Elmer Huges aveva il colletto della camicia e le
ascelle intrisi di sudore. Nel suo ufficio, in effetti, ci sarebbe stata l'aria
condizionata, ma per Elmer tenerla chiusa era quasi una questione di principio,
aveva notato che spesso, passando accaldati dall’ambiente esterno alla gelida
atmosfera di questa, si contraeva qualche malanno con estrema facilità;
preferiva il piccolo ventilatore da tavolo di cui poteva regolare la velocità
delle pale e la distanza dalla propria persona.
In quel momento, però, non era il clima afoso a
preoccuparlo. Aveva appena rimesso a posto con stizza la cornetta del telefono.
Sua moglie Ethel, naturalmente. Lo voleva al più
presto a casa per far andare il barbecue e per i fuochi artificiali. Altrimenti,
aveva detto la donna, gli ospiti ci sarebbero rimasti malissimo, e che razza di
quattro luglio sarebbe stato?
Ma perdio! Il direttore del New York Times, uno dei
più importanti quotidiani del pianeta, aveva anche delle responsabilità!
La composizione del numero che doveva andare in
edicola l’indomani sui stava rivelando una faccenda più complicata del
previsto. Era la solita disgrazia dei mesi estivi: la politica andava in
vacanza, lo sport pure; anche i fattacci della cronaca cittadina si diradavano
per il fatto stesso che la città si svuotava, perché moltissimi buoni
newyorchesi se ne andavano a godersi le ferie un po’ dappertutto, nelle
località balneari, in Florida, in California, dappertutto dentro e fuori degli
“States”, ai quattro angoli del mondo.
Ci sarebbe voluta una qualche crisi internazionale, ma
la situazione era insolitamente tranquilla anche da quel punto di vista. Non
restava che puntare sui pezzi “di colore”, le notizie più curiose che
importanti, quelle che nei mesi invernali ben difficilmente avrebbero trovato
spazio sulle pagine del giornale.
Diede nuovamente una scorsa al pezzo di Miles Andrews;
non lo soddisfaceva per niente.
Miles era un bravo ragazzo, uno che si era laureato
col massimo dei voti, ma secondo Huges non era un “vero” giornalista. Sarebbe
potuto diventare un buon critico letterario o un analista economico, ma gli
mancava quel guizzo, quello “shining” indefinibile che fa il giornalista di
razza: o ci si nasce, o lo si acquisisce facendo anni di gavetta fra i commissariati,
gli ospedali e gli obitori.
Miles Andrews si sentiva disorientato. Il capo l’aveva
spedito ad intervistare quel tale, il professor Everett Robertson nella
speranza di cavarne fuori un pezzo “di colore”. Non era il tipo di lavoro che
lo entusiasmasse, ma in genere sapeva come condurre la cosa: si era ritrovato
già altre volte ad intervistare inventori o ricercatori eccentrici, i cui
titoli accademici erano di solito inventati o molto meno clamorosi di quel che
appariva a prima vista. Di solito finiva per trovarsi in qualche antro buio con
un tizio dalla barba lunga e gli occhi spiritati davanti ad un apparecchio su
cui danzavano spie luminose dai colori più svariati e su cui ruotavano delle
sfere metalliche, e non si capiva bene cosa faceva, o meglio cosa il suo
inventore pretendeva che facesse, perché in concreto non faceva mai nulla
tranne accendere luci e girare palline.
Che Everett Robertson non facesse parte di quella
categoria di svitati, forse di nessuna categoria di svitati, parve a Miles Andrews
piuttosto evidente.
Secondo le informazioni che Miles aveva raccolto,
Robertson era docente associato in un’università; non di grandi dimensioni, non
uno degli atenei più autorevoli, ed il suo incarico non era dei più
prestigiosi, ma, a differenza degli sbiellati di cui si era occupato in
precedenza, faceva comunque parte del mondo accademico, e già questo bastava a
dargli una credibilità che costoro non avevano.
Il palazzo dove si trovava l’abitazione di Robertson
contribuiva a confermare la stessa idea: uno stabile dignitoso, di certo non
lussuoso ma nemmeno l’antro spettrale che era in genere il rifugio dei
derelitti fuori dal mondo con qualche venerdì mancante.
