Antenato monaco materno, morto in
monastero cistercense, lasciò in eredità al mio paterno nonno una vetusta
pergamena col titolo in gotici caratteri:
DE • INSULA • REMOTA
Alla scadenza esatta del quindicesimo compleanno, il nonno mi regalò la
preziosa pergamena su consiglio di mio padre, entrambi speranzosi d’invogliarmi
nello studio sia pur tardivo, del latino. Di recente, mi sono ancora cimentato
nella traduzione del vetusto testo, sia per curiosità, sia per rinverdire la
classica cultura. Mi sono infine accorto che vi si narra di una inesplorata
isola, visitata nei tempi andati da Goti fuggitivi. I fatti si riferiscono a
poco dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente: sanguinosi accadimenti, consequenziali
alla riconquista di Cartagine da parte dei Bizantini. Nel 533 dopo Cristo, le
milizie di Belisario distrussero Cartagine e fecero strage degli occupanti Goti.
Come ordinatogli da Giustiniano, il generale Belisario non solo distrusse la
città, ma sterminò i barbari che vi si erano insediati, compreso le donne, i
vecchi ed i bambini. I pochi superstiti riuscirono a prendere il mare aperto su
una vecchia trireme. I fuggitivi si portarono via l’ingente tesoro sottratto a
Roma da Alarico, nel 410 dopo Cristo. Come la pergamena dice, questo tesoro fu
nascosto non secondo la tradizione sotto il corso del Basento, ma in mare nei
pressi di una misteriosa isola, o insula remota
che suppongo sia l’ultima delle odierne Azzorre. Nella traduzione, ho lasciato
di proposito alcune brevi frasi in latino. Per pochi nomi comuni e propri come Gothi e monacho, ho rispettato la vecchia dicitura Alto-medioevale. Qua e
là, ho inserito le congiunzioni latine et,
o atque. Dove non capivo il senso
della frase, ho usato il termine quoniam coi punti sospensivi. Ecco
cosa il vetusto testo dice.
Alone lunare inargentava
l’acquosa et piatta distesa. Mi
ricordai di un vecchio detto latino:
Adspirant aurae in
noctem nec candidua cursus luna negat.
La prua della grande nave tagliò le
placide onde diretta ad occidente.
Mari undique et
undique coelum. Lucis egens aer.
Atterriti dalle stragi perpetrate dai legionari di Belisario in
Cartagine arsa, oltrepassammo le Colonne d’Ercole e virammo col vento amico verso
il grande Oceano. Scrutavamo atterriti se mai qualche nave romana c’inseguisse.
Ci ritenevano usurpatori dei territori imperiali nel nord-Africa, ma eravamo
pacifiche tribù provenienti da oltre il Danubio, scacciate dalla furia degli
Unni.
Quoniam…Al mattino del quarto giorno
di navigazione, s’intravide ad oriente ancora la costa piatta ed arsa della
Mauritania e ad occidente, solo la nebbiosa linea dell’orizzonte. Un improvviso
vento diresse la trireme nel grembo del grande Oceano, mai raggiunto dagli
umani. Povero monacho dei Gothi prigioniero, costretto a seguirli
nella rovinosa fuga da Cartagine, messa a ferro e fuoco, mi feci il signum
crucis e cominciai a pregare. La divinità che tutto regge accolse le
mie orationes
magna cum desperatione plenae.
Al crepuscolo dello stesso
giorno, mentre la pesante e vecchia trireme era sballottata delle gigantesche
onde senza direzione et meta, la vedetta gridò: “Le
isole, le isole…”
Ringraziai la sant.ma immago dell’Immacolata et statim ricordai il monitum
che l’Arcangelo Gabriele mi aveva detto in sogno et in aeterna ammonizione:
Chi ad altro tende
che non sia solo Dio e la salute dell’anima, non avrà che tribolazione e
dolore.
