Ian McDowell smosse la
terra in modo da ricoprire i semi che aveva piantato nel terreno. Non era un
agricoltore esperto, non si era occupato mai molto nemmeno di giardinaggio, ma
quel lavoro gli toccava. Doveva farlo. Prese l'annaffiatoio e bagnò la terra
smossa.
Su questo punto aveva
avuto una discussione con il professor Wilson. Quelli erano semi che venivano
dal deserto, ma secondo il professore, l'ultima volta che le piante di quella
specie erano germogliate, la regione non era affatto desertica, e quei semi
avevano bisogno di acqua.
L'uomo non si soffermò a
contemplare il proprio lavoro, si avviò verso il fondo del giardino, dove aveva
legato Wolf alla cancellata metallica. Il grosso pastore tedesco aveva il pelo
ritto ed emetteva un ringhio sommesso.
Da quando Ian era
tornato, l'animale si comportava in modo strano. L'uomo lo guardò: aveva il
pelo ritto e non smetteva di emettere un ringhio sommesso come se si trovasse
di fronte a una minaccia.
McDowell si mise a
carezzarlo lentamente sotto la gola e a parlargli con dolcezza. L'animale parve
calmarsi.
“Forse Monique manca
anche a te”, disse l'uomo.
Prese Wolf per il
guinzaglio e rientrò in casa, nella casa che gli parve spaventosamente
silenziosa e vuota.
Varcata la soglia
dell'edificio, il cane ritornò tranquillo, ma non prima di essersi irrigidito
ed aver lanciato un ringhio rabbioso quando erano passati vicino al punto dove
Ian aveva piantato i semi.
Facendo una rapida stima
dei suoi averi e della sua vita, venne da pensare a Ian McDowell mentre si
sedeva sul divano del salotto davanti al televisore e il cane si accoccolava
sul tappeto vicino a lui, gli uni e l'altra si riducevano al congedo dai
marines dopo il servizio in Irak, un po' di incubi assortiti lasciati dalla sua
esperienza in quello che dopotutto era un teatro di guerra, una casa vuota e
una vita vuota. Sapeva che smessa l'uniforme avrebbe dovuto guardarsi in giro
per cercare un lavoro, costruirsi una nuova vita, ma non c'era una fretta
estrema, per il momento aveva un po' di soldi da parte.
Era peggio quel che era
successo alla sua vita affettiva durante quel periodo di servizio dall'altra
parte del mondo. Monique a un certo punto aveva smesso di rispondere alle sue
lettere e si negava al telefono, poi un giorno la posta aveva portato un
biglietto dal tono estremamente brusco in cui lei gli annunciava di essersi
innamorata di un tizio più danaroso di quanto Ian potesse mai sperare di
diventare, e che non si trovava in Medio Oriente con l'uniforme dei marines
addosso, ma a due isolati da casa. Non erano sposati, non si erano mai
preoccupati di regolarizzare la loro posizione, quindi arrivederci e grazie.
Per fortuna, si era almeno ricordata di affidare Wolf ai vicini di casa in
attesa del suo ritorno.
Era stato poco dopo aver
letto il biglietto di Monique che girando in libera uscita per le strade di
Baghdad, Ian si era imbattuto in quel ragazzino arabo che gli aveva venduto
quella strana anfora per quelli che per l'americano erano pochi spiccioli, ma
coi quali il furbetto levantino poteva far campare la famiglia per una
settimana.
Ian si era subito conto
che l'oggetto era antico, doveva provenire da qualche scavo archeologico
abusivo o magari essere stato sottratto a qualche museo. Normalmente l'avrebbe
consegnato ai propri superiori, ma in quel momento, dopo essere stato scaricato
da Monique a quel modo, aveva la sensazione che la vita gli dovesse qualcosa:
quell'anfora, decise, era il bottino della sua esperienza militare, la sua
personale preda bellica. L'aveva contrabbandata negli Stati Uniti al suo ritorno
a casa, fidando che i bagagli di un veterano al ritorno in patria non sarebbero
stati sottoposti a un esame troppo approfondito.
