Fuori dalla finestra la neve,
bianca, scendeva copiosa, silenziosa e morbida. Era una condizione che capitava
di frequente da quelle parti, e la sua villetta, isolatissima, era proprio in
uno dei punti più alti della zona, sul passo del Cimino. Non una grande
altitudine, ma abbastanza. Era solo, era il tramonto, che arrivava presto nelle
serate d'inverno e col cielo grigio di nubi. La luce del lampione esterno
illuminava la danza dei fiocchi che cadevano irriverenti sul dietro della casa
e sul casotto per gli attrezzi. Viveva solo, per tutti, ma lui solo non era. Li
aveva visti. Li aveva visti tornare da dove credeva di averli definitivamente
chiusi, cancellati, sepolti. E invece li aveva visti. Erano tornati. Gli
avevano detto che erano state le urla a farli tornare. E con le urla il
ricordo. E con il ricordo la rabbia. Ed erano tornati. Era quasi impazzito,
allora. Quasi? diciamo pure la verità, era impazzito. I capelli dal terrore
erano divenuti improvvisamente bianchi, bianchi come la neve. Aveva smesso la
professione, era un musicista di livello, affermato. Sua moglie lo aveva
abbandonato. Era ricorso alle cure di uno specialista, uno psichiatra. E
questi, naturalmente incredulo di fronte al racconto dei fatti, gli aveva
imposto di affrontare i suoi incubi. I suoi incubi. Così aveva fatto, e quando
erano tornati, una volta, ci aveva parlato e stretto un patto. Gli aveva
proposto la rinuncia alle lezioni di violino, che impartiva regolarmente
soprattutto a figli di immigrati e bisognosi, e loro, in cambio, sarebbero
scomparsi. Sulle prime non accettarono, volevano vendicarsi a tutti i costi.
Lui ribatté, e gli chiese di pensare a quanti dei loro cari avrebbero sofferto,
lui morto e venuta a galla la verità. Non molti di loro avevano parenti o
familiari ancora in vita, non molti, ma alcuni sì. Avrebbero sofferto ancora. E
allora acconsentirono. A patto che lui non si fosse mai allontanato da lì per
continuare altrove. Scomparvero. Lui restò solo, ma solo non si sentiva. Oramai
era buio già da un po' e decise di andare a dormire. La neve scendeva copiosa,
ma se una cosa aveva imparato, era che nulla di bianco può coprire una
coscienza nera. Fu un assopirsi. Poi la sensazione. Erano anni che la temeva,
erano anni che l'aspettava. Sapeva che prima o poi, in qualche modo, in
qualche maniera, sarebbero tornati. Non avrebbero mai tenuto fede al patto. E
ora erano lì. Tutt'intorno al suo letto. Lo guardavano, feroci, con il loro
ghigno, la loro rabbia. Trasparenti, opachi, eterei. Alcuni con ancora indosso
gli indumenti laceri con cui erano morti. Quelli del giorno in cui li aveva
uccisi, dopo averli sottoposti ad ogni genere di abusi e sevizie. Gli dissero
che il patto era rotto, infranto. Del resto con uno come lui non si fanno
patti. Solo la forza, capisce, uno come lui, ed ora erano lì per ucciderlo.
Poi, gli dissero ridendo, sarebbero finalmente andati via, lontano, finalmente
a suonare, come lui quel giorno gli aveva promesso, che sarebbero andati via,
lontano, a suonare. Che lui gli avrebbe insegnato. Invece li aveva seviziati,
uccisi e bruciato i corpi. Ma prima doveva morire. Morire. La risata invase la
stanza. Gli si fecero sotto, fin sui bordi del letto, e poi sempre più vicino.
Erano gelidi, vitrei, grigi. Il freddo lo invase, il suo terrore gli bloccò il
respiro, il cuore, se mai ne aveva avuto uno, si fermò. Restò una stanza buia, e
un vecchio morto con gli occhi, spalancati, in cui si rifletteva il terrore di
una terribile punizione.
