Mi trovo in uno spiazzo
assolato e polveroso. La luminosità improvvisa m’induce a sbattere le palpebre. Sono sul
ciglio di una strada, una strada bianca non asfaltata, una striscia di polvere
giallo – rossastra
che comincia nel nulla e si perde nel nulla solcando un piatto paesaggio color
ocra quasi privo di vegetazione tranne che per un paio di cactus e qualche
cespuglio spinoso e rinsecchito.
Affacciate sulla
strada, molto diradate, ci sono alcune casupole malmesse, praticamente delle
rovine.
Mi guardo intorno
incerto sul da farsi, quando sento un rombo di motori in avvicinamento.
Tutt’a un tratto li vedo comparire come
sputati dal deserto, una carovana di veicoli che si avvicina rapidamente. I più sono vecchie auto scassate, ma
filano come diavoli.
Mi guardo intorno in
cerca di un riparo, inutilmente.
Mi metto a correre
verso la bicocca più vicina che,
lo so, è dannatamente
lontana.
Non sono passati che
pochi secondi, che sento le prime raffiche di pallottole fischiarmi alle
spalle.
Ma chi, mi chiedo, ha
dato a quel gruppo di scalmanati un nome lezioso come Sugarland Express?
Mentre corro a zigzag
per evitare le pallottole, riesco ad intravederli: sono uomini e donne a bordo
di vecchie auto. Vestiti con abiti stracciati e variopinti, che impugnano un
assortimento di armi da fuoco del genere più svariato: pistole, vecchi fucili da
caccia, mitragliette.
Sapevo già in partenza che la mia corsa era
inutile: svariate pallottole mi colpiscono alle gambe, alle cosce, alla
schiena, e fanno male, fanno male!
Il dolore mi esplode
intenso in ogni parte del corpo. Sussulto e mi accascio al suolo.
Quando mi riprendo, mi
sollevo a fatica, stupito di non trovarmi tracce di sangue addosso.
Adesso il paesaggio è cambiato, sono le rovine di una
città, queste:
carcasse di automobili, mozziconi di muri, una distesa di rovine e di rottami
come di una città su cui
qualcosa fosse passato con un’enorme furia
devastatrice.
Ad un tratto lo vedo
sbucare all’orizzonte,
parzialmente nascosto da uno scheletro di grattacielo per alcuni momenti: è una cosa enorme, una macchina
aliena, qualcosa che trasmette la sensazione di non essere stato creato da
esseri umani, un tripode “marziano” che avanza pesantemente facendo
crollare con il suo urto e schiacciando i brandelli di muro ancora in piedi.
Corro a rannicchiarmi
tra le rovine nella speranza irragionevole di non essere stato notato.
Naturalmente è inutile: quello continua a puntare
dritto su di me, guidato da un senso che non è la vista, forse un senso termico, un
rilevatore a infrarossi. Allora esco dal mio nascondiglio e mi metto a correre.
Il tripode sembra
goffo, una massa di acciaio torpido, ma le sue dimensioni gli permettono di
compiere falcate enormi con ciascuna delle sue tre lunghissime gambe; oltre
tutto, si muove come se il paesaggio fosse completamente sgombro, calpestando e
riducendo in polvere ogni ostacolo al suo passaggio.
Non potendo batterlo in
velocità, di nuovo
fuggo zigzagando fra le rovine. È inutile, la macchina mostruosa si fa di
secondo in secondo più vicina.
Ricordo con un moto d’ironia che questa sezione è chiamata La guerra dei mondi. Se davvero una guerra è stata combattuta contro affari del
genere, non deve aver avuto storia.
Pochi secondi ancora, e
il tripode mi è addosso, una
delle sue enormi zampe cala su di me con tutto il suo peso, mi schiaccia. Il
dolore è atroce in
ogni fibra del mio essere. Prima di essere ridotto in poltiglia, ho ancora il
tempo di gustarmi lo strazio e l’urlo di dolore di ogni cellula del mio
corpo torturato. Se avessi voluto sapere cosa prova un insetto quando viene
calpestato, potrei dire di essermi tolto la soddisfazione.
