Dìkaia
Sta al telefono da oltre mezz’ora. È stato lui a chiamarla. All’inizio
hanno parlato delle solite cose, il lavoro, i problemi del quotidiano, insomma
argomenti comuni a tutti e sui quali tutti si trovano d’accordo. Ma appena
passati alle rispettive relazioni personali, era stato inevitabile entrare
nella sfera del privato. Sono cominciati allora gli attimi di silenzio prima di
una risposta, la scelta delle parole per non rivelare certi dettagli.
Dìkaia stava uscendo dalla doccia quando lui ha chiamato. È ancora
avvolta nell’accappatoio, i capelli stretti in un asciugamano sistemato
nell’abituale aggroppamento a turbante. Con gesti meccanici la donna stringe il
collo dell’accappatoio, si friziona una spalla, insiste nel sistemare capelli
ribelli che escono dall’asciugamano intrecciato. Indugia con la mano
all’interno dell’accappatoio per godere dell’umidore della pelle. Succede che,
inoltrandosi nel discorso, la mano accarezzi levigatezze rese ancora più
morbide dalla posizione rilassata del corpo sulla poltrona. La mano reagisce
alle parole che lui vorrebbe dire. A occhi chiusi, Dìkaia risponde a
monosillabi.
Il tempo fluisce veloce, vengono colte sfumature che solo una profonda
conoscenza reciproca può permettere, benché non derivata da assidua
frequentazione. Poi lo scambio filtra su livelli più personali. Dettagli
vengono prima sfiorati, poi trattenuti, quindi approfonditi. Il tempo ha ormai
perduto significato. Con la complicità della distanza, entrambi si lasciano
andare. Misura e inibizioni vengono allontanate nella consapevolezza che,
ormai, quel momento magico non può più essere interrotto. Ma c’è ancora un muro
da abbattere, ed è un muro di notevole spessore. Sarebbe più esatto dire che la
difficoltà di abbatterlo non sta nello spessore quanto nel materiale di cui è
fatto.
Lui si sente in dovere di mantenere l’iniziativa per atavica sindrome
maschile, ma risulta evidente che ha bisogno di lei per poter continuare. E per
lei, che si trova a dover resistere solo per sindrome identica ma antitetica, è
difficile evitare sfumature capaci di indebolire ciò che entrambi si son
trovati a costruire.
L’aspetto singolare – in un certo senso buffo – è che lui l’ha chiamata
solo per non lasciar morire quel giorno nello stesso grigio silenzio di tutti
gli altri giorni.
- I tuoi problemi – sta dicendo Dìkaia. – Sono i miei, le radici da cui
provengono sono le stesse. Ci toccano in modo diverso in quanto tu sei uomo e
io donna, ma la sostanza non cambia.
- Non so. Non credo tu riesca a capire quanto sia insopportabile
l’impossibilità di…
- Di… amare?
- Sì
Un lungo silenzio. È Dìkaia a riprendere: - Non ci siamo frequentati
molto ma avevo capito. Solo chi vive certe situazioni sulla propria pelle può
intuire certe cose.
- Cosa intendi dire?
- Tu lo sai quanti anni ho. Eppure anch’io sono ancora vergine.
La nuova parentesi di silenzio è lacerante. Poi le parole scrosciano e
si intrecciano veloci, le frasi si accavallano, il tempo adesso vola nella sua
relatività beffarda.
Dopo che, finalmente, tutto è stato detto, lui chiede: - Ne sei
convinta veramente?
- Penso sia un nostro diritto.
- Però dobbiamo aspettare fino a domani. In questo frattempo ciò che
adesso sembra chiaro e definitivo potrebbe… e poi c’è una notte da passare… di
notte tutto si trasforma… Se dovesse succedere mi chiamerai?
- Sì.
Luis
Non era ancora sceso dalla macchina che la vide affacciarsi alla porta.
Durante la notte non c’erano state telefonate. E l’alba era giunta cancellando
le lunghissime ore del buio, frastagliate di tradizionalismi, perplessità,
ambiguità etiche. Poi l’attesa della sera. E adesso Dìkaia era lì ad
aspettarlo, affascinante come mai gli era apparsa per la luce che traspariva
dai suoi occhi. In essi c’era trepidezza, struggimento mal trattenuto. Sentì il
respiro farsi affannoso ma, per la prima volta, non fece nulla per nasconderlo
e, anzi, provò gioia nel poter rivelare l’ansia che aveva sempre costituito il
suo limite.
La lampada a stelo accanto al divano era schermata da un pesante
scialle damascato. Nella semioscurità della stanza i mobili emergevano come
masse dai contorni confusi. Dìkaia gli porse una vestaglia. – Fa con comodo, io
torno subito.