La donna che era venuta ad aprirgli, la signora
Robertson, appurò, era una donna un po’ in età vestita in maniera sobria ma non
trasandata che, accompagnandolo nello studio del marito, gli chiese se
desiderasse una tazza di thè.
La casa non era grande ma arredata con buon gusto.
Miles notò addossate alle pareti diverse file di scaffali piene di libri, come
ci si poteva aspettare da un docente.
Everett Robertson, che lo sapettava, l'accolse con una
stretta di mano e lo fece accomodare: era un uomo di mezza età e dai capelli
grigi, di quella che Miles avrebbe detto – e definì nel suo articolo – una
maturità vigorosa. Sebbene avesse lo sguardo vivace incorniciato da un paio di
occhiali dalla montatura classica e la fronte alta da pensatore, non aveva
l'aria del classico studioso:la sua complessione fisica faceva pensare a
qualcuno che facesse molto moto. In ogni caso, non ricordava per nulla gli
spiritati di cui Andrews si era occupato in passato.
“Come lei sa”, esordì, “Io sono un geologo e,
diciamolo pure, la geologia è una scienza di frontiera”.
“La geologia una scienza di frontiera?” L'idea stupì
Miles.
“Negli ultimi anni ho molto lavorato con colleghi
paleontologi, sa, per la datazione degli stati fossiliferi. Diciamo che il mio
campo è proprio alla frontiera fra lo studio della materia inerte e quello
degli organismi ... beh, diciamo biologici, perché il termine “vivente” è
inappropriato per creature che hanno cessato di vivere da migliaia o milioni di
anni”:
“Ah, ... capisco!”
“Un paio di anni fa”, proseguì Robertson, “Ero il
geologo di una spedizione in Alaska, affiancavo i colleghi paleontologi che
cercavano resti di mammut ed altra fauna dell'età glaciale. I colleghi si
occupavano dei fossili, io degli strati sedimentari e della loro datazione.
E' stato un lavoro che mi ha permesso di scoprire cose
molto interessanti. Noi tutti ci immaginiamo che i mammut fossero animali
adattati ad un clima glaciale: la loro folta pelliccia e le condizioni
climatiche attuali delle regioni dove troviamo i loro resti, ci traggono in
inganno, ora, se lei ci riflette, questo
è impossibile: animali di quella mole avevano bisogno per sostentarsi di
quantità di foraggio non minori degli elefanti attuali, non potevano certo
sopravvivere con i licheni, i muschi, la rada vegetazione di piante nane che
sitrova oggi nella tundra artica.
Poiché i corpi di quelle creature sono stati spesso
conservati da un congelamento improvviso,
le posso dire che parecchie volte è stato trovato intatto il contenuto
dei loro stomaci e delle loro bocche, e si tratta di vegetazione simile a
quella che oggi cresce nelle zone temperate.
Tutti gli indizi che abbiamo a disposizione tendono a
suggerirci che quindicimila anni fa all'incirca, mentre l'Europa occidentale e
la parte orientale dell'America del nord erano coperte da un'immane lastra di
ghiaccio, l'Alaska e la Siberia godevano di un clima mite che permetteva la
sopravvivenza di una vegetazione rigogliosa ed il sostentamento di immensi
branchi di grandi animali. Poi è successo qualcosa che ha posto fine all'età
glaciale nelle regioni oggi temperate e trasformato l'Alaska e la Siberia in una
tomba gelata.
Le faccio notare che la stessa cosa è avvenuta
nell'emisfero australe: le analisi geologiche sulle coste dell'Antartide hanno
dimostrato la deposizione di sedimenti a grana fine tipici delle foci di grandi
fiumi che dovevano scorrere liberi da ghiacci, fino a 15.000 anni fa”.
“Allora lei pensa che ...”, lo interruppe Miles.”
“Io penso che qualunque cosa sia avvenuta, deve essere
stata una catastrofe improvvisa; se vi fosse stato un peggioramento graduale
delle condizioni climatiche, animali come i mammut od i rinoceronti lanosi non
avrebbero avuto difficoltà a migrare altrove”.
“E lei di cosa pensa che si sia trattato?”, chiese
Miles.
“I miei colleghi paleontologi non avevano una
risposta, ma io si”.
Prese un foglio e lo tese a Miles; riproduceva una
sezione schematica del globo terrestre.
