Enrico non riusciva a
reprimere un crescente senso di irritazione. Il direttore l'aveva spedito in
archivio a cercare una pratica, ma invece di essere un affare di pochi minuti,
la faccenda si stava prolungando. Qualcuno doveva averla classificata in
maniera erronea, e ora era introvabile come se fosse sprofondata nel fondo
dell'oceano.
Guardò con impazienza
l'orologio, erano le undici e cinquantacinque. Dappertutto le pareti
dell'ufficio erano state tappezzate di avvisi che spiegavano che per quel
giorno il servizio al pubblico terminava a mezzogiorno, perché il personale era
convocato per un'assemblea di formazione/aggiornamento.Si guardò attorno con
disperazione: era incredibile che nell'era dell'elettronica ci fossero ancora
tanti scartafacci cartacei che se ne stavano sugli scaffali a ingiallire e a
ricoprirsi di polvere, ma forse la loro funzione era ecologica, quella di
offrire agli acari e agli allergeni della polvere un ambiente favorevole dove
prosperare e riprodursi.
Guardò l'orologio una
seconda volta: ora era mezzogiorno e tre minuti. Non c'era alternativa: doveva
mollare la ricerca della pratica e correre all'assemblea. Uscì dall'archivio e
si diresse a grandi passi verso la sala riunioni.
I corridoi dell'ufficio
erano deserti. Enrico giunse sulla porta della sala riunioni da cui non
proveniva nemmeno un brusio.
La spalancò e rimase
sorpreso. La sala era completamente al buio, le tapparelle erano state
ermeticamente abbassate.
Fece alcuni passi in
avanti incerto.
“Tanti auguri!”
Il grido squarciò le
tenebre seguito da un fragoroso applauso. Subito dopo, qualcuno accese la luce.
I suoi colleghi erano
tutti lì, e su un tavolo era stata piazzata una grossa torta.
“Alberti”, gli disse il
direttore, “Non si preoccupi per quella pratica, non esiste, era solo una scusa
per tenerla fuori ancora un po' intanto che le preparavamo la sorpresa”.
Sul tavolo accanto alla
torta erano stati collocati dei bicchieri di plastica, e ora era comparsa una
bottiglia di spumante che qualcuno si stava affrettando a stappare.
“Auguri, vecchio mio,
congratulazioni!”, stavano dicendo i colleghi mentre gli massacravano le spalle
a forza di pacche amichevoli almeno nelle intenzioni dichiarate.
Nel frattempo, sia pure
lentamente, i neuroni di Enrico Alberti avevano ripreso a funzionare.
No, quel giorno, lo
sapeva bene, non era il suo compleanno ma quello di suo nonno. Un momento dopo
realizzò che fin allora, tranne pochi amici intimi, i colleghi non si erano mai
ricordati del “suo” compleanno o si erano al più limitati a rivolgergli qualche
breve rase di augurio.
Possibile che gli fosse
sfuggita? Quella doveva essere una ricorrenza particolarmente importante.
Infatti, gli venne in mente subito dopo, quel giorno se fosse stato ancora in
vita, suo nonno avrebbe toccato il secolo.
“Buon compleanno, Enrico
Alberti, ma quell'Enrico Alberti si era dipartito da questa valle di
lacrime già da alcune decine d'anni.
Lo sapevano tutti, e
tutti facevano finta di non saperne niente. Era iniziato naturalmente in
sordina verso la fine del XX secolo, quando i governi avevano cominciato ad
alzare l'età pensionabile. La scusa era l'aumento dell'aspettativa di vita
della popolazione, ma la ragione vera era il crescente indebitamento degli enti
previdenziali, infatti, quando fu chiaro che l'aspettativa di vita non si stava
per nulla allungando, ma stava anzi incominciando a scendere a causa dei
cattivi stili di vita, sedentarietà ed eccessi alimentari, la tendenza a
innalzare sempre più l'età della pensione non si era affatto invertita.