Quando mi riprendo, non
sono più piatto di
prima dell’incontro con
il tripode. L’ambiente è di nuovo cambiato: sono sempre
rovine urbane quelle che mi circondano, ma appaiono meno distrutte e disastrate
di prima, siamo in un luogo diverso, forse un’epoca diversa: le strade sono più strette, le case, o quel che ne
resta, più addossate le
une alle altre. Ci sono molti muri in piedi con i vani delle finestre che
occhieggiano come le occhiaie vuote di un teschio che fissano il nulla.
Soprattutto è diversa l’atmosfera, grigia, opprimente, che
comunica un senso di soffocamento.
Istintivamente mi
guardo le mani: sono diventate anch’esse di un grigio plumbeo, qui attorno non
c’è proprio
nulla che abbia colore.
Mi sposto nel silenzio
innaturale. C’è un oggetto
che attira la mia attenzione nel grigio, nell’assenza totale di colore che mi circonda:
una macchia rossa. Mi avvicino e lo raccolgo in mano: si tratta di un
cappottino da bambina abbandonato.
D’un tratto una reminiscenza mi sale
alla mente: questa dev’essere la
sezione Schindler’s List.
Sono trascorsi ancora
pochi secondi quando sento un rumore di passi cadenzati; militari che marciano
in formazione. Cerco di allontanarmi senza fare rumore. Odo una voce concitata
che dà ordini
secchi in una lingua che non riesco a capire.
Cammino in silenzio,
rasente ai muri delle case, tentando di allontanarmi senza essere visto e senza
fare rumore.
Ad una svolta da dietro
l’angolo di una
casa, me li trovo quasi addosso. C’è più di una pattuglia, a quanto pare, stanno
meticolosamente rastrellando tutta la zona: uomini in divisa nera con un
teschio d’argento sul
berretto.
Il graduato in testa
alla colonna mi intima seccamente: «Halt!»
Non ci penso nemmeno,
mi giro sui tacchi e me la do a gambe con quanta energia ho in corpo.
Il graduato ordina: «Feuer!»
Anche se non conosco la
lingua, il significato mi pare fin troppo chiaro. Corro all’impazzata con il cuore che sembra
volermi scoppiare nella cassa toracica mentre le pallottole mi fischiano tutto
attorno.
Ho commesso un errore,
vado a sbattere quasi addosso a quelli dell’altra pattuglia che sono accorsi attirati
dagli spari. Mi trovo tra due fuochi senza nessuna possibilità di fuggire, di nascondermi, di
ripararmi in qualche modo.
Le pallottole
cominciano a piovermi addosso da una parte e dall’altra, colpiscono la carne e fanno male,
fanno male, spappolano ossa e tessuti, il dolore sale ad un’intensità atroce mentre perdo di nuovo
conoscenza.
Mi rianimo che sto già correndo. L’impressione che ho, è che sia stato proprio lo sforzo
muscolare che il mio corpo compiva già in automatico, a svegliarmi.
Mi trovo in una specie
di cunicolo di roccia, una sorta di galleria rovesciata, con la volta sotto i
miei piedi invece che in alto, un liscio cunicolo privo di asperità con le pareti che arrivano sopra
la mia testa, impossibili comunque da scavalcare. Al disopra vedo fuggevolmente
– noto tutto
questo senza interrompere la corsa – i rami di palma e le liane di una giungla
tropicale. Non perdo nemmeno un istante per voltarmi a guardare cosa c’è alle mie spalle, lo so fin troppo
bene ed il rumore mi avverte che si avvicina di frazione di secondo in frazione
di secondo: un macigno sferico perfettamente levigato che rotola dietro di me,
una gigantesca biglia di roccia che mi ricorda in tutto tranne che nelle
dimensioni la pallina di un flipper.
