martedì 19 agosto 2025

IL PIANETA VERDE di Peppe Muroo

 


Quel pianeta gli parve subito una stranezza: tutto verde di alberi, senza nessuna radura, senza rocce o specchi d’acqua. Con difficoltà riuscì a posarsi e con cautela aprì il portello: lo accolse un quadro di pace che sembrava quasi entrasse nei suoi respiri.
I sensori gli dissero che l’aria era respirabile, del tutto simile alla sua terra: si tolse il casco e quella sensazione di serenità la aggredì con forza maggiore.
Era strana e dolcissima, gli pareva come una nenia musicale che lo carezzava e ne cullava le sensazioni. Per un po’ si abbandonò, i suoi muscoli si rilassarono e la cosa gli parve molto piacevole. Strano questo pianeta verde che lo accoglieva con tale dolcezza!
Cominciò a camminare quasi danzando, mentre un’insolita allegria si stava impossessando di lui. Avanzava nel verde e gli pareva quasi che si aprisse al suo passaggio, come un invito o un abbraccio. “Strano”, pensò, “ma anche difficile da capire. E se fosse un inganno?”
Come se quel pensiero cupo e diffidente fosse una bestemmia, la musica nei suoi pensieri cessò di colpo, i rami non si spostarono più al suo passaggio, il cammino divenne più aspro.
Gli sembrò quasi che il verde fosse diventato più cupo e tetro.
Ne ebbe paura, mentre un vento spostava con forza i rami e il verde sembrava quasi piegarsi a questa nuova sofferenza: gli pareva che le cime degli alberi stessero urlando di pena e di terrore.
Non capiva come fosse possibile questa che gli sembrava un’impossibile sintonia tra il verde e le sue sensazioni.
Si impose di calmarsi e quasi contemporaneamente i rami si rimisero a frusciare con dolcezza: provò quasi la gioia di una carezza d’amore. Si lasciò andare a quella musica dondolante che entrava nei suoi pensieri, chiuse gli attimi come per un godimento maggiore.
E cominciò a capire: quel pianeta verde che lo stava accogliendo, per una stranezza delle cose, entrava in sintonia con le sue emozioni, le ripeteva, le viveva… e gli regalava le proprie, lievi e dolcissime.
Benvenuto!”, sentì nella sua testa, non con delle parole, ma con sensazioni ondulate che assomigliò allo stormire delle foglie.
Era piacevole quel dondolio nei suoi pensieri, si rilassò, si distese su un prato verdissimo e fresco. Forse si appisolò, stranamente, ma ancora più strano gli parve il suo scuotersi improvviso o risvegliarsi. Era sceso su quel pianeta per esplorare non per dormire: ordinò a se stesso di scuotersi e di espletare la missione. La cosa più importante da capire gli parve quella strana simbiosi fra il pianeta e le sue sensazioni.
 Decise allora di fare un esperimento: andò vicino al portello e a mani nude diede un pugno, forte, contro il metallo della navetta.
Al suo dolore sembrò rispondere tutto il bosco con un piegarsi di rami e un ululo di vento lamentoso. Si massaggiò le nocche e sorrise man mano che il dolore spariva. Ed anche il bosco riprese il suo frusciare dolce.
Pensò allora alla meraviglia delle cose viste nello spazio, e le cime degli alberi restarono immobili verso il cielo, come bambini meravigliati.
Allora decise che avrebbe fatto l’ultimo esperimento. Imbracciò l’arma che aveva in dotazione, mirò con cura verso un piccolo albero e fece fuoco.
L’albero si accartocciò in una vampa di fuoco, mentre nei pensieri gli esplodeva una domanda dolorosa: “Perché?”, e sentiva uno strazio mai provato, qualcosa che lo scuoteva dal profondo ed a cui non sapeva dare ragioni.
Per capire”, si rispose lentamente, anche se la tristezza che sentiva lo stava travolgendo.
Per capire”, ripeté parlando a se stesso, ma non ne era contento.
Il bosco era silenzioso, non c’era più vento.

 

Sentì per l’ultima volta parole verdi dentro di sé: “Ed ora, che farai della tua conoscenza e del nostro dolore?”
Poi più nulla, solo un silenzio immane in quel pianeta d’alberi. 

