“Ma… È sicuro che è qui?”
“Certamente! Andiamo.”
Agnolo seguì Porzio verso l’antro che gli aveva indicato. Era quello, dunque, l’ingresso della galleria d’arte.
Dentro faceva molto più fresco. Le pareti di roccia erano umide, stillanti umori.
“Sgorganti confluenze parallele in alvei futuri.”
La voce di Porzio risuonò autocompiaciuta e perentoria.
Agnolo, dall’inizio di quella giornata, come sempre, si era sforzato di assecondare il suo fausto mentore. E ora attendeva rassegnato lo scaturire, nella semioscurità, di nuove prove di forza.
Perché doveva capire. Prima capire, poi imparare. Lapalissiano. Porzio, invece, forte del suo approfondimento, sia pur nella precarietà delle sue possibilità di espressione, comprendeva tutto. Trovava in quanto vedeva più che altro delle conferme.
L’uno era un poveraccio, l’altro un Dio in Terra, o poco meno.
Agnolo arrancava pieno di buona volontà, sbrindellato, con un cappello a larghe falde schiacciato sulla fronte da cui debordavano riccioli stantii.
“Devo imparare, devo imparare.”
L’amico era più alto e di una lungimiranza quasi estatica. Conosceva i meandri e le arguzie giuste. Le acque sante dell’arte et similia. Era abile ad ascendere e poi a ridiscendere per finta, giusto per divulgare e porre la sua firma in calce.
La mostra pareva dispiegarsi all’infinito, in quel tunnel. Nell’Italia miserrima del 2052, che si arrabattava tra problemi di sopravvivenza, non si rinunciava all’arte.
Agnolo osservava compunto le opere esposte lungo le pareti screpolate, radi coagularsi di epifanie.
C’era ora un pollo morto su uno spiedo virtuale. Sembrava un rifiuto ma era, con ogni evidenza, “il portato raccolto di un subliminale della materialità. L’eccedenza materica che trova un riscontro nella marginalità dell’apparire, più che dell’essere.”
Porzio aveva decretato.
Le sue sentenze lo spaventavano, ma Agnolo voleva ingraziarselo, perché non c’era altra speranza per lui. Essere all’altezza di un esistere collettivo, pienamente umano, significava passare per quelle durezze della ricezione. Si trovava molto in basso, mentre l’altro era così in alto, e così inevitabilmente, quasi inconsapevolmente, felice di esserlo, che non si doveva turbarlo.
Agnolo quasi incespicò su alcune pietre sporche di sterco di gallina. Anche quelle, in verità, costituivano un manufatto. Se ne accorse perché Porzio si fermò ad osservarle, ridanciano. Vi riconosceva, come un compagno di merende di vecchia data, il supremo umorismo dell’artista, che giocava al ribasso, dimostrando concretamente come le alte vette fossero soltanto un sogno delle basse, o viceversa.
“Prigionieri di visioni reciproche, che possono risolversi soltanto nell’eso-sè artistico”.
Agnolo annuì, continuando a imparare.
In fondo al tunnel di sicuro attendeva il bel mondo, la congrega ammaliata dei critici, i giornali, forse la BBC. Quel camminamento sfidava il concetto di “galleria d’arte” in modo tale che il quasi buio che lo caratterizzava era quanto mai allusivo. Faceva credere di vedere e invece impediva la percezione del noùmeno, delegando all’esterno, nella quotidianità assolata del surriscaldamento globale, l’abbagliante certezza dei confini.
L’odore di pollaio era un’altra decontestualizzazione, spiegava Porzio. Il riappropriarsi dei materiali, dei colori e degli odori della realtà consentiva il salutare distacco dai limiti della gerarchizzazione dei valori, estetici e non. C’era da essere profondamente certi del passo avanti che quella mostra permetteva.
Poi arrivarono di fronte ad alcune uova nella cornice di triangoli di pan carré. Una era rotta e lo sporco sull’asfalto pareva muco rappreso. Le altre erano invece intatte. Le macchie sulla parete facevano pensare a una recente colluttazione con lancio di uova in quantità. Era una composizione eterogenea. Il combinato scultoreo-pittorico esprimeva il ritorno indefettibile dell’eterno dilemma dell’uovo e della gallina. E, nello stesso tempo, ne dimostrava l’ineffabilità, quindi l’inconsistenza.
“Vedi… l’uovo rotto. L’inattingibilità del costrutto naturale, ovvero l’impossibilità di svolgere logiche convincenti, nelle diramazioni che dall’istante del Big Bang pervengano all’attuale cristallizzazione.”