“Mi permetto”, disse, “di rinfrescare le sue nozioni
di fisica. Man mano che si scende verso l'interno del nostro pianeta, aumentano
sia le condizioni di temperatura sia di pressione. Temperatura e pressione
agiscono come due forze antagoniste: a parità di pressione, un aumento della
temperatura tende a far passare i corpi da solidi a liquidi, da liquidi a
gassosi; a parità di temperatura, la pressione produce l'effetto contrario
portando i corpi da aeriformi a liquidi, a solidi. L'equilibrio di queste due
forze antagoniste fa sì che le condizioni all'interno del nostro pianeta siano
affatto particolari. La parte più esterna è costituita da due strati di
materiale solido: la crosta su cui poggiamo i piedi e il mantello. Al disotto è
liquido: roccia fusa ad altissima temperatura, il magma. Dove il mantello è più
sottile, il magma riesce ad infiltrarsi verso la superficie e dà origine ai
vulcani. Verso il centro del nostro pianeta, l’enorme pressione ha la meglio
sulla sia pur altissima temperatura, e c’è di nuovo un nucleo solido.
Ora lei certamente sa che esiste il fenomeno della
deriva dei continenti. I continenti galleggiano letteralmente sulle placche
della crosta terrestre come su zattere alla deriva, che ogni tanto si scontrano
e si uniscono oppure si fratturano e si allontanano, ma un fenomeno come la
deriva dei continenti non può spiegare ciò di cui abbiamo trovato le tracce in
Alaska, è troppo lento, impiega tempi lunghissimi, è apprezzabile solo nell’arco
dei milioni di anni”.
Everett Robertson s’interruppe e trattenne per un
momento il fiato, come se fosse arrivato al momento di una rivelazione clou.
“Immagini qualcos’altro”, disse, “Immagini che
l’intera crosta terrestre possa scivolare sulla parte liquida, sullo strato di
magma sottostante. Il paragone che mi viene in mente è con un uovo, o con
un’arancia se fosse possibile staccare la buccia dagli spicchi senza romperla.
Immagini che un simile spostamento possa prodursi all’improvviso, lungo archi di
tempo non prevedibili. Questo spiegherebbe tutto, non le pare? Uno slittamento
simile si sarebbe verificato quindicimila anni fa. Quella che allora era una
regione temperata del nostro pianeta si sarebbe di colpo trasformata in un’area
polare, mentre terre che fin allora si trovavano oltre il circolo polare, si
sarebbero trovate in una posizione molto più favorevole, ed avrebbe avuto
inizio la deglaciazione”.
L’espressione di Miles Andrews era perplessa.
“Vedo che lei non è convinto”.
Robertson prese dal ripiano della scrivania un altro
piccolo plico: fogli pinzati assieme, le fotocopie di un articolo.
“Dia un’occhiata a questo”, disse, “Legga i passi
sottolineati con l’evidenziatore”.
iles Andrews scorse velocemente il pezzo: era un
articolo di “Scientific American” dal numero del dicembre 1985, era firmato
Peter H. Schulz e parlava della geologia di Marte. I crateri meteorici polari
hanno caratteristiche particolari perché le meteoriti precipitano su depositi
di polvere e ghiaccio. Si potevano riconoscere, sosteneva Schulz, fuori dagli
attuali circoli polari marziani, due altre zone simili.
“Si tratta di due zone diametralmente opposte”, lesse
Miles, “Sono situate l’una agli antipodi dell’altra. I depositi rivelano
numerosi processi e caratteristiche simili ai poli attuali, ma le due zone sono
situate in prossimità di quello che oggi è l’equatore”.
In pratica, sosteneva lo scienziato, gli antichi poli
marziani erano scivolati in prossimità dell’attuale equatore del pianeta. In
sostanza, si era verificato:
“Lo slittamento dell’intera litosfera, la parte solida
esterna del pianeta, come un’unica placca”.
“Ci rifletta un attimo”, disse Everett Robertson, “Se
un fenomeno di questo genere si è verificato su Marte, perché non sarebbe
potuto accadere su questo pianeta? La differenza fra Marte e la Terra è che,
avendo il Pianeta Rosso una massa che è un terzo di quella terrestre, ha
perduto il suo calore interno milioni di anni fa, ed oggi Marte è un mondo
geologicamente morto, ma sappiamo con certezza che un tempo non era così: la
più grande formazione vulcanica del sistema solare, il monte Olympus si trova
proprio su Marte”.