 


sabato 16 agosto 2025

UN LAVORETTO PIUTTOSTO SEMPLICE di Paolo Secondini

 


1.

 

Con addosso un vecchio maglione e un paio di jeans sdruciti, l’uomo entrò nel locale grattandosi vivacemente una guancia. Si guardò per un attimo intorno, poi andò a sedersi su un alto sgabello e batté con violenza la mano sul bancone.

Il barista, girata la testa di scatto, fissò il nuovo arrivato con occhi torvi.

«Fuori di qui!» ringhiò poco dopo.

L’uomo non parve scomporsi.

«Un bicchiere di rum,» disse tranquillamente, sostenendo lo sguardo dell’altro.

«Fuori di qui,» ribadì il barista sporgendo il viso verso di lui. «Non farti più vedere.»

Riuscì a stento a trattenere l’impulso a spaccargli il muso.

«Non vado in cerca di guai, Berto,» l’uomo disse. «Voglio soltanto un bicchiere di rum. Non mi sembra di chiederti troppo.»

Il barista serrò le mascelle, poi sbuffò con veemenza come una belva furiosa. Infine poggiò i suoi pugni sul piano del bancone.

«È così ogni volta,» fece. «Ti siedi e chiedi un bicchiere di rum, o di cognac, o di whiskey, o chissà di cos’altro… Non ti ho mai veduto trarre denaro dalle tasche.»

«Ti pagherò, stanne certo.»

«Pagarmi tu?! È da un po’ che lo vai ripetendo. Una canzone, la tua, piuttosto vecchiotta, non ti pare?»

«Ti pagherò, dannazione!» l’altro disse, e si passò con asprezza la mano sulle labbra. «In questo momento, lo confesso, sono a corto di denaro, ma prima o poi ti darò tutto quello…»

«Fuori di qui!» lo interruppe il barista digrignando. «Non voglio sentire mai più la tua voce né, tanto meno, vedere la tua faccia. Mi sono spiegato?»

«Farò in modo che tu non la veda, Berto. Dammi solo un bicchiere di rum, poi me ne andrò. Te lo giuro.»

Il barista rimase in silenzio. Si grattò per un po’ tra i folti capelli che cominciavano a incanutire, specialmente alle tempie.

«Un bicchiere di rum, hai detto?»

«Uno solo, sì!»

«Uno solo, eh?»

«Sicuro!»

«Dovrai guadagnartelo.»

«E va bene! In fondo è da un pezzo che cerco lavoro.»

«Davvero?»

«Magari potessi darmelo tu!»

 «Vediamo,» fece il barista. Lo sguardo assorto, si massaggiò lentamente la nuca col palmo della mano. «Qualcosa per te ce l’avrei.»

«Sul serio?»

«Vieni con me nel retrobottega.»

«Prima il bicchiere di rum.»

«Dopo!»

«No, subito!»

Per qualche secondo il barista lo guardò con rabbia, poi alzò leggermente le spalle in segno di resa.

«D’accordo, ubriacone!» disse anche.

Glielo versò.

L'uomo bevve d’un fiato. Si asciugò le labbra col dorso della mano.

Berto chiamò una giovane inserviente.

«Sostituiscimi al bancone,» le disse. Quindi, rivolto all’uomo: «Seguimi.»

 

 

2.

 

Il retrobottega era un ampio locale piuttosto in penombra. Tale rimase anche quando fu accesa la sola lampadina che pendeva, ricoperta da un denso strato di polvere, dal basso soffitto.

Dovunque vi erano casse, bottiglie vuote, sedie e tavolinetti sgangherati, nonché cianfrusaglie di vario genere. Sembrava un cimitero di oggetti vecchi, del tutto inservibili.

Vi si respirava un’aria opprimente, viziata, dal forte odore di muffa.

«Come puoi vedere,» minimizzò il barista incrociando sul petto le braccia robuste, «c’è un po’ di disordine qui dentro. Non devi far altro che mettere a posto ogni cosa. Un lavoretto piuttosto semplice: roba da niente, insomma!»

In un primo momento l’uomo non rispose. Con la fronte aggrottata si limitò a volgere gli occhi tutt’intorno.