Agnolo lo guardò ammirato. Ammazza, pure il Big Bang. Del resto era lui che non aveva saputo vedere, cogliere.
Si erano alzati di buon’ora per recarsi in quel luogo, per assorbirne le valenze, le illuminazioni, le quintessenze. Lui era lì per imparare, ancora e ancora. Quando mai si era mobilitato per un obiettivo più reale, più nobile di questo? Porzio gli sorrise assolutorio. Era proprio un bel momento della loro unione solidale. Un’esaltante tappa di un’improvvisata, forse incongrua, amicizia.
Poi uscirono dal tunnel. Agnolo annaspava con lo sguardo. Guardava, di nuovo pronto ad immedesimarsi.
Ma a quel punto qualcosa non tornava.
Non c’era nulla di quanto si era aspettato e l’altro si mostrava più spiazzato di lui, anzi, incapace nascondere la collera improvvisa.
Stretti, accaldati attorno ad uno spiazzo, si vedeva una massa di uomini privi di sorriso, che si spintonavano e insultavano l’uno con l’altro. Era sabato sera. Molta gente povera, da quelle parti, doveva anelare a tutto questo, intrepida, durante la settimana.
Erano sbucati in una gallera.
Un luogo di terra battuta e di alberi, di aria umida e orizzonti densi. Agnolo non vide più il suo Virgilio, la cui smentita non poteva essere più incresciosa.
E quando, dopo un poco, non ancora riavutosi dallo stordimento, discostò lo sguardo, li poté osservare, i galli.
Precipitati piumosi di aggressività inaggirabile, usciti dalla notte dei tempi, ignari, per scannarsi vicendevolmente, con arpioni metallici incollati alle zampe, senza l’onore di una rivolta disperata contro il pubblico carnefice, nel frattempo intento a giocarsi la settimana, la macchina o magari la moglie.
Nel pollaio collettivo, Agnolo vide infatti una sola donna. Stava in disparte, imbarazzata, sventagliandosi. Allora si ricordò di se stesso, della maschera di inettitudine che lo aveva protetto dalla consapevolezza, quella vera. E distolse lo sguardo, per non piangere.
“Certamente! Andiamo.”
Agnolo seguì Porzio verso l’antro che gli aveva indicato. Era quello, dunque, l’ingresso della galleria d’arte.
Dentro faceva molto più fresco. Le pareti di roccia erano umide, stillanti umori.
“Sgorganti confluenze parallele in alvei futuri.”
La voce di Porzio risuonò autocompiaciuta e perentoria.
Agnolo, dall’inizio di quella giornata, come sempre, si era sforzato di assecondare il suo fausto mentore. E ora attendeva rassegnato lo scaturire, nella semioscurità, di nuove prove di forza.
Perché doveva capire. Prima capire, poi imparare. Lapalissiano. Porzio, invece, forte del suo approfondimento, sia pur nella precarietà delle sue possibilità di espressione, comprendeva tutto. Trovava in quanto vedeva più che altro delle conferme.
L’uno era un poveraccio, l’altro un Dio in Terra, o poco meno.
Agnolo arrancava pieno di buona volontà, sbrindellato, con un cappello a larghe falde schiacciato sulla fronte da cui debordavano riccioli stantii.
“Devo imparare, devo imparare.”
L’amico era più alto e di una lungimiranza quasi estatica. Conosceva i meandri e le arguzie giuste. Le acque sante dell’arte et similia. Era abile ad ascendere e poi a ridiscendere per finta, giusto per divulgare e porre la sua firma in calce.
La mostra pareva dispiegarsi all’infinito, in quel tunnel. Nell’Italia miserrima del 2052, che si arrabattava tra problemi di sopravvivenza, non si rinunciava all’arte.
Agnolo osservava compunto le opere esposte lungo le pareti screpolate, radi coagularsi di epifanie.
C’era ora un pollo morto su uno spiedo virtuale. Sembrava un rifiuto ma era, con ogni evidenza, “il portato raccolto di un subliminale della materialità. L’eccedenza materica che trova un riscontro nella marginalità dell’apparire, più che dell’essere.”
Porzio aveva decretato.
Le sue sentenze lo spaventavano, ma Agnolo voleva ingraziarselo, perché non c’era altra speranza per lui. Essere all’altezza di un esistere collettivo, pienamente umano, significava passare per quelle durezze della ricezione. Si trovava molto in basso, mentre l’altro era così in alto, e così inevitabilmente, quasi inconsapevolmente, felice di esserlo, che non si doveva turbarlo.
