa rengaine…
En attendant, ladite situation me valait de fréquents ennuis. Ambiguïté ? Oh oui ! On me punissait souvent pour des fautes commises par mon « frère » qui n’était pas un modèle de bonne conduite. Chaque fois qu’il commettait un acte répréhensible, c’était contre moi qu’on se retournait, bien que, le plus souvent, cet acte soit resté socialement impuni et qu’il ait comporté pour les Brodie, un avantage pécuniaire ou autre.
Je peux bien l’avouer aujourd’hui. Je n’éprouvais pas vraiment pour Willy l’affection fraternelle que la nature aurait dû m’inspirer. Je me le reprochais.
Mais, quand les actes commis par mon « frère » conduisirent à son arrestation et à sa condamnation, sous ce nom qui était toujours le mien, j’ai connu un angoissant cas de conscience. Avais-le droit de laisser salir à jamais notre nom ? N’étais-je, dans cette étrange situation, coupable sous ce nom que nous partagions ? Devais-je accepter que cette peine infâmante soit subie par un William Brodie ?
Mais comment l’éviter ? Mettre notre mère en cause ? Tout reprendre à zéro ? Où les révélations s’arrêteraient-elles ?
L’opprobre stigmatiserait notre nom, dans tous les cas. C’était trop tard.
Après tout, c’était à  Willy de payer des délits, voire des crimes dont il était seul et entièrement responsable
Je le laissai condamner et exécuter sous mon identité. Je ne pouvais empêcher que, de toute manière, mon nom soit sali à jamais. 
Plus tard, je l’avoue à ma honte, j’ai apprécié d’être débarrassé d’un frère aussi monstrueux
Et ensuite ? 1788. Souvenez-vous. C’était, après la révolution des treize anciennes colonies, la naissance d’une nouvelle nation, les Etats-Unis d’Amérique.
Sous une fausse identité, j’ai pris le bateau pour le Nouveau Monde où, ma foi, je n’ai pas si mal réussi.
Une fois, je suis même revenu – sous ma nouvelle identité, bien entendu - revoir Auld Reekie qui, ma foi, n’avait pas tellement changé.
……
Un flou. C’est ici, je crois, que j’ai rouvert les yeux.
Mon voisin de table poursuivit :
- Bon, me direz-vous, comment se fait-il que je porte ce nom de Brodie, puisque l’un des frères est mort sur le gibet et que l’autre a changé d’identité, tous d’eux sans postérité ? Ou bien, appartiendrais-je à une branche parallèle ? Vous allez comprendre…
Dans la rue une bruyante troupe de festivaliers passait devant le pub et couvrit un instant nos voix.
Quand elle se fut éloignée et que les horloges de la ville sonnèrent cinq heures, la serveuse rousse s’approcha pour présenter la note que mon  interlocuteur prit à sa charge, malgré mes protestations.
La serveuse esquissa une révérence et dit :
- Merci, monsieur Holmes !
Hein ! Avais-je bien entendu, ou est-ce que sous l’influence du scotch dont j’avais un peu abusé, je commençais à mélanger les personnages ?
A l’intention de mon voisin, la rouquine reprit :
- Hier soir, je vous ai vu au King’s Theatre  dans Sherlock Holmes and the new case of William Brodie. Génial, comme d’habitude. Vous jouez ce soir ?
- Oui, Lizzie.
- Toujours à guichets fermés ? a encore demandé Lizzie.
- Oui. Mais il me reste un billet de faveur. Il le brandit, puis me le tendit :
- Je serai ravi de vous l’offrir et de vous compter parmi mon public. Nous avons décidé de rouvrir le dossier Brodie. Peut-être allez-vous ce soir apprendre encore du nouveau sur cette affaire.  Vous comprendrez quel lien me rattache à cette triste identité.  Pourquoi je dois l’assumer. De même que je dois assumer le rôle du détective, héros de cette nouvelle version. Je vais être alternativement Sherlock Homes, le détective, et William Brodie, le coupable. Un rôle à transformation, comme je les aime. Parce qu’il nous permet d’endosser, pour quelques heures, notre dualité d’être humain.
Ma foi, j’ai accepté le billet.
Remontant le Royal Mile vers mon hôtel pour me préparer, je me suis persuadé que la voix du William Brodie original avait quelques intonations nous dirons : plus récentes.
Quoi qu’il en soit, Edimbourg, combien d’inavouables et d’impénétrables secrets restent enfouis derrière les pierres que crachèrent tes volcans ?

