Saliva dal cortile un odore di
caldarroste. L’aria era immota, gradevolmente tiepida, e il sole già si
eclissava dietro le colline.
Il Conte Monaldo chiuse la finestra. Ormai
l’atmosfera del salottino si era rinnovata e adesso potevano bere in santa pace
la loro cioccolata. La moglie Adelaide, già seduta al tavolino, armeggiava con
il servizio di porcellana.
- Marito mio, siete servito. Non indugiate,
altrimenti si raffredda.
Bofonchiando, lui si sedette, stringendosi
nella giacca da camera.
- Codesta recente abitudine della
cioccolata alle cinque – disse il conte - comincia a disturbarmi l’appetito per
la cena. Ma tant’è. Il piacere deve avere pure i suoi costi.
- Bevete, bevete. Il potere di questa
bevanda è comprovato: stempera le malinconie, tonifica il fegato e corrobora il
cuore. Ma con moderazione, certo. Dopotutto la nostra pratica non è quotidiana.
Di sabato e di lunedì non la beviamo; e neppure il venerdì, essendo il giorno
della passione di Nostro Signore Gesù Cristo. In tale misura la cioccolata è
portatrice di sano e moderato piacere, lecito in ogni caso e gradito allo
spirito.
- Adelaide, voi vedete tutto attraverso la
lente della virtù.
- L’unica visuale che ci è consentita.
- D’accordo – fece Monaldo, afferrando la
tazza fumante. – Che dire allora degli abitanti della lontana Albione? Essi
prendono puntualmente il tè alle cinque di ogni sacrosanto giorno dell’anno.
Capisco che il piacere che arreca quella bevanda non è equivalente a questo
della cioccolata. Eppure essi l’accompagnano sovente con biscottini burrosi,
pastarelle, tortine e quant’altro. Tutto cibo che appesantisce il corpo e
ottenebra la mente.
Adelaide fece una risatina. – Certo il
pericolo cui vanno incontro gli inglesi risulta evidente. Ma non sono forse
essi scomunicati dalla nostra Santa Madre Chiesa Romana?
- Non tutti, mia cara, non tutti.
- Coloro che rispondono al Papa faranno
certamente le debite penitenze, per la gloria del Signore.
Sorseggiarono la loro cioccolata in
silenzio.
Fu dopo un bel momento che Adelaide
estrasse un foglio di carta dalla manica dell’abito. - Mi sembra il momento
adatto per sentire un vostro parere su questo componimento.
- Di che si tratta? – fece Monaldo con
noncuranza, posando la tazza sul tavolino.
- D’una strana poesiola del nostro
Giacomo.
- Ve la diede egli stesso? – domandò il
conte, con un certo stupore. – Mi sembra egli geloso delle sue composizioni. Di
recente tralascia gli studi e la seria erudizione per scrivere cosucce che son
forse una perdita di tempo. – Scosse il capo. – Mia cara, non sarete voi
complice della sua vanità?
- Dio me ne guardi! – esclamò lei,
irrigidendosi. – Non vedo pur io di buon occhio il perdersi di Giacomo dietro
l’idea d’anteporre l’invenzione propria e peregrina allo studio de’ classici.
- Quindi…
- Quindi non fu egli a parlarmene. Fui io
a ritrovarla, in un angolo del suo scrittoio. La copiai su un altro foglio ed
eccola qui, pronta per essere riletta.
- Sentiamo.
- Premetto, signor marito, che essa è un
poco strana. Oh, non nella forma, ch’io tra l’altro non son atta a giudicare.
Ma il suo contenuto, ricopiandola, ha suscitato i me un certo straniamento.
Lesse:
Qual
diletto da queste carte,
ond’io al fioco lume
per lenir l’intime mie
piaghe vo traendo,
se poi inquieto
s’abbandona l’animo mio
vagheggiando un ben più giovevole fruire
di questo nobile
sapere?
Sogno fu, quello,
oppur visione?
Dire non so, or che il
petto trema
ancora al suo ricordo.
Vidi non più fogli e ponderosi tomi,
non più cartacei
documenti
ma lo scibil tutto
antivedetti:
li pensieri antichi e
quelli nuovi che il mondo
ogn’or va visitando,
offrirsi al desioso intelletto
con novella forza
inusitata.
E l’onirico nume, che
visitar volle la mia anima sopita,
mostrommi qual
meraviglia fusse
lo pigiare un tasto e
riveder con luminoso arredo
offrirsi agli occhi
miei tristi e affaticati
ogni nozione
ogni opera
dell’italiche lettere e straniere
con prodigiosa
improntitudine e gaiezza.
(3 novembre 1817 –
notte)
Le parole risuonarono per un lungo momento
nel silenzio della stanza fiocamente illuminata.
- Versi davvero singolari… direi astrusi –
fece Monaldo, lasciandosi sfuggire un sospiro.
-
Come possono esserlo tutti quelli che parlano di sogni.
- Già, egli stesso lo dice. Com’era
scritto?
- “Fu sogno, quello, oppur visione”? –
rilesse Adelaide.
Il conte si passò una mano sul mento e
guardò la moglie con sguardo pensieroso. – Il nostro Giacomo forse è affaticato
da tanto studio. Ma proprio per questo dovrebbe dedicare il tempo libero a
qualche passeggiata per le vie di Recanati o pei campi, che ora si tingon di
gai colori, ancor non spogli e stretti nella morsa del gelo. Dedicarsi invece a
codesti passatempi letterari affatica il cervello, che dovrebbe avere, invece,
utile ristoro.
- Tanto più – lo incalzò la moglie – che
simili fantasie sono alquanto dispersive per l’animo, tanto più per quello del
nostro figliolo, così sensibile. Se invece di scrivere stupidaggini, orientasse
la mente e il cuore alla preghiera, andasse più assiduamente alle sacre
funzioni, ricaverebbe maggior giovamento per la salute sua del corpo,
dell’anima e della mente.
Ci fu un breve silenzio. Attraverso i
vetri baluginava il chiarore residuo del cielo occidentale. Poi il conte
Monaldo disse:
- Gli parlerò, ma senza alludere a codesta
strana e, lasciatemelo dire, insulsa composizione.
- Certo – approvò Adelaide, - tanto più
che il sospetto che io abbia rovistato fra le sue carte renderebbe me colpevole
di insana curiosità ai suoi occhi. Il che, per una madre premurosa, mi sembra
ingiusto. – Quindi si alzò e andò a tirare il cordoncino per chiamare la
domestica.
La quale prontamente arrivò.
- Questa sera – ordinò la signora –
mangeremmo volentieri, come dessert, due caldarroste con un bicchierino di vin
santo. Veniva dal cortile un buon profumino, poc’anzi. Non è vero, caro marito?
- Certo, Adelaide, certo… - mormorò
Monaldo soprappensiero.
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