Rotolando acquista
sempre più velocità nel tunnel in discesa, mentre io
la perdo stancandomi. Ormai lo conosco, è quasi un rito, il “benvenuto” nella sezione Indiana Jones.
Ancora pochi attimi e l’inevitabile
accade: la grande biglia di pietra mi raggiunge e mi passa addosso: sono
tonnellate di roccia. In un attimo atroce di dolore indicibile, ho per la
seconda volta nella giornata l’esperienza di
quello che prova un insetto schiacciato sotto il tacco di un uomo.
Ancora una volta,
quando l’ondata di
dolore atroce e la perdita di coscienza passano, sono stupito di trovarmi in un
corpo illeso.
C’è della luce che piove dall’alto, un’apertura in una sorta di soffitto
molto lontano parecchi metri sopra di me. Sono in un ambiente chiuso od in un
grande edificio senza porte e senza finestre con l’unica luce che proviene dall’apertura lassù in alto, oppure all’interno di un ipogeo, un’enorme caverna o una galleria,
magari una gigantesca tomba monumentale.
Tra il soffitto in alto
ed il pavimento sul quale poggio i piedi, intravedo delle gigantesche colonne.
Per un po’ resto in
attesa: qui è tutto
silenzioso e sembra non debba accadere niente, poi sento un fruscio ai miei
piedi. Li intravedo confusamente nella luce incerta, ma non ho dubbi: serpenti,
centinaia di serpenti di tutte le dimensioni, alcuni piccoli, altri lunghi un
metro e spessi come il mio braccio, il pavimento dell’ipogeo ne è letteralmente tappezzato, e si
dirigono verso di me, forse attratti dal mio calore corporeo.
Guardo la colonna più vicina a me: è liscia, praticamente non offre
appigli, ma è l’unica via di scampo.
Adesso mi ricordo che
questa sotto – sezione
della sezione Indiana Jones è chiamata L’arca perduta; mah, se io avessi
perduto qualsiasi cosa, per quanto valore potesse avere, non mi metterei di
certo a cercarla qui.
Tento di arrampicarmi
sulla colonna. Fosse almeno più sottile, si
potrebbe salire come una pertica da palestra, ma fatico a cingerla con le
braccia.
Riesco ad alzarmi al
disopra del livello del suolo forse di un metro, un metro e mezzo, non di più. I serpenti sono arrampicatori più bravi di me, anche se non capisco
dove trovino appigli per le loro maledette spire.
Rifletto che il morso
di un serpente non può essere più doloroso delle pallottole o di un
macigno che ti schiaccia, ma questi piccoli mostri (alcuni non sono tanto
piccoli) aggiungono un elemento in più: la ripugnanza.
Quelle dannate bestie
si arrampicano con più velocità di quanto io riesca ad issarmi
sulla colonna. In pochi istanti arrivano a lambirmi i piedi. Una grossa biscia
mi sfiora la suola, e subito sotto di essa è un brulicare di teste triangolari. Biscia?
Mi sembra un anaconda od almeno un pitone.
Non riesco più a salire. Una, due, tre spire
serpentine mi si attorcigliano attorno alle caviglie, e dietro la prima bestia
altre mi salgono sulle gambe.
Presto sono avvolto da
centinaia di spire gelide. La pelle scagliosa di queste dannate bestie non è viscida, peggio, è ruvida come zigrino.
Poi con sorprendente
simultaneità, quei
piccoli demoni cominciano a mordere. Veleno a parte, è difficile credere che quelle
piccole bocche con denti sottili simili ad aghi, possano infliggere morsi tanto
dolorosi.
Il dolore sale
progressivamente d’intensità, diventando un’onda pulsante, mentre sento il mio
corpo gonfiarsi sotto l’effetto del
veleno d’innumerevoli
rettili. Per un tempo che mi sembra un’eternità, sono una vescica pulsante di sofferenza,
fino a quando perdo conoscenza in un ultimo, doloroso spasimo.