sabato 8 agosto 2015

ALLARME A MILANO di Antonio Bellomi



        
Ieri finalmente il 'coso' è caduto. Paffete, proprio sulle nostre teste. Non È stata però una sorpresa perché quasi quasi ce lo aspettavamo. Capirete, giornali e tivù di stato non facevano altro che ripetere da giorni: “Le probabilità di caduta del ' coso' sull'Italia sono infinitesime...” be', forse non lo chiamavano il 'coso', ma per me È sempre il coso e basta. Così dicevo che ce lo aspettavamo, perché quando quelli là dicono una cosa, puoi stare certo del contrario, benzina e tasse docent.
Io ero a casa, ancora in convalescenza dopo l'operazione e a un tratto ho sentito un sibilo, un tonfo che ha fatto tremare tutta la casa e in cucina un frantumare di stoviglie. Poi l'Adalgisa, che sarebbe la mia vecchia domestica, È scappata fuori di casa gridando “Gesummaria, È caduto il COSO!” 
Non È più rientrata. C'è stato un gran via vai di sirene, e dalla finestra ho visto carabinieri e polizia che affollavano il giardinetto condominiale attorno a un bucotto screanzato, grande come un gatto acciambellato, che occupava proprio il centro geometrico del prato verde. Infine È arrivata anche la guardia di finanza, forse perché il 'coso' aveva cercato di fare il furbo e non aveva pagato l'IVA anticipata per l'importazione.
Me ne sono tornato in salotto a finire il tè che stavo bevendo, quando hanno suonato alla porta. Ho aperto e mi sono trovato davanti un mostro venuto dallo spazio. Cioè era un uomo come me, ma con addosso un tutone bianco che lo inscatolava da capo a piedi. Aveva anche il casco con la mascherina, molto Seveso style.
“Zona inquinata,” mi ha detto il figuro. “È vietato uscire e nessuno può entrare.”
“Ah già,” gli ho detto. “È caduto il 'coso', vero?”
Mi ha guardato severo e scocciato. “Questa è un'informazione riservata. Non le posso dire niente. L'avvertiremo noi quando è cessato l'allarme. Per adesso se ne stia buono, non scenda a intralciare e non telefoni a nessuno per comunicare quanto è accaduto.”
Appena se ne è andato, sono andato al telefono e ho alzato la cornetta. Figurarsi, con quello che pago di bolletta telefonica non avevo la minima intenzione di rinunciare al diritto di comunicare la novità a qualcuno. A chi, non sapevo ancora bene.
Ma la cornetta è rimasta muta. Avevano già staccato le linee. Rapidità ed efficienza. Sono tornato alla finestra e ho visto che lavoravano nel bucotto per recuperare qualcosa che era finito sul fondo. Ma c'era qualcosa che non girava per il verso giusto. Perché man mano che passava il tempo, invece di progredire coi lavori, i tecnici col camicione bianco, carabinieri e polizia, che adesso indossavano una tutina trasparente, come quelle che si mettono allo stadio quando piove, si tiravano in disparte e si erano impegnati in accanite partite, chi a scopone, chi a scacchi e chi coi videogiochi da tasca.
Questa era davvero bella. Mi sono vestito e sono sceso anch'io. In cortile nessuno mi ha fermato. Miracolo, neanche un ghisa che mi facesse cenno di circolare. E non mi ero sbagliato. Erano davvero tutti impegnatissimi in partite all'ultimo sangue. E in quanto a me, come se neanche esistessi.