***
Qualche centinaio di chilometri, ma
ne valeva la pena. L'ultimo tratto di strada era stato difficile in particolar
modo, ingombrato com'era dalla neve, ma ce l'aveva fatta nonostante il suo
furgoncino fosse vecchio e malandato, ce l'aveva fatta. Aveva aspettato il
calare della notte e stava per entrare. Era assai curioso. Quella telefonata,
il giorno prima, incredibile. Il suo fratellino, che poi era il suo fratello
maggiore, che però lui non poteva fare a meno di ricordare come un bambino,
perché erano bambini l'ultima volta che si erano visti e parlati. Erano
all'orfanotrofio di Timinsoara, ed erano uniti come solo due fratelli orfani
potevano esserlo. Non si dividono due fratelli in orfanotrofio, ma l'occasione
era veramente importante, e se tutto fosse andato bene si sarebbero
ricongiunti, anni dopo, d'accordo, ma in un Paese straniero, liberi, e forse
addirittura con una casa e un lavoro. Suo fratello più grande aveva la passione
per la musica, era un portento con il violino, ed era arrivato l'invito ad
andare a perfezionarsi in Italia, un famoso musicista offriva ai bambini orfani
di talento un'opportunità. Così lo vide partire. E poi non si seppe più nulla.
Lui, dal suo canto, non aveva nessuna qualità, o forse la più importante,
sapeva sopravvivere. Ed era sopravvissuto, infrangendo regole, accettando
compromessi, spesso umiliazioni, e a sua volta impartendole. Era arrivato anche
lui in Italia, anni prima, ma non con una borsa di studio, nel vano merci di un
camion. Ed ora viveva di furti, lavori di muratura, piccoli trasporti. Come
avesse fatto il suo fratellino a trovare il suo numero di cellulare, oltretutto
clonato, era un mistero. Eppure quella voce era la sua, seppur così lontana,
profonda, quasi cavernosa. La sua, del suo fratellino. La stessa inflessione,
le stesse espressioni che solo loro, nella loro solitudine di orfani, usavano
l'uno con l'altro. Gli aveva comunicato il nome di una località sperduta tra i
monti cimini. Gli aveva detto che era un buon colpo, un buon bottino. Avevano
riso a quel punto, lui gli aveva detto che se gli proponeva una cosa del genere
un musicista di certo non era diventato. Il fratellino, tra uno scherzo e
l'altro, gli aveva risposto che no, musicista non era diventato, ma che voleva
suonare, a tutti i costi, e che si sarebbero incontrati lì, e lui doveva
portarlo via. Era prigioniero o qualcosa del genere. Avevano di comune accordo
chiuso la comunicazione, non si parlava di certe cose per telefono. E poi c'era
poco da dirsi, si sapeva come andava la vita per quelli come loro. Un
padroncino infame gli aveva probabilmente sequestrato il passaporto e lo
costringeva a lavorare per due soldi. Ma insieme gliel'avrebbero fatta vedere
loro. Gli avrebbero tolto tutto e sarebbero andati a spassarsela, uniti, come
ai vecchi tempi. Non certo senza aver prima impartito una severa lezione
all'infame. Scacciò pensieri e idee e scavalcò il cancello, era buio, il posto
isolatissimo, il silenzio era interrotto solo dal fragrante cedere della neve
sotto i suoi passi. Una breve perlustrazione, costruzione a due piani, un
casotto a dire il vero molto grande per gli attrezzi, giardino curato così
così, del resto era tutto coperto da uno spesso velo bianco. Restò in attesa di
qualche segno di vita, per un po', ma nulla, nessun rumore. Che il fratellino
gli avesse tirato un bidone? Oramai era lì e non sarebbe certo tornato indietro
a mani vuote, non aveva nemmeno i soldi per la benzina del furgone. Infranse il
vetro di una finestra e fu dentro. Faceva più freddo che fuori. Girò gli
interruttori della corrente elettrica e la luce mostrò una casa che andava in
malora. Salì al piano di sopra, quello delle stanze da letto. Sembravano
abbandonate da anni, tranne una. In un letto disfatto ammuffiva il cadavere di
un vecchio, gli occhi spalancati, nero per effetto del freddo, i denti in
mostra da una bocca distorta, un'espressione di terrore. Doveva essere morto da
giorni, forse settimane, col freddo chi poteva dire. Di sicuro morto male.