Agnolo quasi incespicò su alcune pietre sporche di sterco di gallina. Anche quelle, in verità, costituivano un manufatto. Se ne accorse perché Porzio si fermò ad osservarle, ridanciano. Vi riconosceva, come un compagno di merende di vecchia data, il supremo umorismo dell’artista, che giocava al ribasso, dimostrando concretamente come le alte vette fossero soltanto un sogno delle basse, o viceversa.
“Prigionieri di visioni reciproche, che possono risolversi soltanto nell’eso-sè artistico”.
Agnolo annuì, continuando a imparare.
In fondo al tunnel di sicuro attendeva il bel mondo, la congrega ammaliata dei critici, i giornali, forse la BBC. Quel camminamento sfidava il concetto di “galleria d’arte” in modo tale che il quasi buio che lo caratterizzava era quanto mai allusivo. Faceva credere di vedere e invece impediva la percezione del noùmeno, delegando all’esterno, nella quotidianità assolata del surriscaldamento globale, l’abbagliante certezza dei confini.
L’odore di pollaio era un’altra decontestualizzazione, spiegava Porzio. Il riappropriarsi dei materiali, dei colori e degli odori della realtà consentiva il salutare distacco dai limiti della gerarchizzazione dei valori, estetici e non. C’era da essere profondamente certi del passo avanti che quella mostra permetteva.
Poi arrivarono di fronte ad alcune uova nella cornice di triangoli di pan carré. Una era rotta e lo sporco sull’asfalto pareva muco rappreso. Le altre erano invece intatte. Le macchie sulla parete facevano pensare a una recente colluttazione con lancio di uova in quantità. Era una composizione eterogenea. Il combinato scultoreo-pittorico esprimeva il ritorno indefettibile dell’eterno dilemma dell’uovo e della gallina. E, nello stesso tempo, ne dimostrava l’ineffabilità, quindi l’inconsistenza.
“Vedi… l’uovo rotto. L’inattingibilità del costrutto naturale, ovvero l’impossibilità di svolgere logiche convincenti, nelle diramazioni che dall’istante del Big Bang pervengano all’attuale cristallizzazione.”
Agnolo lo guardò ammirato. Ammazza, pure il Big Bang. Del resto era lui che non aveva saputo vedere, cogliere.
Si erano alzati di buon’ora per recarsi in quel luogo, per assorbirne le valenze, le illuminazioni, le quintessenze. Lui era lì per imparare, ancora e ancora. Quando mai si era mobilitato per un obiettivo più reale, più nobile di questo? Porzio gli sorrise assolutorio. Era proprio un bel momento della loro unione solidale. Un’esaltante tappa di un’improvvisata, forse incongrua, amicizia.
Poi uscirono dal tunnel. Agnolo annaspava con lo sguardo. Guardava, di nuovo pronto ad immedesimarsi.
Ma a quel punto qualcosa non tornava.
Non c’era nulla di quanto si era aspettato e l’altro si mostrava più spiazzato di lui, anzi, incapace nascondere la collera improvvisa.
Stretti, accaldati attorno ad uno spiazzo, si vedeva una massa di uomini privi di sorriso, che si spintonavano e insultavano l’uno con l’altro. Era sabato sera. Molta gente povera, da quelle parti, doveva anelare a tutto questo, intrepida, durante la settimana.
Erano sbucati in una gallera.
Un luogo di terra battuta e di alberi, di aria umida e orizzonti densi. Agnolo non vide più il suo Virgilio, la cui smentita non poteva essere più incresciosa.
E quando, dopo un poco, non ancora riavutosi dallo stordimento, discostò lo sguardo, li poté osservare, i galli.
Precipitati piumosi di aggressività inaggirabile, usciti dalla notte dei tempi, ignari, per scannarsi vicendevolmente, con arpioni metallici incollati alle zampe, senza l’onore di una rivolta disperata contro il pubblico carnefice, nel frattempo intento a giocarsi la settimana, la macchina o magari la moglie.
Nel pollaio collettivo, Agnolo vide infatti una sola donna. Stava in disparte, imbarazzata, sventagliandosi. Allora si ricordò di se stesso, della maschera di inettitudine che lo aveva protetto dalla consapevolezza, quella vera. E distolse lo sguardo, per non piangere.
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