All’improvviso, sono di nuovo padrone
di me stesso, libero di muovermi. Sono sempre in un sotterraneo, ma più buio, più umido. Tendendo le braccia davanti
a me, poiché adesso non
riesco a vedere nulla, trovo il vuoto, la grande colonna a cui mi ero
abbracciato per sfuggire ai serpenti, è scomparsa.
Sempre procedendo al
buio, cerco di avanzare qualche passo con le braccia tese in avanti. C’è qualcosa che scricchiola sotto le
mie suole. Faccio qualche altro passo e non ho più dubbi; come mi muovo in qualsiasi
direzione, schiaccio qualcosa.
Adesso che i miei occhi
si sono abituati, incomincio ad intravedere una vaghissima penombra, qualche
sprazzo di una specie di luminosità grigiastra che mi permette appena di avere
una percezione vaga di ciò che mi
circonda. L’ambiente è molto più ridotto di quello in cui mi
trovavo prima, riesco appena ad intravedere degli spezzoni di muro che mi
sembrano corrosi e smozzicati, o forse sono delle stalagmiti enormi e tozze che
salgono dal pavimento di questa specie di buia cripta.
Man mano che avanzo,
noto che c’è qualcosa che
ostacola i miei movimenti, qualcosa che fa massa attorno ai miei piedi e alle
mie caviglie e riesco a spostare con sempre maggiore difficoltà.
Nel chiarore incerto,
mi pare di distinguere di essere arrivato ad un brandello di muro e, in modo
quasi istintivo, cerco di sfiorarlo con le braccia protese in avanti.
Con un modo istintivo
di disgusto, le ritraggo indietro quasi di scatto: le mie mani hanno incontrato
qualcosa di viscido, di viscido e gommoso, qualcosa dal corpo segmentato che si
muoveva a scatti, una grossa scolopendra, direi.
Ad un tratto capisco dove
mi trovo, urlerei dalla nausea e dal disgusto se servisse a qualcosa: questa è sempre la sezione Indiana Jones,
sotto-sezione Il tempio maledetto. Non so se questo luogo sia mai stato davvero
un tempio, ma maledetto lo è di certo, e
capisco cos’è che mi si
sta ammassando attorno alle caviglie ed ai polpacci: insetti. Sono così tanti che non riesco più a muovere le gambe. All’improvviso sento qualcosa che mi
arriva sulla testa. Piovono dall’alto come una cascata, come una repellente
doccia di materia organica, di vita nauseabonda.
Sento migliaia di
zampette chitinose e di addomi flaccidi che mi toccano in ogni parte del corpo,
non mordono e non pungono, forse avranno mandibole e pungiglioni, ma a
differenza dei serpenti dell’Arca perduta,
non ne fanno uso, e questo in un certo senso è ancora peggio.
Ormai sono
letteralmente conficcato in questa repellente massa viva che si accatasta
sempre di più, non arrivo
a muovere le gambe, poi nemmeno il bacino e il busto, adesso più nemmeno le braccia, e faccio
fatica a respirare mentre la montagna di carne viva e disgustosa sale sempre di
più attorno a
me.
Sebbene mi senta
soffocare, mentre la marea d’insetti,
lombrichi, scolopendre, millepiedi mi sale fino al collo, mi sforzo di non
urlare, di reprimere l’istinto che
spinge a spalancare la bocca quando ci si sente soffocare, perché non voglio trovarmi in gola quelle
schifose creature.
E’ senz’altro vero quel che si dice, che la morte
per soffocamento sia una delle più orribili che esistano, qualcosa contro cui
si batte tutto il tuo essere. Resisto fino a che posso, cercando di respirare
solo con le narici la poca aria disponibile, anche se mi sembra che pure dentro
le narici comincino ad infilarsi alcuni piccoli insetti, forse formiche. Mi
trattengo fino a che non ne posso più, poi spalanco la bocca in un ultimo
frenetico tentativo di respirare, con il risultato di trovarmi la gola piena di
un orrendo boccone d’insetti.