Tutt'intorno al letto delle foto crudeli, orrende, insane. Un uomo che abusava
di creature piccole, minuscole. Le torturava, rideva in piedi davanti a piccoli
corpi esanimi. Restò immobile, mentre il disgusto gli stritolava piano lo
stomaco. Lui era un duro, lui era un duro, cominciò a ripetersi per reagire,
rimettersi in moto. La finestra della
stanza si aprì piano, mossa da una brezza fuori contesto in quel panorama di
orrore immobile. E andò a sbattere su una custodia, che cadde. Una custodia di
violino. Solo allora si mosse, aprì la custodia e trovò uno strumento antico,
che sembrava di valore, anzi, era certamente di valore. La rabbia gli diede
energia, prese lo strumento e lo ridusse in mille pezzi, furioso. Il cadavere
cadde dal letto, con un rumore soffocato dalle lenzuola, e si fermò in una posa
sconcia, di dolore. Oramai in preda all'ira, cominciò a devastare la casa in
cerca di bottino, bottino, bottino. Lui era un ladro, e a parte cadavere e
foto, bisognava far presto in quelle situazioni. Il respiro si calmò e si
concentrò sull'efficienza delle proprie azioni. Arraffò tutto quello che
sembrava aver qualche valore e dopo pochi minuti era già nel furgone. Era
andata, ma poco denaro, solo oggetti, argenteria, piccoli monili, due orologi,
targhe di partecipazione a concerti che forse si potevano fondere. Il silenzio,
il gelo e il buio lo circondavano. Era notte fonda. E lui era un duro. Si era
fatto spaventare dal cadavere e dalle foto, ma ne aveva viste e vissute di
storie così, in orfanotrofio era roba quotidiana. Sorrise e scese di nuovo dal
furgone, finalmente calmo. Una casa isolata, pedofili o meno, nessuno gli
avrebbe impedito di vuotarla per bene e a fondo. Pochi istanti dopo stava
forzando la serratura di quello che sembrava il casotto ove riporre gli
attrezzi da giardino, anche se un po’ troppo grande. Aperta la porta e girato
l'interruttore della luce stavolta si illuminò la stanza del tesoro. Non era un
casotto per gli attrezzi, era un piccolo museo. Ai muri, appesi, decine di
violini con relativa custodia. Si fregò le mani. Un attimo. Poi invece iniziò a
piangere. Accanto ad ogni strumento la foto del piccolo proprietario. Foto di
bambini sorridenti, ben vestiti, spesso con un violino, in posa con un adulto,
probabilmente il vecchio più giovane. No, non era un museo, era un cimitero,
l’orrenda sala di trofei di un mostro. Una prigione, dove erano rinchiuse le
anime di quei piccoli sventurati. Cercò, e nemmeno troppo a lungo. Suo fratello
gli sorrideva, dalla foto, era contento che lo avesse trovato. Allora fu certo,
solo allora, e seppe con esattezza cosa doveva fare. Ripose tutti i violini
nelle custodie, con la relativa foto, tranne una, che dopo aver baciato infilò
nel portafoglio. Poi trasportò tutto nel furgone. Li avrebbe venduti o
regalati, non importava, e avrebbero suonato ancora. Chissà dove, ma lontano da
lì. Anche quello che gli era più caro. Soprattutto quello.