Al crepuscolo serale, ci fu calma piatta. Il
vento ed il mare avevano cessato le infernali, ma brevi sfuriate. Propinque
alla costa, spiagge deserte con candida ed immacolata rena. Oltre le vaste
radure sabbiose, palme di datteri e siepai intricati. In alto, volteggiavano
ancora grossi e sconosciuti uccelli. Si vedevano tre scure isole non distanti
tra loro, circondate da placida acqua, luccicante e trasparente. Colori fini et
alieni
et
cum maximo pavore, sembravano appartenere più all’Arte che alla natura,
più allo spirito che alla materia. Poteva essere che le silenziose ombre serali
significassero che il sospirato approdo fosse più un fatto miracoloso atque
eccelso che un evento del caso. I Gothi levarono un grido di gioia che trafisse la sera ed il silenzio
angoscioso. Igor, il capo dei Gothi, decise di approdare
sull’ultima delle tre isole, la più remota dalla Mauritania da cui cinque
giorni prima ci eravamo allontanati. Siccome era quasi notte, si decise di
aspettare il mattino seguente per il sicuro approdo. Nel frattempo, alcuni dei
più validi guerrieri erano scesi in mare. Per non affogare, si erano aggrappati
ad una specie di trave, calata apposta in acqua. Enim, i guerrieri avevano
risalito la spiaggia sabbiosa e legato con una lunga fune la prua agli alberi
di datteri più vicini. Enim, alcuni dei Gothi avevano dormito in spiaggia con una
sentinella di turno, ma la maggior parte, compreso le donne ed i bambini
avevano dormito sulla nave. A turno anche sulla prua della nave, una vedetta di
guardia restò. Dulcis et clara et serena fu l’alba rosata et la verde, iridescente
boscaglia dell’isola extrema ebbe la
freschezza dell’anima pura, timorata dal Creatore. All’alba del giorno dopo,
Igor fece calare sul bagnasciuga la passerella. Cominciarono a scendere gli
uomini, alcuni dei quali feriti nell’ultimo et strenuo combattimento
contro i Bizantini. Subito dopo, scesero le donne con in braccio i bambini.
Infine, furono traslati in riva i bagagli e le armi di riserva. Quando l’intero
popolo superstite ebbe lasciato la nave, contai quasi trecento persone
fuggitive. Si cominciò a scaricare altri bagagli, i viveri, la scarsa acqua da
bere et
in extremis, il tesoro di Alarico. Igor ordinò a gruppetti di guerrieri
di perlustrare l’isola e cercare sorgenti di acqua dolce. Orgoglioso di sé e
forse riconoscente al mio Dio, Igor estrasse un coltello e mi liberò dei lacci
che mi legavano i polsi. Non so perché non mi avessero ucciso. Superstiziosi
com’erano, non mi avevano ucciso temendo un maleficio infernale. In silenzio,
ringraziai il Signore:
“Pater noster qui es
in coelis, santificetur nomen tuum…”
Le sentinelle spedite in perlustrazione
erano discese trionfanti, indicando che alla base di un’altura nell’interno,
c’era una grossa fonte d’acqua ed un laghetto. Le donne ed alcuni ragazzi si
affrettarono con recipienti di creta ed otri a risalire il corto colle per
raccogliere il prezioso liquido. Il tesoro dei Gothi accumulato su un
telo verso il sottobosco, luccicava sotto i primi raggi solari che divenivano
roventi.
Lumina solis super
arbores iridescentes vinxit absoluta in apio coelo.
Il mare si era chetato e la nave, una vecchia trireme romana che forse
aveva superato il secolo, sonnecchiava immobile davanti a noi. Udimmo altre
grida più concitate. Alcuni dei guerrieri armati di asce e di coltelli, spediti
da Igor in perlustrazione sulle costa occidentale, tornavano gridando al
portento ed indicando un punto dall’altro lato della spiaggia. Dopo aver
parlato con loro, Igor volle andare a vedere e disse verso di me:
“Vecchio, tu sei segnato dagli dei
benigni. Vieni dunque con noi a vedere di che si tratta.”
Mi tenevano in vita perché ero l’unico a conoscere la scrittura e capace
di tramandare le loro vicissitudini? Con Igor e la maggior parte dei guerrieri
mentre gli altri sostavano in spiaggia, risalimmo un basso costone roccioso e
passammo oltre un tozzo promontorio. Vedemmo infine il portento. Una scultura
marmorea, più grande e massiccia di qualsiasi tempio pagano, più alta delle
piramidi d’Egitto, si levava sul placido Oceano, ad occidente. L’opera magna
distava duecento e più braccia dalla riva. Rappresentava una gigantesca dea, emergente
dalle acque marine. Non poteva che essere la scultura tentatrice di un essere
demoniaco, nella integrale nudità. Opera di smisurata magnificenza, simile alla
Sfinge d’Egitto. La gigantesca scultura in parte emergeva dall’Oceano ed in
parte ne era sommersa. Di certo, un potente popolo, con migliaia di schiavi
aveva eseguito l’opera eccelsa. Un misterioso popolo, forse nei secoli
scomparso. Ardua, possente fatica toccò alle schiere di schiavi nello
scalpellare, secondo esatti canoni estetici, il gigantesco et siliceo monumento. La
statua raffigurava una dea pagana del tutto nuda, emergente senza verecondia dalle
profondità oceanine, come Venere dallo Jonio. Enim, si trattava di un’opera
erotica, elevata al cielo per aggraziarsi un ignoto dio barbarico. Sollevai le
tre dita in segno di benedizione, onde allontanare gl’influssi del maligno. La
gigantesca scultura era come una montagna, o un colle e superava i trecento
piedi in altezza. Pensai che all’origine, un masso emergente dal mare fosse
stato modellato ad arte da un popolo misteriosamente scomparso dall’isola extrema.