Soffoco, per un lungo,
interminabile istante esperimento tutto l’orrore dell’asfissia, poi svengo di nuovo. Quando mi
riprendo sono ancora in un sotterraneo, ma ancora una volta diverso. C’è luce, riesco a vedere dove metto i
piedi, e non ci sono insetti. In compenso, fa freddo, un freddo dannato che mi
fa battere i denti e scendere brividi lungo la schiena, in più è anche maledettamente umido, c’è umidità gocciolante dappertutto, pare di
essere in una caverna sotto il fondo di un lago, o magari fra le fondamenta
corrose di qualche antico porto, e soprattutto c’è fetore, un tanfo disgustoso di morte e di
decomposizione.
Propendo per il fatto
di trovarmi in un ambiente marino: sebbene si distingua molto a fatica,
infatti, c’è un certo
sentore di salsedine che si mescola al lezzo di cose decomposte che impregna
questo luogo. Magari sono finito in una cloaca là dove liquami organici di dubbia
provenienza si scaricano in mare.
Cammino in avanti nella
luminosità incerta fino
a quando intravedo; per essere sincero, me ne accorgo quando vado a sbattere il
ginocchio contro lo spigolo di uno di essi, degli oggetti oblunghi di forma e
dimensioni che li rendono inconfondibili: non c’è dubbio, sono delle sepolture, degli
avelli, dei sarcofagi, mi trovo in un cimitero, o più probabilmente in qualche cripta
sotterranea sotto qualche chiesa in una località marina.
La memoria mi torna di
colpo: mi trovo sempre nella sezione Indiana Jones, nella sotto – sezione L’ultima crociata (ma chi diavolo avrà inventato questi nomi
pittoreschi?). So già quello che
mi sta per accadere, e non mi piace per nulla!
Sento un debole scalpiccio avvicinarsi nella
mia direzione: piccoli piedi veloci e felpati. Altri scalpiccii, quasi echi del
primo, convergono a raggiera verso di me, so già di cosa si tratta ancor prima d’intravedere le sagome basse ed
allungate che scorrazzano nella penombra: topi, dapprima una dozzina, poi
centinaia che corrono famelici verso di me. Maledicendo il mio animale istinto
di sopravvivenza che m’induce a
prolungare quella che è solo un’inutile agonia, salto sul coperchio
di un sarcofago, che in pochi istanti diventa una specie di isola circondata da
un mare di schiene dal pelo bruno.
Naturalmente, non ho
guadagnato che qualche istante, forse un secondo, forse meno; i topi cominciano
a loro volta a saltare sul sarcofago.
Comincio a ributtarli
indietro a calci, centro il primo con una pedata, poi un altro, un altro
ancora, poi sento gli incisivi di un roditore piantarmisi nella caviglia.
Le bestiacce saltano a
gruppi sulla lastra di pietra, e non riesco a tenerle indietro anche se scalcio
e mi divincolo come un forsennato, sono tanti, tanti. Come hanno fatto i
serpenti e poi gli insetti, mi risalgono a frotte su per le gambe e poi per il
busto, fino a che non riesco più a muovermi,
e mordono, mordono. Lentamente, ancora una volta, il dolore di sentire il mio
corpo dilaniato da centinaia di minuscoli denti a scalpello cresce d’intensità fino ad un parossismo
insopportabile. Non so quanto tempo dura realmente questa tortura, ma a me
sembra un’agonia
interminabile.
E’ quasi peggio che morire soffocati
sentire il proprio corpo strappato via brandello per brandello. Il dolore delle
carni lacerate sale poco per volta ad un’intensità parossistica. E’ solo dopo un’altra, atroce, interminabile
agonia, che finalmente perdo di nuovo conoscenza.