«È un lavoraccio, altroché!» disse alla fine. «Come puoi affermare che è roba da niente? C’è da spezzarsi la schiena per mettere ordine in questo porcile.» Fece una smorfia grottesca con le labbra. «Mi ci vogliono ore di estenuante fatica, senza considerare…»

«Non farla lunga,» lo interruppe il barista. «Saprò compensarti come si deve. E poi di là ho qualcosa che ti sarà di grande aiuto.»

Avanzò nella parte più buia del retrobottega facendosi largo tra l’ingombrante ciarpame. L’uomo lo seguì come un’ombra, continuando a girare lo sguardo dappertutto. Dal suo viso non traspariva il minimo entusiasmo.

«Ecco qua,» disse Berto indicando con mano quello che parve, a prima vista, un cumulo informe di ferraglie.

«Che cos’è?» l’altro chiese, dopo aver osservato per un momento quell’ammasso metallico.

«Diavolo! È una tuta robotica: nuovo modello, il più costoso e sofisticato fra tutti.»

«Questa cosa sarebbe… una tuta robotica?» fece l’uomo, incredulo.

«Te l’ho detto, no? Hai mai visto qualcosa di simile prima di adesso?»

«Una volta ne ho vista una, sicuro!» l’altro rispose annuendo. «Non ho avuto però l’occasione di metterla addosso.»

Il barista sorrise e alzò leggermente le spalle.

«In tutte le cose c’è sempre la prima volta,» disse. «Oggi avrai finalmente quella occasione. Non appena constaterai la grande efficienza della tuta, non potrai fare a meno di lavorare, in futuro, senza una di esse.»

«Ma… ma non so come usarla!»

«Credi che abbia importanza?»

«Come sarebbe?»

«Farà tutto la tuta, sta’ tranquillo.»

«Tutto la tuta? Che vuoi dire?»

 «Tu devi soltanto indossarla. Nient’altro! Sarà un giochetto da ragazzi, vedrai.»

L’uomo sembrò assai titubante. Rimase fermo a guardare l’oggetto con una certa diffidenza.

«Allora,» lo incitò il barista, «che aspetti? Una volta lì dentro dovrai soltanto decidere il da farsi. Ti assicuro che quell’affare agirà autonomamente… Mi spiego meglio… Vedi quella grossa cassa laggiù?» E alzò la mano a indicarla. «Basta che pensi: ora l’afferro con le braccia e la sposto a sinistra… Ebbene, la tuta farà ogni cosa immediatamente, senza il minimo sforzo da parte tua.» Fece una pausa, si chinò in avanti e batté le nocche della mano sull’informe ammasso di metallo: «È tutta in acciaio, ma molto leggero, malleabile. Le sue braccia, però, riescono a sollevare decine e decine di chili… Il tuo sarà un lavoro per nulla faticoso, te lo garantisco. Lo farei volentieri io stesso, ma di tempo purtroppo non ne ho abbastanza. Su, avanti, che aspetti ancora?»

«Ecco… io… veramente non so… non…»

A causa della ritrosia dell’uomo, Berto faticò non poco per persuaderlo a indossare la tuta. E quando quegli alla fine vi fu dentro, il barista gli diede precise istruzioni.

«Le bottiglie vanno da un lato; le casse dall’altro. Le cianfrusaglie, invece, devi ammucchiarle fuori in cortile. Vi si accede da quella piccola porta di ferro. Passerà qualcuno, più tardi, a portarle via con un furgone… In meno di un’ora dovresti avere finito… Allora, cosa mi dici?»

«Che farò del mio meglio, accidenti!» Si sputò due volte sulle mani, che sfregò energicamente l’una con l’altra. «Farò del mio meglio, puoi contarci!»

«Bene!» disse Berto il quale, dopo aver aiutato l’uomo a indossare la tuta e averla con cura predisposta all’uso, tornò nel locale a servire i clienti.

 

 

3.

 

La tuta robotica aveva l’aspetto di uno scafandro con tanto di casco, i cui fili interni di vario colore erano stati applicati, mediante piccole ventose, alla fronte e alle tempie dell’uomo. Attraverso di essi il cervello avrebbe trasmesso impulsi precisi agli arti di acciaio della tuta, determinandone i movimenti.