Sono rientrato nell'atrio e ho guardato nella guardiola del portiere. Stava facendo le parole incrociate e manco ha alzato la testa. Ma fin qui niente di strano. Tutto regolare anzi. Quelli che mi stupivano erano i rumori che provenivano da tutta la casa. Grida gioiose, allegre, come di bambini scatenati. Solo che le voci erano di adulti.
“Pum, ti ho colpito, canaglia!” gridava il tenore del primo piano e ne ho riconosciuto la voce perché era inconfondibile.
“Ah! Tu uccidi un uomo morto!” ha gemuto flebilmente un'altra voce che non sono riuscito a identificare.
Ormai morivo dalla curiosità. Ho risalito le scale e sentivo i suoni giulivi da dietro le porte. Peccato che fossero chiuse. Mi sarebbe piaciuto vedere quelle scene. Ho provato qualche maniglia ma inutilmente. Neanche il campanello ha richiamato l'attenzione degli occupanti. Finalmente, al terzo piano, ho visto aperta la porta dello studio del commendator Guidotti, il commercialista. Ho infilato dentro la testa, ma l'ho subito ritratta, perché il commendatore e la signorina Giulia stavano giocando anche loro e non mi pareva il caso di interromperli. Giocavano al dottore, infatti.
Insomma, nello stabile sembravano tutti impazziti. Adulti e bambini si comportavano tutti allo stesso modo... come bambini, appunto, e parevano tutti divertirsi un mondo.
Effetto del 'coso'?, mi sono chiesto. Cos'avevano questi diabolici arabi, un'arma per farci tornare tutti bambini e poi invaderci senza pericoli? O che fosse un'arma destinata contro gli americani e finita fuori rotta? Ma io perché ne ero immune?
Sono sceso in strada e mi sono avviato verso il centro. La strada era intasata di auto, ma la gente folleggiava sulla carreggiata. Chi giocava a nascondino, chi a prendersi, chi a muro con le figurine che aveva comperato per il figlio.
Solo dopo un buon chilometro a piedi ho visto una specie di sbarramento con cavalli di frisia e auto della polizia e anche se il blocco stradale era ancora lontano ho capito che al di là la vita era normale.
Allora mi sono fermato. E ho pensato che il giorno dopo sarei dovuto tornare al lavoro in banca dietro lo sportello. La convalescenza era finita. E probabilmente era stata proprio l'operazione al cervello che mi aveva reso immune agli effetti del 'coso'. Ma quelli di là non lo sapevano.
Nossignori. Non sapevo se il 'coso' caduto fosse davvero il 'coso' degli arabi o qualche diabolica meteorite extraterrestre carica di spore che aggredivano il cervello umano, ma sapevo con sicurezza che mi sarebbe piaciuto tornare per qualche giorno ancora bambino.
Così sono tornato indietro, sono risalito in casa e ho tirato fuori il trenino elettrico che avevo comprato a mio figlio tanti anni fa, prima che si sposasse.
E adesso mi sto divertendo come un matto anch'io in attesa che arrivi qualcuno e mi dica di smetterla di fingere di fare il bamboccio e di tornare alle cose serie.