Quando rinvengo,
l'ambiente è di nuovo
radicalmente cambiato. Questa volta sono in pieno sole e fa caldo, un caldo
terrificante. Dopo il gelido sotterraneo di poco fa, lo shock termico è fortissimo. Ho l'impressione di
essere sul punto di ripiombare nuovamente nell'incoscienza, ma invece rimango
sveglio e lucido.
Apro gli occhi e mi
guardo lentamente in giro. A quanto posso vedere, il mio corpo è sempre lo stesso: non ci sono né morsi di serpente né punture d'insetto e nemmeno morsi
di topo. A proposito d'insetti, ne sento ronzare molti intorno a me, ma ho
l'impressione che stavolta il pericolo non verrà da loro.
Mi guardo intorno: c'è una vegetazione lussureggiante, la
si potrebbe definire una giungla se le piante non fossero tutte piuttosto
basse. Vedo che la maggior parte sono felci di svariate dimensioni, alcune
gigantesche, poi ci sono delle conifere dai rami stranamente contorti, delle
araucarie, credo, e quella specie di asparagi formato gigante dovrebbero essere
degli equiseti. Un brivido mi corre per la schiena, so dove mi trovo: non ci
sono latifoglie, piante da fiore, questo è un paesaggio giurassico. Sono arrivato
nella stramaledettissima sezione Jurassic Park.
D'un tratto, prima
ancora di scorgerlo, avverto le vibrazioni che i suoi passi poderosi imprimono
al terreno, ed intravedo come un'ombra grigia che ingigantisce rapidamente, la
mostruosa figura che avanza verso di me puntando imperterrita proprio nella mia
direzione: una massa di ossa, muscoli scattanti, zanne affilate come pugnali, fame
e bramosia sanguinaria, un tirannosauro rex.
Fuggire non avrebbe
alcun senso, quel mostro è in grado di
raggiungere la velocità di sessanta
chilometri orari. Mi dovrei nascondere da qualche parte, ma dove?
Mi tuffo senza
convinzione in una macchia di felci particolarmente fitte, sperando senza
troppa convinzione che il gigantesco predatore non mi abbia notato.
In pochi attimi il
tirannosauro è qui,
dovunque sia questo dannato “qui”, ed è incredibile quanto possa essere veloce una
bestia di questa mole. Vedo il muso gigantesco che sfiora la vegetazione. Ha
fiutato la mia pista e mi sta cercando?
Mi ritrovo la sua bocca che mi sfiora quasi, mentre sono
protetto solo da un lieve strato di rami di felce. Sto guardando il più possente predatore che sia mai
esistito, con i suoi occhietti rossicci da rettile nei quali mi pare di leggere
una ferocia atavica, e una chiostra di denti simili a stalattiti ed affilati
come pugnali a pochi centimetri dalla mia faccia.
Si dice che il Tirannosaurus
rex abbia uno dei migliori olfatti fra tutte le creature di questo pianeta,
ma io mi domando come faccia ad avvertire un qualsiasi altro odore che non sia
quello del suo fiato pestilenziale, un agghiacciante fetore di morte e
decomposizione. Probabilmente negli interstizi alla base di quelle terrificanti
zanne che passano così vicine alla
mia faccia da farmi gelare il sangue, ci sono i residui putrescenti dei suoi
precedenti pasti.
Improvvisamente l'orripilante creatura alza la testa come
annusando il vento per cercare la pista, poi si rizza completamente sulle
enormi zampe posteriori e si guarda in giro.
Non deve avermi visto né fiutato, devo aver avuto una fortuna
sfacciata se è vero quel
che ho sentito dire dei sensi di questi esseri terrificanti.
Si allontana a grandi passi pesanti che ogni volta fanno tremare
il terreno.
Faccio appena in tempo ad emettere un sospiro di sollievo,
quando mi accorgo che le grandi macchie di felci sono piene di squittii, di
versi che sono stranamente a metà fra il cinguettio degli uccelli e lo
squittio di certi piccoli mammiferi. Il sottobosco è anche pieno di fruscii che si
avvicinano a me da tutte le direzioni.