A tutta prima l’uomo si sentì a disagio, goffo, non sapendo come avviare quello strano congegno che, per quanto complesso e ingombrante, sulle sue spalle pesava poco.

Superò l’iniziale impaccio nell’attimo in cui ricordò che bastava pensare al da farsi perché la tuta agisse da sola, come fosse dotata di vita o impulsi propri.

«Speriamo che sia davvero così,» fece l’uomo tra sé, «proprio come mi ha detto il barista.»

Quindi dalle parole passò ai… pensieri.

Voglio avvicinarmi a quel mucchio di casse laggiù.

Immediatamente, con suo grande stupore, sentì la tuta mettersi in movimento. Dopo pochissimi istanti egli giunse trasportatovi letteralmente nel punto desiderato.

«Funziona, funziona! Accidenti se funziona!» disse tra sé esultando. «Dunque era vero, non mi aveva mentito quel lurido bastardo… Ma cerchiamo di fare alla svelta. Prima finisco, meglio è. Mi sembra di stare in un forno qui dentro. Comincia a far caldo, maledizione!»

Tutte le casse vanno a sinistra, una sull’altra…

La tuta eseguì, in modo perfetto, quello che l’uomo aveva pensato.

Le bottiglie sul lato opposto.

Fu fatto anche quello.

Dopo appena dieci minuti, casse e bottiglie erano con esattezza dove il barista voleva che fossero messe.

Per un istante, l’uomo rimase a osservare ogni cosa immensamente soddisfatto. Bisognava ora portare in cortile le varie cianfrusaglie, e per farlo ci volle più tempo.

Dopo un’altra mezzora di lavoro, l’uomo stando ancora all’interno della tuta ebbe la sensazione che il caldo aumentasse continuamente, fino a diventare rovente, insopportabile.

A un certo punto gli parve di avvampare, come neppure in un forno durante l’estate più torrida. Il sudore gli scorreva sul viso e lungo la schiena a rivoli sottili, gli entrava negli occhi bruciando terribilmente. Ma come strofinarli? Non lo poteva nel modo più assoluto, per via dei guanti e del casco integrale.

«Devo subito uscire da questo marchingegno,» disse l’uomo tra sé in tono convulso. «Mi manca il respiro…Non resisto… Non resisto, maledizione! Soffoco… soffoco…»

Dopo molti e infruttuosi tentativi di levarsi la tuta di dosso, provò a gridare, a chiedere aiuto, ma ebbe la netta impressione che la sua voce non superasse le spesse pareti del casco che, nella parte anteriore, era munito di vetro, anch’esso di grande spessore.

Decise, allora, di entrare nel bar, sperando che qualcuno magari lo stesso Berto lo aiutasse a uscire da quella che ormai gli pareva una trappola infernale.

Entra lì dentro, presto, che tu sia maledetta! pensò l’uomo con rabbia e apprensione nello stesso tempo.

La tuta si mosse prontamente, come sempre ubbidendo agli impulsi del suo cervello. Ma dopo un paio di passi si bloccò ed emise una specie di gemito. Poi prese a sfrigolare e il suo interno fu subito invaso da un fumo giallastro, denso, e da un forte odor di bruciato.

«Mio Dio, che succede?» si chiese l’uomo in preda al panico più spaventoso. «Dannazione, sto arrostendo… muoio… salvatemi…»

Immaginò che il proprio sudore avesse provocato un cortocircuito o chissà quale altra diavoleria e, di conseguenza, un principio di incendio. L’interno della tuta, infatti, era tappezzato di fili e materiale altamente infiammabile.

«Dannazione!» esclamò di nuovo. «Mille volte dannazione!»

D’istinto si scosse, sussultò, contrasse i muscoli del petto, delle braccia, cercando disperatamente di uscire da quel catenaccio. Gridò con tutto il fiato che aveva, sperando che qualcuno riuscisse a sentirlo…

Fu inutile.

