lunedì 5 febbraio 2018

CANI AGILI di Paolo Durando

 
Si vedeva il mare, vasto e accecante, dall'acropoli. Ci si chiedeva perché occorressero tutte quelle anfore. La giovane donna era sul punto di scendere le scale, portandosene via un paio. Borbottava qualcosa, si poterono cogliere alcune parole, che avevano a che fare con “il decoro di una dovuta accoglienza”. Ma noi non volevamo che restasse a piedi scalzi sui gradini di pietra.
“Lo sai,” le abbiamo detto, “noi non crediamo che tu debba ancora servirci!”. Ci mettemmo a scrivere su una parete scabra. C'era un'allieva di Antistene che ci guardava, con le mani appiccicose. Ci si ricordava bene di tutte le acciughe che aveva cucinato. C'era molta luce, l'aria era tersa. Ci venne in mente che, venendo da lontano, avremmo passato lì la notte. E domani avremmo ripreso la nostra vita randagia. Io stessa, l'acronica, scrissi, con attenzione: ”autarchia”, ma in quel momento arrivarono mia madre e un cugino che non vedevo da vent'anni.
Quella delle anfore era scomparsa e noi decidemmo di raggiungerla giù per le scale. Doveva capire che non era più una schiava. Che era nato un nuovo concetto, quello dell'uguaglianza vera, sostanziale. Mio cugino estrasse dal chitone un pezzo di pane all'anice, dapprima senza forma, poi vagamente umano. 
“È Socrate,” mi disse, protendendo le labbra leziosamente: “Tieni, mangiatelo, ché è buono, Socrate.”
 

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