Il fenomeno cominciò con un
leggero intorpidimento degli arti inferiori e superiori; il formicolio nato
pian piano divenne persistente e oltremodo irritante. La nebbia calò a poco a
poco sulla mente dell’uomo, e minuscoli puntini luminosi creati dall’alterata
circolazione sanguigna riempirono il casco pressurizzato.
La fine era vicina. Ne era certo.
Chiuse gli occhi nel vano tentativo di scacciare i puntini di luce che lo
ferivano, preannunciando la morte imminente. La riserva di ossigeno stava per
terminare; d’altro canto, gli avevano concesso di portare con sé una sola
bombola.
L’astronauta sospirò
impercettibilmente. Avrebbe potuto parlare, urlare, imprecare contro la mala
sorte fino a quando la voce l’avesse abbandonato, ma sarebbe servito soltanto
ad esaurire prima del dovuto l’ossigeno che ancora circolava nella tuta.
La tuta era la sua prigione, e lo
spazio infinito la tomba designata. Perché era un assassino che non aveva
mostrato il minimo rimorso per il feroce gesto compiuto. Aveva sgozzato il
compagno di cabina come si fa con le pecore al macello: senza rimorsi,
pentimenti o scrupoli di sorta. Il collega l’aveva insultato, e tanto gli era
bastato per recidergli la gola con un filo di ferro procuratosi chissà dove.
L’avevano processato, e
condannato alla morte più atroce che un astronauta possa sperimentare.
Asfissia, lenta ma inesorabile, nella solitudine del cosmo. L’avevano
scaraventato fuori dall’astronave come si fa con i rifiuti, decretando la sua
fine inevitabile e dolorosa. La bombola d’ossigeno, che aveva ottenuto
quando l’aveva chiesta,
serviva a prolungare l’agonia, rendendo la condanna ancora più crudele.
Ora andava alla deriva nella sua
prigione, senza meta né futuro, maledicendo gli uomini che l’avevano
condannato, ma non provando alcun rimorso per l’omicidio commesso. Tirò una
cordicella sottile, attorcigliata intorno all’indice della mano destra, e
cambiò direzione: aveva intravisto un asteroide vagante. Voleva raggiungerlo
prima che le forze residue venissero a mancare, prima che l’avvelenamento da
anidride carbonica gli facesse perdere i sensi.
Ci riuscì per una frazione di
secondo. Si accasciò sulla superficie butterata del piccolo corpo celeste come
un sacco vuoto, riuscendo ad esprimere soltanto un ultimo pensiero prima di
svenire.
L’avevano definito cuore di
pietra, intendendo insultarlo con questo epiteto. Non sapevano, però, di essere
nel giusto. E di non averlo insultato affatto.
Quando la coscienza tornò ad
affiorare in lui, l’essere era tornato alla sua forma originaria: un masso
oblungo di pietra dura, spigolosa e puntuta.
La sua avventura nel mondo degli
uomini era terminata. Ma il suo cuore di pietra avrebbe continuato a battere
per molto tempo ancora.
Bel raccontino di fantascienza classica, come piace a me.
RispondiEliminaPer associazione di idee ho pensato a "Il vagabondo dello spazio" di Fredric Brown.
Giuseppe Novellino
E' proprio quello a cui mi sono ispirata, grazie.
RispondiEliminaTeresa