Il volto inespressivo della scultorea opera
era di una giovane dea compiacente, ma lo sguardo era vuoto a perdersi verso il
misterioso orizzonte, là dove il mondo finisce ed incomincia la serie dei sette
cieli. I piedi per intero fino agli stinchi, sprofondavano negli abissi, a
perpendicolo, come le massicce colonne del tempio di Salomone. La dea pagana
era immobile ed osservava come in estasi la linea remota che segna i limiti
oceanici da nessuno superati.
Fu allora che accadde il portento. Nel ricordo, persiste il dubito di
ciò che vidi. Mirabilia et mirabilia. Fummo senza fiato. La grande scultura
si animò, acquistò colorito umano e d’un tratto si girò verso di noi con
sguardo umano. Non credemmo a ciò che vedevamo. Ci guardavamo l’un l’altro. Il
cielo ebbe sia pur per poco, un cangiante aspetto. Apparve una sottile e
lucente trama, come una vasta rete di pescatore: una rete non di spago, ma di luminescente
filo. Ad alcuni, parve una ragnatela, o una nuvolaglia nel cielo aleggiante. La
lucente trama setosa, diaframma tra questo e l’altro mondo, avvolse l’enorme e
muta statua, vivificandola all’istante. L’opera magna ebbe davvero esistenza
novella e come un colosso di ciclopica fattezza si mosse e parlò. Verso di noi,
con roboante voce, dunque disse:
“Ave, sono Hypnos, sorella di Thanatos
e figlia di Chronos, il Tempo infinito.
Oltre i sette cieli io sono. Vi aspettavo et nunc vi dico: salverò l’umanità
dal baratro prossimo venturo. Io ingrandirò il pianeta con l’aggiunta di un
nuovo continente che voi umani solo nel 1492 scoprirete. L’umanità avrà a
disposizione nuove terre per espandersi e proliferare. Io manovrerò la Storia
affinché nulla della planetaria trasformazione si abbia sospetto. Nel nuovo
continente, introdurrò antiche tribù che sembreranno autoctone. Non abbiate
timore, ma fiducia.”
Così dicendo, la gigantesca statua tacque e riprese il colore, la
staticità e la fissità della materia amorfa. Utqunque, il portento non
era finito perché sopraggiunse un forte terremoto. Le onde dell’oceano,
poc’anzi chete, presero ad agitarsi frenetiche con incessanti creste schiumose.
La statuaria mole ondeggiò e cominciò ad inabissarsi, prima lentamente, poi con
maggiore rapidità. Le ginocchia, i fianchi, il prospero seno, il collo, il
dolce viso ed infine gli occhi, la fronte arcuata ed i capelli scomparvero
sotto il ceruleo mare. Fu come se l’abissale gola dell’Oceano l’avesse ingoiata.
Subito dopo, olim coelum deinde il mare si chetò. Statim, Igor il grande
capo dei superstiti Gothi, ordinò che il tesoro di Alarico fosse gettato in mare,
là dove Hypnos era emersa e poi scomparsa.
Haec rebus in casu
aut in quadam animi pernicone factis perabsurda videntur.
PS.
Ho fatto analizzare da più esperti la pergamena, ingiallita e con piccole
chiazze di muffe lungo i bordi. Il responso è stato negativo. Si tratta di una
copia, risalente alla metà del XVII secolo circa. Secondo gli esperti, è
probabile che qualcuno abbia copiato il testo da una originaria pergamena
dell’alto medioevo. Tuttavia, i fatti narrati sembrano inverosimili ed assurdi.
Non è credibile che forze aliene abbiano impiantato sulla Terra un intero
continente, le Americhe. Un’operazione di maquillage planetaria per salvare i
destini dell’umanità.