Non faccio in tempo ad alzarmi, che una piccola figura uscita
dalle fronde delle felci mi salta addosso.
Tento di rimettermi in piedi, ma quello non mi molla, si è piantato sul mio petto con gli
artigli delle zampe posteriori, che sono dannatamente aguzzi.
Subito, cinguettando allegramente, un'altra piccola creatura mi
salta sulle spalle, sono dei procompsognatus,
degli stramaledettissimi compy.
Questi maledetti sono animali da branco, come i topi che ho
incontrato nel fetido sotterraneo dell'Ultima
crociata, ed hanno le stesse intenzioni di quegli schifosi roditori. Da
solo, uno di loro non sarebbe molto pericoloso, ma sono tanti, tanti, tanti,
sono i ratti di fogna del giurassico.
Adesso capisco l'errore che ho commesso: avrei dovuto aspettare
il tirannosauro a pie' fermo e lasciarmi sbranare da lui, sarebbe stata una
morte più rapida, meno
dolorosa. E' chiaro che chi ha programmato tutto questo si sta prendendo gioco
di me.
Mi saltano addosso in tanti, ficcandomi le loro unghie affilate
nelle carni, fino a ricoprirmi completamente ed impedirmi di muovermi, poi,
come ad un segnale convenuto, cominciano a mordere. Di nuovo un'altra agonia di
dolore crescente, parossistico mentre le mie carni vengono lacerate brano a
brano da quelle piccole creature. Un'altra agonia interminabile. Di nuovo il
dolore sale fino ad un acme insopportabile, poi sprofondo nell'incoscienza.
Lentamente ritorno in me. Sono nella penombra, in posizione
distesa.
Guardo quasi con sollievo le grigie pareti che ormai, giorno
dopo giorno, mi sono divenute così familiari. Si, non c'è dubbio, sono nella mia cella, ed a
giudicare dall'incerta luminosità, dovemmo essere nelle ore serali.
Per oggi il “trattamento” è finito. Sul mio corpo non c'è alcun segno della spaventosa
giornata che ho trascorso, spaventosamente simile a tutte quelle che l'hanno
preceduta da moltissimo tempo in qua, ed a tutte quelle che la seguiranno in un
incerto avvenire, presumibilmente fino al termine della mia esistenza, ma i
segni, le piaghe aperte che non si vedono nel corpo rimangono nell'anima,
aggravate dalla consapevolezza, che è come sale sulle ferite, che non posso fare
nulla per sottrarmi a questo destino.
Domani, domani mi rinchiuderanno di nuovo in quell'armatura che è una sofisticata evoluzione del
guanto e del casco che si usavano nei primi tempi per immergersi nella realtà virtuale, e vedrò, sentirò, toccherò esattamente quello che i miei
aguzzini hanno programmato per me, patirò di nuovo tutta la sofferenza che vogliono
infliggermi; una raffinatezza della tecnologia che però, per certi versi, ricorda tanto
l'antica Vergine di Norimberga, il sarcofago chiodato.
Ma ora, ma ora mi godo il momentaneo sollievo. Tra poco il
carceriere Schiller verrà a passare il
vassoio con quella sbobba che danno per cena nell'apposito spioncino
dell'inferriata. Oh, mi vogliono sano e ben nutrito, vogliono tenermi con loro
molto a lungo.
Immagino che ogni sistema che vuole impedire ai propri cittadini
di pensare liberamente, abbia bisogno di posti come questo, come esempio da far
gelare il sangue nelle vene ai più audaci. E' strano, sono sicuro che nel XIX
secolo la realtà virtuale non
esisteva, che non c'erano nemmeno i computer più primitivi, eppure un patriota italiano
dell'epoca, Silvio Pellico, lasciò un racconto della sua detenzione in questo
carcere che commosse il mondo intero, un luogo con un nome da far tremare le
vene e i polsi, lo Spielberg.