Tornato a casa, Ian si
era rivolto al professor Wilson, l'insegnante delle scuole medie, l'uomo più
colto che conoscesse, chiedendogli se a suo parere aveva messo le mani su
qualcosa di valore oppure no.
Aveva fatto venire
l'insegnante a casa sua per mostrargli l'anfora e l'uomo si era precipitato,
gli brillavano gli occhi per l'eccitazione da appassionato di cose antiche.
Tuttavia, a guastargli la festa, Ian dovette notare lo strano comportamento di
Wolf che si mise a ringhiare furiosamente contro l'anfora. Dovette chiuderlo
nello stanzino.
Il professore aveva
esaminato l'oggetto attentamente.
“Intanto questa non è
un'anfora”, aveva sentenziato.
“Ah, no?”, aveva chiesto
Ian, “E che cos'è?”
“Beh”, aveva risposto
Wilson, “Semplicemente un contenitore, un vaso, un orcio. Noi tendiamo a
chiamare anfora qualsiasi coccio antico, ma le vere anfore, quelle che si
usavano ad esempio per il trasporto del vino, erano molto più grandi e
ingombranti, certo non saresti riuscito a metterne una in valigia”.
“Ah si”, aveva replicato
l'ex marine per nulla impressionato dallo sfoggio di erudizione, “E quanto
pensa che possa valere?”
“Questo è difficile da
dire”, rispose il professore, “Vede, si tratta di un tipo di vaso, di orcio
molto comune, del tipo che nella regione è stato usato per millenni, e non
presenta decorazioni particolari, certo, se lo avesse ritrovato in situ invece
che averlo acquistato da un tombarolo, sarebbe diverso, almeno vi sarebbe stata
maggiore probabilità di poterlo datare con una certa sicurezza”.
Ian provò un po' di
delusione.
“Ha provato a esaminare
il contenuto?”, chiese il professor Wilson.
L'ex marine scosse il capo.
“No, guardi”, disse,
“Dal peso, ci deve essere qualcosa dentro, ma l'imboccatura è come cementata”.
L'insegnante tornò ad
esaminare il vaso.
“No”, disse, “Quello che
chiude l'imboccatura mi pare che sia solo un tappo di cera molto, molto
vecchio. Se lei è d'accordo, potremmo rompere il tappo e vedere cosa c'è
all'interno”.
Ian aveva sgombrato un
tavolo, vi aveva messo sopra una tovaglia di plastica, poi il professore si era
messo al lavoro: aveva rotto il tappo con un coltello, poi con l'aiuto di uno spazzolino,
si era messo a vuotare metodicamente il vaso del suo contenuto.
Nel momento preciso in
cui Wilson ruppe l'antico sigillo di cera, dallo stanzino dove Wolf era
rinchiuso, giunse un ringhio furibondo, che sembrò diventare l'ululato di una
bestia selvaggia, per poi scemare in qualcosa di simile a un guaito di paura.
Man mano che il
professore procedeva con il lavoro, Ian McDowell sentiva crescere la delusione,
gli sembrava che dal vaso uscisse soltanto terriccio.
“C'è solo sporcizia!”,
commentò.
“Ma no”, disse il
professore, “guardi qui, questi sono dei semi”.
“E allora?”
“Questo oggetto viene da
Baghdad, giusto?” replicò Wilson, “Lei certamente sa che Baghdad si trova a
due passi dalle rovine dell'antica Babilonia, è probabile che il vaso e il suo
contenuto provengano da lì. Vede, nell'antichità Babilonia era famosa per i
giardini pensili, considerati una delle meraviglie del mondo. Pensile, come sa,
vuol dire appeso, quindi letteralmente “giardini appesi”. Storici, archeologi,
scienziati stanno discutendo da generazioni per capire di che cosa si
trattasse. Sarebbe un colpo di fortuna incredibile poter risolvere il mistero”.
Ian indicò uno scaffale
a muro. Era stato concepito per essere adibito a libreria, ma ospitava dei DVD
e alcuni soprammobili, non era che la lettura fosse una delle massime passioni
del padrone di casa.
“Quello è un pensile”,
disse, “E non vedo cosa ci sia di tanto eccezionale”.