Luis cominciò a spogliarsi. Quando fu completamente nudo indossò la
vestaglia. Provò eccitazione per le carezze del raso. Nel sedersi sul divano,
un lembo della vestaglia scivolò scoprendogli una gamba. Si ricoprì e, per
evitare che si ripetesse, tenne la mano sul ginocchio. Sopra un tavolo c’erano
due bicchieri, una bottiglia di Gilbey’s intatta e una di Jack Daniel’s vuota
per un terzo.
- Ieri sera era piena. – Disse Dìkaia alle sue spalle.
Lui si voltò di scatto. – Non così forte, potrebbe…
La donna scosse la testa: - Non preoccuparti, nemmeno se accendiamo la
televisione a tutto volume può svegliarsi. All’ospedale sappiamo cosa usare per
certi malati. – Dìkaia fece per spostare la borsa di Luis posata in un angolo.
– Ma che ci tieni dentro! – Esclamò.
- Oh, roba d’ufficio, il portatile, quasi un archivio. – Si sforzò in
un sorriso.
- Direi che ci tieni pure i mobili.- Si aggiustò il collo dell’abito.
Il debole chiarore faceva rilucere l’indaco della seta. Era un abito dal taglio
semplicissimo che le scendeva morbido fino ai piedi esaltando con giochi
d’ombre ogni movimento del corpo e la trasformava, agli occhi di Luis, in una
stupenda sconosciuta. Finalmente, di fronte alla disponibilità di una donna,
provava un’emozione pulita, normale. – Hai detto che ieri sera quella botiglia
era piena.
- Ho voluto stordirmi per dormire e non correre il rischio di
telefonarti. Il bourbon ha fatto il suo dovere anche se stamane avevo la
testa di piombo. – Scrollò le spalle. – Ma sono bastate venti gocce per
rimettermi a posto.
Luis le appoggiò le mani sulle spalle. – Siamo maledettamente uguali
anche nelle piccole cose.
- Anche tu Jack Daniel’s?
Luis annuì. La guardò negli occhi, poi fece scorrere lo sguardo lungo
quel corpo inaspettatamente insolito. Una cintura sottile la cingeva ai
fianchi. Avrebbe voluto slacciarla per accertarsi che, come la seta faceva
intuire, Dìkaia fosse nuda.
Lei sorrise. – C’è anche del gin. - Versò il Gilbey’s nei bicchieri.
Poi sedette sul divano. La vestaglia di Luis tendeva ad aprirsi e lui si
sforzava per trattenerne i bordi.
– Ti sentirai un po’ a disagio – disse la ragazza. - Ma meglio
eliminare qualsiasi causa… - Fece un gesto con la mano per esprimere parole che
non trovava.
- Sì, impedimenti, intralci… sei ammirevole per il modo in cui hai
affrontato questa decisione.
- Non sei il primo che ha indossato quella vestaglia, solo che…
- Non dire altro. – La interruppe Luis.
- Ma io voglio dirlo! Io so cosa vuole un uomo, io attraggo gli
uomini e…
- Sei una donna bellissima, lo sei sempre stata.
- La bellezza non conta, anche una statua può essere bella. Io sono
fatta di carne e sangue che però diventano marmo appena la mano di un uomo mi
sfiora.
- Adesso siamo insieme.
Dìkaia ebbe un sorriso triste: – Devi aiutarmi. Devi aiutarmi molto.
Luis depose il bicchiere, le prese le mani e le strinse forte tra le
sue.
Luis e Dìkaia
Seduti l’uno accanto all’altra, Luis le accarezzava i capelli, le
spalle, e solo quando fu lei a guidargli la mano sul seno, riuscì a introdursi
fra le morbidezze della seta e della pelle. Teneva il volto affondato
nell’incavo del collo lasciato scoperto dai capelli che Dìkaia aveva scostato,
ne aspirava il profumo, continuava a mormorare il suo nome.
- Mi fai sedere sulle tue ginocchia? – Disse Dìkaia con voce quasi
aspra. E senza aggiungere altro si alzò e con una torsione del busto e un ampio
veloce arco della gamba fu seduta su di lui. –Così siamo più vicini – gli
sussurrò all’orecchio. – E possiamo evitare di guardarci. Vorrei che tu non mi
guardassi… - Dìkaia lo strinse forte per impedirgli di mutare posizione, per
non lasciarsi sfuggire l’ultimo appiglio e naufragare.
- L’unica cosa che dobbiamo fare – Luis le frusciò tra i capelli. – È
dimenticare che io sono tuo fratello e tu sei mia sorella. In questo momento tu
sei una donna e io un uomo, nient’altro, una donna e un uomo che devono
aiutarsi per sopravvivere.
Dìkaia assentiva in silenzio alle parole del fratello, lasciando libero
il pianto che si era ostinata a trattenere. – All’ospedale qualcuno aveva
sparso la voce che sono lesbica, ma non è vero, io ho sempre desiderato un uomo,
e so cosa vi spinge a… vedi? – E con adorabile ingenuità abbassò la voce quasi
a un sussurro – Ho scelto calze fumé autoreggenti perché so che questi
particolari sono importanti, vero… vero? – E poi guardò Luis negli occhi, lo
sguardo annebbiato dalle lacrime. – Ma devi essere dolce, amore mio, noi non
siamo come gli altri.