“Mi pare di aver capito”, disse Miles Andrews, “Che la
maggior parte dei suoi colleghi geologi non condivide queste sue idee”.
“Mi stupirei del contrario”, rispose Robertson con una
punta di sarcasmo, “Guardi, la gente spesso s'immagina che la ricerca
scientifica sia una spassionata indagine sulla realtà condotta raccogliendo
dati e confrontando teorie; mi creda, non è così: essa ha gli stessi vizi di
tutte le attività umane. Ci sono scuole, tradizioni di pensiero che sostengono
il loro punto di vista anche contro l'evidenza fino a che gli è possibile.
Quando iniziò a formarsi una scienza
geologica e paleontologica nel XVIII secolo, e si cominciarono a
scoprire conchiglie marine in cima alle montagne, si pensò di spiegare tutto
con catastrofi immani, sismi giganteschi, sprofondamenti ed innalzamenti
improvvisi di montagne. Poi, alla metà del XIX secolo arrivò Charles Lyell che
persuase tutti che quei fenomeni che mettevano tanto in imbarazzo i suoi
predecessori potevano essere spiegati dalle stesse forze che vediamo all'opera
oggi: gli agenti atmosferici e le forze tettoniche dal passo lentissimo che si
snoda attraverso i milioni di anni. Tutto ciò era giusto in linea di principio,
ma ha finito per convertirsi in un dogmatismo. Lei oggi sentirà la schiacciante
maggioranza dei geologi sostenere che non si è mai potuta verficare alcuna
grande catastrofe improvvisa di nessuna specie, anche di fronte a prove
tangibili che dicono esattamente il contrario”.
Elmer Huges aveva riletto per l'ennesima volta
l'articolo di Miles Andrews; no, non andava bene un accidente. Il ragazzo
doveva fare un pezzo “di colore” e invece aveva preso dannatamente sul serio le
teorie di quel professore del cavolo.
Peggio, il pezzo era deprimente, suggeriva o meglio
esponeva con convinzione l'idea di una spada di Damocle che pendeva sul capo di
tutti, una catastrofe enorme che non si poteva prevedere né prevenire, e che in
qualsiasi momento avrebbe potuto colpire all'improvviso, spazzando via tutti
come i mammut siberiani.
Guardò l'orologio: il tempo stringeva. A casa la
moglie, i figli, i nipoti l'aspettavano perché esercitasse il suo ruolo di
domestico patriarca nella giornata di festa, per dare il via al rito del
barbeque ed a quello, atteso soprattutto dai ragazzi, dell'accensione dei
petardi.
Si guardò intorno: sebbene l'ufficio fosse ampio ed
elegantemente arredato, gli parve freddo e squallido come non mai.
Prese una decisione: se avesse dovuto rifare
l'impaginazione del giornale, avrebbe dovuto passare lì l'intera serata e parte
della notte. Non che di notti in bianco a comporre il numero dell'indomani ne
avesse poche alle spalle, ma proprio per questo voleva passare a casa almeno la
sera del quattro luglio.
“Ma si”, pensò, “Le pagine interne hanno pochi lettori
attenti; al massimo domani dovrò rispondere a un paio di lettere di protesta”:
Schiacciò un pulsante dell'interfono.
“Tipografia? Allora ok per l'articolo di Andrews. Con
questo il numero è chiuso. Io me ne vado a casa. Buon quattro luglio, ragazzi!”
Chiuse la comunicazione ed uscì dall'ufficio. Percorse
un breve corridoio e raggiunse l'ascensore che portava al pianterreno. Gli
sembrava quasi di sentire già il profumo ed il sapore della carne arrostita
sulla brace.
Successe mentre l'ascensore scendeva a pianterreno.
Una scossa improvvisa, un ondeggiamento violento come se una mano gigantesca
avesse afferrato la cabina dell'ascensore e l'avesse scossa vigorosamente.
Elmer Huges si trovò di colpo proiettato a tutta
velocità in avanti, contro la porta metallica della cabina. Batté la testa,
faceva un male atroce ma almeno non aveva perso conoscenza. C'era il dolore ed
anche il fastidio del sangue che gli colava fin sugli occhi dal largo taglio
che si era fatto sulla fronte.