Il professore sorrise
con aria divertita.
"Mio caro”, commentò,
“Nell'elenco delle sette meraviglie del mondo antico c'era anche la piramide di
Cheope, che è l'unica che è giunta fino a noi. Le faccio notare che però
nell'elenco non sono state incluse le altre due piramidi della piana di Giza,
quelle di Chefren e di Micerino, e neppure la sfinge. Crede proprio che si
sarebbero disturbati a includere nell'elenco i giardini babilonesi se fossero
stati delle semplici terrazze fiorite? C'è qualcosa che ci sfugge. Forse
“pensili” è un errore di traduzione, e la parola aveva un altro significato. Io
purtroppo non conosco abbastanza le lingue antiche per condurre ricerche in
merito”.
“Tutto questo è molto
interessante, professore”, aveva risposto Ian, “Ma cosa ha a che vedere con
noi?”
“Beh, è probabile che
questi semi vengano da piante che si trovavano in questi giardini. Capire che
piante fossero ci aiuterebbe a risolvere il mistero”.
“Ma sono semi vecchi di
migliaia di anni”, aveva replicato Ian,
“Ebbene, mio caro”,
aveva risposto il professore, “E' sorprendente quanto a lungo i semi possano
conservare la loro vitalità, forse saprà che sono stati seminati dei chicchi di
grano ritrovati nelle tombe egizie, e sono germogliati. Io proverei senz'altro
a seminarli e a vedere cosa spunta fuori”.
E si mise a parlare con
aria ispirata di una monografia che avrebbe mandato a “Scientific American” e a
“Nature”, naturalmente facendo il nome di Ian McDowell. Gli orti botanici di
tutto il Paese si sarebbero contesi le piante nate da quei semi a suon di
mazzette di dollari, ci sarebbero stati fama e denaro per entrambi.
Questo era un argomento
che toccava direttamente il cuore di Ian, non era molto interessato alle
questioni scientifiche, ma ai dollari si, eccome!
Tutto questo era
avvenuto il giorno prima. Ian si era procurato un manuale di giardinaggio, del
concime e degli attrezzi, e aveva piantato gli strani semi in un angolo del
giardino davanti alla casa, giardino di cui fino ad allora non si era occupato
molto, se non per tosare l'erba quando minacciava di diventare troppo alta e
troppo fitta, ma ora era il momento di farsi venire il pollice verde, verde
dollaro, sperava.
Aveva notato con
curiosità anche il cambiamento nel comportamento del cane: ora Wolf ignorava
l'anfora od orcio o che diavolo fosse, a cui aveva trovato una collocazione
come soprammobile in salotto, e riservava tutta la sua ostilità all'angolo del
giardino dove Ian aveva piantato i semi.
Ian aveva atteso con
impazienza diversi giorni per vedere se qualcosa sarebbe spuntato, e che cosa.
Finalmente notò un germoglio, una sorta di gemma verde che usciva dal suolo.
Almeno uno dei semi aveva attecchito, ma era difficile capire di che cosa si
trattasse, bisognava pazientare.
Ian dedicò nei giorni
seguenti tutte le sue attenzioni alla piccola pianta che si stava sviluppando.
L'unica cosa che lo lasciava perplesso era il fatto che Wolf evitava
accuratamente di avvicinarsi a quell'angolo del giardino.
Il piccolo germoglio
verde si schiuse, dipanando una raggiera di foglie lunghe e sottili che a Ian
parvero simili a quelle di un'agave in miniatura, tranne per il fatto che
apparivano molto più flessibili, come dei tentacoli di un minuscolo polipo
vegetale.
Continuò a innaffiare e
concimare la piantina che – gli parve – cresceva a un ritmo veloce, come una
pianta di zucca.
"Ancora un poco”,
pensava, pregustava già il momento in cui avrebbe chiamato i giornalisti a
fotografare quella strana cosa che cresceva nel suo giardino.
Lo notò qualche giorno
più tardi: un grosso insetto, un moscone si era posato su una delle foglie, e
ora si divincolava nel tentativo di staccarsene senza riuscirci, come se la
superficie verde fosse diventata all'improvviso appiccicosa, poi la raggiera di
foglie si richiuse sull'insetto inglobandolo.