Allora, egli ebbe la certezza che presto sarebbe morto… per colpa di una dannata tuta robotica. Ciò nonostante non si arrese. In un estremo tentativo di ribellione, gridò, bestemmiò, tornò a gridare più forte, a bestemmiare… ma col risultato di empirsi inevitabilmente i polmoni di fumo. Tossì più volte con violenza, mentre le lacrime gli sgorgavano dagli occhi appannandogli la vista.

«Devo uscire… devo… devo uscire…» disse, al culmine del parossismo.

Furono, quelle, le sue ultime parole.

A un tratto la tuta si accartocciò su se stessa con tale violenza che l’uomo, all’interno, ne restò schiacciato. Quindi cadde pesantemente sul pavimento.

 

 

4.

 

Dopo più di un’ora, Berto il barista tornò nel retrobottega, sperando trovarlo perfettamente in ordine, con tutti gli oggetti al posto che lui aveva indicato.

Il sorriso si spense sulle sue labbra quando sul pavimento, poco dopo la porta di ingresso, vide la tuta robotica orribilmente deformata.

Capì all’istante cos’era successo.

Serrò le mascelle e sbuffò di rabbia. Infine, con la punta del piede toccò quell’ammasso informe e ancora fumante di metallo.

Si grattò contrariato fra i capelli. Poi, dopo un breve sospiro:

«È successo di nuovo, maledizione! Ancora una volta il sistema refrigerante non ha funzionato… l’ennesimo idiota è rimasto schiacciato dalla tuta… L’ho sempre detto, io, che non c’era da fidarsi minimamente di questi aggeggi. E pensare che ho sborsato parecchio denaro per acquistare questa dannata tuta! Mi toccherà ripulirla da ciò che rimane di quell’ubriacone, quindi dovrò nuovamente farla riparare. Altro denaro da spendere, come se io ne avessi da buttare.» Rimase un istante in silenzio crollando la testa, poi riprese: «Funzionerà come si deve questo strumento diabolico? Sono curioso di vedere se qualcuno, prima o poi, riuscirà a non rimetterci la pelle. Ne dubito fortemente.»

Scosse la testa desolato.


mercoledì 6 agosto 2025

Un maestro della fantascienza

 


Ricordo di un grande scrittore di fantascienza: Robert Sheckley, i cui racconti e romanzi continuano ad affascinare per la loro sottile, arguta ironia e per il gusto del paradosso.


giovedì 31 luglio 2025

Da IL MERCENARIO DI KALARON (acquistabile su Amazon Libri): Catapulta Spaziale di Paolo Secondini

 