Gli anziani erano
costretti a rimanere al lavoro sempre più a lungo, e questo faceva diventare
ancor più aleatoria la speranza dei giovani di trovare un impiego.
Nessuno sapeva di
preciso dove e quando la cosa era iniziata, ma un giorno qualcuno, un anziano
che anelava a godersi gli ultimi anni in santa pace, con un figlio che ambiva a
entrare nel mondo del lavoro, si era fatto sostituire dal figlio truccato da
anziano, un tipo di travestimento che poi il trascorrere del tempo rendeva
sempre meno necessario.
Ovviamente l'esempio si
era diffuso dando luogo a una sorta di feudalesimo non dichiarato. Tutti gli
impiegati del ministero lo erano di seconda o terza generazione, anche perché
erano decenni che non si facevano più concorsi pubblici.
Il problema
apparentemente più difficile era quello di cosa fare quando la persona
sostituita da un familiare sul posto di lavoro veniva a mancare, perché non
risultasse ufficialmente deceduta, ma per quello c'era una soluzione
relativamente semplice: bastava rivolgersi ai cinesi, e di solito c'era una
colonia cinese in ogni città di una qualche importanza. Costoro avevano pratica
di come far sparire cadaveri. Da molto tempo ormai, quando uno di loro moriva,
il suo corpo veniva fatto sparire e i suoi documenti servivano per
regolarizzare la posizione di qualche altro suo connazionale immigrato.
Versando una congrua
mancia, erano disponibili a occuparsi anche dei corpi dei nativi. Cosa ne
facessero, era qualcosa che Enrico preferiva non indagare, anche se per la
verità il fatto che nei ristoranti cinesi fossero sempre disponibili piatti
come il maiale in agrodolce e il vitello con bambù, che di fatto consistevano
in coriandoli di carne staccata dall'osso sulle cui origini nessuno avrebbe
potuto giurare, gli faceva nascere inquietanti sospetti. Da quel tipo di
locali, a ogni modo, cercava sempre di tenersi lontano.
Qualcuno mise in mano a
Enrico un piatto di plastica con una fetta di torta, e un bicchiere, sempre di
plastica, riempito di spumante.
“Alla sua salute, caro
Alberti”, disse il direttore, “Cento anni portati splendidamente!”
Enrico alzò il bicchiere
nel gesto del brindisi, subito imitato dai colleghi.
“Per questa ricorrenza”,
proseguì il direttore in tono trionfale, “Noi tutti abbiamo pensato di farle un
regalo”.
Porse a Enrico un
astuccio.
Enrico lacerò la carta
del pacchetto e aprì la scatoletta.
Guardò l'oggetto
stupito: era un orologio placcato oro. Strano, gli venne da pensare, sembrava
il tipo di regalo più adatto a un pensionamento che a un compleanno. Fu in quel
momento che realizzo: cento anni significavano per l'appunto il raggiungimento
dell'età pensionabile, una meta che ormai toccava a pochi se non per interposti
discendenti. C'era solo un piccolo particolare: lui in realtà di anni ne aveva
quarantasei.
Enrico si avvicinò “alla
signora” Martini bisbigliando:
“Sistemati, hai un seno
storto”.
“Martini” (quello non
era il suo cognome, ma quello da nubile della madre) non aveva avuto molta
fortuna, aveva ereditato il posto non dal padre ma dalla genitrice, e così gli
toccava venire al lavoro in gonna, parrucca e seno finto. Tutti sapevano che
non era una donna, e tutti fingevano di non accorgersene.
“In questo non è stato
solerte, Alberti”, stava dicendo il direttore, “Non si è preoccupato per nulla
del suo imminente pensionamento, si direbbe quasi che se ne fosse dimenticato.
Ma non si preoccupi, abbiamo pensato a tutto noi. Basta che lei venga domattina
a ritirare le sue cose e a firmare un paio di moduli”.