C'è un motivo per cui sconsigliano di usare
l'ascensore durante un terremoto: se la cabina si blocca, può diventare una
trappola mortale. Ma se un povero disgraziato aveva la sfortuna di trovarvisi
dentro proprio al momento della scossa?
La cabina dell'ascensore si era bloccata, Elmer Huges
non sapeva esattamente a che altezza, e nessun pulsante funzionava: l'impianto
elettrico doveva essere andato.
Fu preso dal terrore all'idea di morire per
soffocamento all'interno di quella specie di bara metallica, poi si accorse che
fra le due ante della porta dell'ascensore si scorgeva una sottile fessura.
Si avvicinò e vi introdusse le dita. Con sforzo, le
due ante cedettero e la fessura si allargò ad una trentina di centimetri, poi
si bloccò. L'urto doveva aver deformato le ante o le guide su cui scorrevano.
“Almeno non morirò soffocato”, pensò Huges, ma
stranamente l'idea non riuscì a farlo star meglio: se non riusciva a trovare il
modo di tirarsi fuori di lì, poteva restare forse giorni in attesa di soccorsi
che non era detto arrivassero in tempo, e intanto morire di fame e di sete.
“Questi edifici dovrebbero essere antisismici”, pensò
con stizza. Era vero che la scossa era stata estremamente violenta.
Cercò di introdursi quanto poteva nella fessura;
ovviamente non c'era spazio a sufficienza per passare, ma poteva fare forza con
le spalle e le ginocchia nel tentativo di far cedere la porta ancora un po'.
Premette a lungo con le spalle sempre più doloranti,
una dura lotta della carne contro il metallo.
Alla fine, con uno schianto secco le ante cedettero
ancora un po', abbastanza da poter passare comprimendo il corpo allo stremo, ma
c'era un altro ostacolo: la cabina si era fermata a metà fra due piani ed il
pavimento del piano superiore era al disopra dell'altezza delle spalle di
Huges. Occorreva issarsi a forza di braccia, cosa più facile a dirsi che a
farsi se non si era più giovanissimi e si aveva condotto una vita
prevalentemente sedentaria.
Al terzo o quarto tentativo, l'uomo riuscì ad
appoggiare i gomiti al pavimento del piano, quindi ad issarsi facendo leva,
un'impresa che ordinariamente non gli sarebbe riuscita se l'istinto di
sopravvivenza non avesse inondato il suo corpo di adrenalina.
Era fuori dall'ascensore alla fine: dolorante, con gli
abiti strappati e le mani insanguinate, ma libero. Non riuscì a mettere a fuoco
l'interno dell'edificio né a capire di quale entità fossero i danni; gli pareva
di trovarsi all'interno di una vasta caverna buia e silenziosa.
A tentoni, trovò le ultime rampe di scale e riuscì a
scenderle. Ora era al pianoterra nell'atrio del palazzo. Una luminosità
grigiastro-lattigginosa segnalava l'ingresso dell'edificio. Pochi passi che ad
Elmer Huges sembrò di impiegare secoli a compiere, e fu all'aperto.
Una parte di lui gli diceva di tornare indietro,
rientrare nell'edificio, vedere se c'era ancora una redazione in grado di
funzionare, e preparare a tamburo battente un'edizione speciale sul terremoto
appena avvenuto, un'altra parte gli diceva di correre subito a casa a vedere
come stavano i suoi familiari, ma una terza vocina nella sua testa – ancora più
maligna – gli stava insinuando il sospetto che forse non aveva più un giornale
né una casa né una famiglia.
Alzò gli occhi verso il cielo. D'improvviso si rese
conto che era buio. Non c'erano luci accese: fin dove si poteva scorgere
spingendo lo sguardo sull'immensa area newyorchese, non si scorgeva una sola
luce accesa; solo, a varie distanze, dei barbagli rossastri che si andavano
espandendo, dovevano essere degli incendi.
Non fu questo però a sconcertare Elmer Huges, l'aveva
messo per così dire in conto se la città era stata colpita da un sisma di
grandi dimensioni. No, quel che lo lasciò attonito fu il fatto che il cielo era
buio. Era normale che fosse già così buio a nemmeno le otto di sera in luglio?
Mentre restava col naso all'insù, cominciò ad
avvertire una sensazione di freddo che non era soltanto psicologica, e si
faceva sempre più intensa. L'aria era diventata fredda, dannatamente gelida.
La neve aveva cominciato a cadere a larghe falde.