“Una pianta carnivora”,
pensò, ma l'idea non gli dispiaceva, con tutti gli insetti che c'erano nel giardino!
La pianta cresceva in
fretta, forse troppo. Qualche giorno più tardi, Ian trovò nei pressi della
pianta, in quello che doveva essere un cumulo di resti non digeriti sputati dal
mostriciattolo vegetale, qualcosa che gli parve lo scheletro tutto rotto e
schiacciato di una lucertola.
La signora Blake era
furente. A Ian non era mai piaciuta quella donna, una vedova anziana e acida
che abitava dirimpetto alla casa dell'ex marine, una che sembrava essere
infastidita dai bambini che giocavano nei cortili, dai ragazzi che il sabato
sera si scambiavano effusioni negli androni bui, oppure tenevano la musica un
po' alta, una che quando era halloween sbarrava porte e finestre, che pareva
occuparsi solo dell'interminabile serie di centrini e lavori all'uncinetto di
cui riempiva casa sua, e pareva provare affetto solo per Odile (che nome
ridicolo), il suo gatto persiano grasso grosso e peloso.
“L'ho visto
chiaramente”, stava dicendo la donna, “Ieri sera ho visto Odile che entrava nel
suo giardino, e da allora non l'ho più visto, ed è un animale che torna sempre
a casa quando è ora di cena”.
“Signora”, replicò Ian
per l'ennesima volta, “Non l'ho visto, non ne so nulla”.
“Stia attento”, rispose
lei, “Se gli è successo qualcosa, gliela farò pagare!”
Congedata bene o male la
vicina sempre furente, Ian McDowell scese in giardino.
Come immaginava, vicino
alla pianta che era cresciuta un bel po', trovò i resti del gatto: le ossa
tutte disarticolate e schiacciate, e matasse di pelo arruffate che erano quanto
rimaneva del lungo manto dell'animale.
Il giorno dopo, Ian
McDowell lo trascorse per quasi tutta la giornata nella città vicina, dove
aveva due incontri per un posto di lavoro. Rientrato mentre già imbruniva,
chiamò Wolf che aveva lasciato libero in giardino.
“Wolf, bello, vieni qui,
bello!”
Contrariamente al
solito, non ottenne alcuna risposta.
Di colpo ebbe un
sospetto atroce, come se una mano gelida gli avesse all'improvviso stretto il
cuore.
Corse nell'angolo dove
c'era la pianta esotica nata da un seme venuto dall'antica Babilonia. La pianta
era stretta a bocciolo con tutte le foglie serrate. Da quel cumulo vegetale
sporgeva una zampa di Wolf. Nonostante tutta la sua diffidenza, l'animale
doveva essere passato troppo vicino a quell'orrore verde.
Era troppo!
Che il professor Wilson
dicesse quello che voleva, quella cosa doveva essere distrutta, e subito!
Andò in garage e prese
l'ascia, deciso a fare a pezzi quella mostruosità vegetale. Si avvicinò alla
pianta.
La mostruosità verde
parve reagire alla sua presenza, sembrò che sputasse la carcassa del povero
Wolf, poi le foglie simili a tentacoli scattarono attorcigliandosi attorno alle
gambe di Ian.
Era come cercare di
liberarsi dalle spire di un pitone, stringevano ed erano terribilmente forti.
Diavolo, l'ascia sembrava inutile per tagliare le foglie-tentacoli, era come se
la lama fosse fatta di gomma.
D'un tratto capì: il
professor Wilson dopotutto aveva ragione, doveva esserci stato un errore di
traduzione, quelli babilonesi non dovevano essere giardini pensili, ma giardini
prensili.
Le foglie-tentacoli gli
si avvolsero attorno al busto e al capo, schiacciandolo e soffocandolo.
Davvero uno splendido racconto. Mi è piaciuto e mi ha tenuta avvinta una parola dopo l'altra. Complimenti!
RispondiEliminaBel racconto !!!
RispondiEliminaI miei complimenti!
Coinvolgente. Molto bravo.
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