Enrico Alberti
s'incamminò sentendosi mortalmente triste: il giorno prima aveva regolarmente
concluso l'orario di lavoro che era terminato con la festa di pensionamento.
Naturalmente, ed era stata la cosa più difficile, aveva raccontato della
questione a casa.
Marta aveva cercato di tranquillizzarlo.
“Non ti preoccupare”,
gli aveva detto, “Abbiamo abbastanza soldi da parte per vivere tranquillamente
finché non trovi un altro lavoro”.
Enrico tuttavia era
tutt'altro che tranquillo: trovare lavoro non era per nulla facile, soprattutto
per chi avesse passato i quarant'anni. La pensione, sufficiente appena per un
anziano che non avesse particolari problemi di salute, era del tutto
insufficiente per una famiglia di quattro persone con due figli agli studi. La
liquidazione, quando fosse arrivata, avrebbe dato un po' di sollievo, ma fino a
quando?
Riportò l'attenzione
sullo scatolone che teneva fra le mani: era quasi vuoto. Tutto quel che gli
rimaneva di decenni di lavoro era un po' di cancelleria e un portaritratti che
era rimasto nel fondo di un cassetto: conteneva due foto, in una c'era la sua
povera mamma, nell'altra lui da bambino. Era stato di suo padre quando era
succeduto al nonno e prima di passare la mano a lui.
Si guardò in giro
fissando i muri della città e le persone che gli passavano accanto formando
un'indistinta entità anonima, la folla, sconosciuti ciascuno con i propri
problemi, e che di certo non si preoccupavano dei suoi. Provò un profondo senso
di scoramento.
Il tempo passava, era un
susseguirsi di giornate vuote e di ricerche frenetiche. Enrico aveva mandato in
giro e più spesso portato curricoli un po' dappertutto, parlato con tantissime
persone, tutto senza risultato. Intanto, il conto in banca si assottigliava
sempre di più.
Quel giorno Enrico era
tornato dai Mercati Generali. Fin allora la sua attività lavorativa era stata
sedentaria di tipo impiegatizio, ma era disposto a fare qualunque cosa, anche
lo scaricatore o il facchino, ma con grande delusione si era dovuto accorgere
che quel tipo di lavoro non esisteva praticamente più, sostituito dai carrelli
robotizzati.
Rientrando in casa, vide
una busta nella cassetta della posta: era una busta formato A4 di quel colore
giallo spento che solo i ministeri continuavano a usare.
Non poteva essere una
comunicazione riguardante la liquidazione, era ancora troppo presto, e
poi...Vide che il mittente era il ministero dei Beni Culturali.
Una speranza folle
s'impadronì del suo animo...e se fosse stata una lettera di assunzione...uno
dei tanti concorsi che suo padre o suo nonno avevano fatto nei decenni
precedenti, magari classificandosi agli ultimi posti di lunghe graduatorie che
però ora si avvicinavano al loro esaurimento?
Resistette alla
tentazione di aprire subito la busta, voleva farlo di fronte a Marta.
Fece i gradini delle
scale a quattro per volta.
Il Signore dà, il
Signore toglie, sia benedetto il nome del Signore, ma se torna a dare di nuovo,
che sia due volte benedetto!
Si precipitò nel salotto
di casa dove lo attendeva Marta.
Lacerò la busta e scorse
la lettera che gli ballava davanti agli occhi per l'eccitazione.
Era veramente una
lettera di assunzione. I Beni Culturali...però l'idea di lavorare con qualcosa
di artistico, la trovava allettante. In quel momento gli sembrò che il cuore
gli scoppiasse dalla gioia.
Marta gli prese la
lettera dalle mani e cominciò a leggerla a sua volta.
“No”, disse, “Non è un
concorso che ha fatto tuo padre, ma tua madre. E' meglio che cominci ad
allenarti a camminare coi tacchi alti”.
Bello! Distopico comico. Proprio divertente.
RispondiEliminaQuesto Enrico starebbe bene assieme al Lino Nemesio di Giuseppe. ;)