giovedì 6 agosto 2015

LA VALLE DEL CAVALIERE SOLITARIO di Paolo Secondini



Il cowboy avanzava lentamente, sotto i raggi di un sole impietoso, tirando il cavallo per la briglia.
Zoppicava, la povera bestia, e soffriva!
Non si vedeva nessuno cui chiedere aiuto, tanto meno un maniscalco (che quando non serve, te lo trovi sempre tra i piedi).
Il cowboy era in mezzo a una valle piena di prati, fiori, alberi e grossi cespugli, ma senza un villaggio… senza un dannato maniscalco.
Che razza di valle! pensò il cowboy scuotendo  la testa.
Trasse dalla fondina la pistola. Strinse i denti. Gli costava moltissimo farlo, ma doveva.
Lo sparo fu secco, acuto…
«È giusto così! Siamo pari, adesso,» esclamò il cowboy.
Continuò ad avanzare zoppicando vistosamente, sempre in cerca di un maniscalco… e di un dottore.

lunedì 3 agosto 2015

MOI, EN AOÛT di Peppe Murro (con in corsivo un’aggiunta irriverente di Paolo Secondini)



Io, protofotografo, astrologo, pseudomatematico, incisore di sogni, architetto,
lettore d’equinozi, filosofo minore, manovale di labirinti, elementatore di parole,
io col mio specchio –ritratto – a frantumi e la mia insonnia, le sbornie mancate e gli amici smarriti,
io che scrivo che parlo che urlo il grido inumano e selvaggio del silenzio in un mondo che non sa più ascoltare,
io che mi specchio di spalle per non vedermi svanire,
io che colgo stupidamente la rosa dalla parte delle spine,
io che mi celebro e mi ammiro e talvolta recito la mia pietà per il pubblico che dentro  mi ascolta senza applauso,
io che riesco a sorridere di fronte alle maschere che danzano per strada,
io che allegri si muore
io che fingo aspre profondità incatenate al niente,
io che finisco e la cosa mi pare troppo lenta,
io che batto alla tastiera le mie aspre confusioni,
io che rido di me, perché si dovrebbe usare un po’ più di cinismo, o avere grandi ali                          
io che leggo di come Merlino uccise Sigfrido con una freccia nel calcagno e di come Andromeda avvelenò Perseo per vendicare Medusa l’innocente
e forse  mi confondo e son davvero ubriaco e la tristezza mi fa girare a rovescio ogni pensiero…
e la notte è ancora alta e la W di Cassiopea ancora non stride coi suoi bagliori d’acciaio fra cielo e montagne
e questa valle è troppo stretta
e la mia gente ha perso i nomi ed io sono proprio un esiliato malato di nostalgia e disamore…    
io che mi lamento, che striscio –strido- che mi accoro,
io che il niente passa, io che mi confesso il vuoto, io che non ho più sogni e garbatamente muoio                
io che il primo pensiero al mattino e l’ultimo alla sera portano sempre lo stesso nome con più estese malinconie e minore dolcezza
io che sto al centro del mondo o dell’abisso e non c’è più nessuno
io che sogno e talvolta ho solo incubi
io che sradico miele dai miei occhi
io che sorrido che amo che mi tradisco ogni giorno coi miei pensieri d’assassino,
io… con la mia maschera ridicola di clown
io che il giorno e la notte è sempre neve…
così vicina, così lontana…
e questi assurdi rottami d’agosto…

     Parbleu, mon ami!
     Tu in agosto sei tutto questo, fai tutto questo, ti capita tutto questo?...
     Per Giove! (E anche perbacco!)
    Ti consiglierei come evitare questo mese per te pieno di insidie, di stranezze, di  nostalgie, di lacrime non versate, di assurdi mutamenti atmosferici, di sorrisi e innamoramenti pericolosi, di lamenti inconsolati, di gridi assordanti eppur silenziosi (mentre per gli altri è un piacevole mese di ferie, di vacanze: e da un pezzo è così... sin dai tempi del buon Augusto), ma non so cosa fare, che cosa suggerirti.
    E allora?
    Ti dico soltanto: fatti coraggio!
    Se chiudi un attimo gli occhi… siamo già a settembre.

sabato 1 agosto 2015

ESPACIO di Alejandro Bentivoglio



En el cielo es bastante notoria la nave espacial que recorrre el horizonte. No parece que vaya a aterrizar. Solo hace un reconocimiento. Luego desaparece. Algunos les sacan fotos que serán puestas en duda más tarde. Otros lo comentaran a sus amigos. Muchos creerán lo que pasó, otros dirán que son puras habladurías.
La tripulación de la nave pasa su informe a sus superiores. Los cuales lo archivan. Y siguen tomando café intergaláctico y ordenan más vuelos para asegurarse que el día en la oficina universal sigue tan burocrático como siempre.