Per via del rumore assordante era impossibile chiudere occhio in quel pomeriggio afoso d’estate. 
Disteso sull’erba all’ombra di un albero smuk – il cui tronco massiccio ospita solitamente una nutrita colonia di vermi, che si cibano con ingordigia di quel tenero legno – da più di un’ora O’Glas si rigirava su un fianco e sull’altro, senza riuscire a prendere sonno. Per di più sbuffava di stizza, come un vecchio, logoro mantice sfiatato. 
Di quando in quando, dalla sua gola uscivano rochi grugniti – ora alti, ora bassi – segno di un nervosismo sempre crescente che, come tutto lasciava supporre, sarebbe esploso da un momento all’altro. E infatti eruppe con un grido vibrante, acuto, inumano. 
Quanto a quest’ultimo epiteto, occorre qui precisare che O’Glas umano non era, in quanto alieno di Blok, uno dei quattro pianeti del sistema di Com, nella galassia di After. 
C’è da dire che tutti i blokiani, ogni volta che gridano, lo fanno in un modo così spaventoso da fare rizzare i capelli. È però risaputo che mai a nessun blokiano si sono rizzati, dal momento che di capelli essi sono sprovvisti. La loro testa, infatti, è tonda e liscia come una mela o, se si preferisce, come una palla da biliardo. Ma in verità il secondo paragone è inutile farlo a un alieno di Blok: non lo capirebbe. Egli non sa, assolutamente, cosa sia una palla da biliardo. 
Sta di fatto comunque che O’Glas, per via del rumore assordante (come si è detto all’inizio), si alzò irritato dall’erba su cui era disteso e volse uno sguardo indagatore e corrucciato tutt’intorno. 
Poco dopo, individuata la fonte del rumore, si avviò verso quella direzione. Sembrava che i suoi occhi mandassero lampi mentre guardava ora a destra ora a sinistra. 
Dietro il muro di una casetta a forma di cubo (su Blok non esistono grandi dimore, poiché i blokiani, per natura, sono alquanto bassi e minuti e non hanno bisogno di ambienti spaziosi dove abitare), O’Lur martellava furiosamente un grosso e stranissimo aggeggio di metallo che, a guardarlo, non si capiva che fosse. Era in un bagno di sudore e aveva il respiro affannoso per lo sforzo continuo. O’Glas gli si avvicinò a passi spediti e, a voce alta, tanto da sovrastare il rumore: 
«Posso sapere, di grazia, che stai combinando?» chiese, le mani sui fianchi. «Per colpa tua non riesco a dormire, maledizione! Perché non smetti con questo fracasso?» 
«Smettere?!» fece allora O’Lur tergendosi il volto col palmo della mano. 
«Non chiedo di meglio,» rispose O’Glas, di rimando. 
«Non posso lasciare incompiuta la mia creazione,» fece l’altro additando ciò a cui stava lavorando. «Proprio adesso, poi, che l’ho quasi finita… Soltanto qualche ritocco qua e là ed è pronta per essere usata.» 
«La tua… cosa?» 
«La mia catapulta spaziale,» rispose non senza una punta di orgoglio nella voce, «con tanto di cabina e poltrona dove sedere comodamente; con una durevole scorta di viveri e una riserva d’aria di tloss.» 
«La tua… cosa?» ripeté, incredulo, O’Glas. 
«È una vita che ambisco di mettere piede su Argon, il nostro satellite… Vedi?» E indicò una piccola sfera giallastra che, nel mezzo di un cielo turchese, sembrava come affacciata a una grande finestra dando l’idea di osservare, incuriosita, quanto accadeva su Blok. 
O’Glas, dopo avere distolto lo sguardo dal cielo, parve considerare l’aggeggio che O’Lur aveva davanti. Infine, dopo un lungo sospiro: 
«Da quando credi di essere uno scienziato capace di realizzare un mezzo volante?» 
«Non sono uno scienziato, ma un buon artigiano senz’altro, appassionato di voli e di spazio.» 
«Uhm!» esclamò O’Glas accarezzandosi il mento. «Non entrerei in quel coso nemmeno se tu mi pagassi.» 
«Pensala pure come vuoi, ma questo coso – come tu dici – mi porterà su Argon.» 
Seguirono alcuni momenti di silenzio, dopo di che O’Glas, grattandosi il lobo di un orecchio: 
«E come funziona la tua catapulta spaziale? Sempre, beninteso, che essa funzioni davvero,» osservò con un sorrisetto beffardo. «Quale energia propellente potrebbe farti arrivare lassù, sul nostro satellite? Bada: è piuttosto lontano.» 
«Hai mai sentito parlare dell’Erien K-28?» 
«Oh, quello?» 
«Appunto. Mi darà la spinta necessaria a raggiungere Argon, in un tempo relativamente breve.» 
«Lo credi davvero?» 
«Con fermezza!» 
Ci furono altri momenti di silenzio, durante i quali O’Lur si diede a osservare, con grande soddisfazione, la sua catapulta spaziale; O’Glas, invece, con evidente scetticismo. 
Nel frattempo il caldo era diventato insopportabile, dal momento che i due, al di fuori da ogni riparo, erano esposti ai terribili raggi di Com, una stella blu la cui temperatura – è risaputo – supera quella delle altre stelle: rosse, gialle, arancioni eccetera. «Mi dici, O’Lur, che te ne viene ad andare su Argon?» domandò O’Glas girando attorno alla catapulta, come intendesse osservarla da tutti i lati e nei minimi particolari. 
«Voglio dire: che cosa farai una volta sul nostro satellite? Sempre che questo trabiccolo – per tutte le stelle dell’Universo! – ti ci faccia arrivare davvero (non vorrei che tu ricadessi nel punto di partenza dopo pochissimi metri di volo). Dimmi, dunque: che cosa farai?» 
«Che cosa farò?» ripeté O’Lur. 
«Te lo sei domandato? E poi, come farai a tornare su Blok, dopo che avrai appagato il tuo desiderio di mettere piede su Argon?» Fece una pausa quindi, scrollando la testa, soggiunse: «Non credo che sul satellite esista una rampa di lancio per la tua catapulta… qualcosa, insomma, che ti permetta di tornare indietro; non credo, inoltre, che vi siano posti dove rifornirsi di Eriten K-28, nel caso tu avessi bisogno di propellente.» 
O’Lur guardò fissamente O’Glas, meditando in apparenza sulle sue parole. Quindi prese a grattarsi la testa e, con disperazione, a cercarvi una ciocca di capelli per attorcigliarla attorno a un dito, come avviene talora in momenti di intensa riflessione. Ma di capelli, sul suo capo, neppure l’ombra. 
«Oh, accidenti!» esclamò alla fine. «Credo tu abbia ragione. Come potrò venir via da Argon se – metti il caso – mi stuferei di restarvi? Da quel che sappiamo, il satellite è completamente deserto, disabitato, senza strutture né qualsivoglia marchingegno…» 
«Appunto.» 
«… che potrebbe aiutarmi a tornare su Blok.» 
«Già!» fece O’Glas incrociando le braccia sul petto e scuotendo più volte la testa. «Saresti – per dirla in poche parole – condannato a restare su Argon, anzi a morirvi di fame e sete in brevissimo tempo.» Tacque per un istante, poi: «Ma può anche accadere – e occorre tenerlo in considerazione, qualora tu non l’avessi già fatto – che la tua catapulta non centri il bersaglio e che, di conseguenza (non voglio neppure pensarlo), tu venga scagliato nello spazio vuoto, freddo, profondo.» Fece una piccola pausa, poi, con apprensione: «Ci hai mai pensato? Dimmi: saresti in grado, in quel caso, di tornare indietro? di agganciare l’orbita di Argon o, meglio ancora, quella di Blok?» Rimase ancora in silenzio per un po’, quindi soggiunse: «Lascia che te lo dica: questo tuo aggeggio spaziale è, ne sono persuaso, qualcosa di inutile, di inservibile. Ha tutto l’aspetto di una… di una… ecco, sì… di una creazione scultorea che potresti inviare, più che su Argon, all’Esposizione d’Arte Moderna di Malvok.» 
«Tu credi?» 
«Lo credo e ripeto: come scultura la tua catapulta ti aprirebbe le porte del mondo dell’arte, come navetta spaziale dubito molto che questo ridicolo ammasso di ferraglie ti darebbe – una volta sul nostro satellite o in qualsiasi luogo nello spazio – la possibilità di tornare a casa.» 
Ancora una volta O’Lur prese a grattarsi, distrattamente, la testa rotonda e levigata. 
«Uhm!» disse infine allargando le braccia. «Questo sì che è un grosso problema!» 
«Ecco, da bravo,» fece allora O’Glas con un sorrisetto, «risolvilo bene prima di entrare in quell’aggeggio e farti catapultare chissà in che luogo dello spazio,» e con un dito indicò vagamente il vasto cielo, senza distogliere gli occhi dal viso di O’Lur. «Per quanto riguarda il mio problema, la sua soluzione sarà conseguente – credimi – alla soluzione del tuo.» 
«E cioè?» 
«Riuscirò finalmente a dormire sotto quell’albero smuk allorché – una volta presa la più assennata delle decisioni – smetterai di martellare questo inutile coso.» Scrollò leggermente la testa, poi: «Consiglio anche a te di dormire all’ombra di un fresco riparo, prima che questo terribile caldo ti cuocia il cervello, più di quanto non abbia già fatto.» Sollevò un poco le spalle, quindi, allontanandosi da O’Lur: «Catapulta spaziale! Puah!»

mercoledì 30 luglio 2025

SU AMAZON LIBRI: Paolo Secondini, IL MERCENARIO DI KALARON https://www.amazon.it/mercenario-Kalaron.../dp/B0FJSLJ4GV/
Un Universo di racconti di fantascienza che vedono umani e alieni protagonisti di storie dai risvolti drammatici, ma anche ironici e sentimentali.