Alfredo
21 marzo
Fiorenza carissima, questo diario sarà un colloquio
con te in attesa che tu arrivi. Non so quando succederà, ma quel giorno io sarò
qui ad accoglierti. Ho voluto cominciare oggi questo diario perché è il primo
giorno di primavera. Anche il tuo nome sa di primavera. C’è il sole, i primi
tepori nell’aria. Sono felice.
A volte sento dei bisbigliamenti e il mio pensiero
corre subito a te, ma poi mi rendo conto che non è possibile, è ancora troppo
presto.
Mia diletta Fiorenza, nell’attesa vivrò parentesi di
anamnesi, scenderò gradino dopo gradino fin nel profondo per interpretare e
vivere e godere i momenti che ci hanno fatti incontrare.
Alfredo
26 aprile
È passato poco più di un mese eppure mi sembra
un’eternità. È sempre così quando si attende qualcosa di molto importante, il
tempo ha la facoltà maligna di dilatarsi per creare tormenti.
Sempre più spesso sento scricchi e crepitii, a volte
dal pavimento, a volte dalle pareti. Ho eliminato tutti i mobili per rendere
echeggiante il minimo fruscio e così la casa possa parlarmi, stabilire un
dialogo al quale purtroppo non riesco ancora a partecipare. Però il significato
lo conosco, la casa mi sta parlando di te, Fiorenza, e ogni giorno riesco a
imparare qualcosa.
Quando ho deciso di stabilirmi qui, mi sono fornito
delle cose essenziali e ho tagliato il cordone ombelicale che mi teneva legato
al mondo esterno. Da quel giorno, e ormai è passato più di un anno, mi sono
dedicato esclusivamente a curare ogni dettaglio per il tuo arrivo. Adesso la
natura sta sbocciando, ci sono colori e profumi, però i miei occhi sono solo
per quel verde cespuglio, lo guardo per ore, lo spio quando il buio della notte
me lo nasconde, e la prima ombra che vedo uscire all’alba sono i suoi rami che
si rinforzano, le sue foglie che dilagano e avviluppano.
Ti sento sempre più vicina, Fiorenza, ti vedo nei
fiori che stanno macchiando il cespuglio, ti sento nei respiri che la casa mi
trasmette soprattutto di notte. Questi sussurri notturni mi hanno riportato
alla memoria un’esperienza della mia infanzia, quattro anni, forse meno. Una
notte mi svegliai e sentii provenire dalla stanza della mia mamma un respiro
affannoso, dei lamenti. Pensai fosse entrato qualcosa di orrendo per farle del
male. La porta della sua camera era socchiusa, e vidi che mio padre le era
addosso e quell’ansito era il suo respiro e i lamenti provenivano dalle labbra
di mia madre. Non c’ era nessun mostro. Cercai di riprendere il sonno coprendomi
la testa con le lenzuola ma non ci riuscii, nelle orecchie avevo quei respiri e
quei lamenti e negli occhi l’immagine terrificante dei miei genitori che,
improvvisamente, si erano trasformati in due persone sconosciute.
Quella notte mi sentii solo perché avevo scoperto che,
durante il giorno, il mio papà e la mia mamma portavano una maschera per farsi
vedere da me come volevano loro.
Fiorenza adorata, prima ho parlato di taglio di
cordone ombelicale. È solo una frase fatta perché nessuno può separarsi dal
proprio passato, tutt’al più può metterlo da parte, se ne renda conto o meno.
Anche stanotte ho sentito bisbigli, ma, contrariamente
a quelli che mi sconvolsero quand’ero bambino, questi mi recano gioia, e cerco
di carpirne le minime sfumature. Sei tu, Fiorenza, che ti stai avvicinando.
Alfredo
12 maggio
Ieri qualcuno ha bussato. Non so chi fosse, non mi
sono curato di aprire né di guardare attraverso i fori che ho praticato nelle
imposte. I fori li ho fatti per seguire le piante durante il giorno. Da loro
vado solo quando è buio. Ormai le conosco come fossero mie creature, e in un
certo senso lo sono. Hanno messo radici talmente profonde e robuste che niente
può impedire la loro espansione. Già tutto il tratto del muro a oriente ne è
damascato, e anche la parte della casa che dà sul giardino è ormai imprigionata
da una ragnatela di rami e foglie e da fiori mai visti da queste parti. Pensa,
Fiorenza, che devo bucare continuamente le imposte a mano a mano che i fori
vengono coperti dalle nuove foglie. Questo mi dà un immenso piacere.
Dicevo che ieri qualcuno ha bussato. Poi ho sentito il
rumore di una macchina che si allontanava. Più tardi ho visto una busta fatta
passare sotto la porta. Sarà stato un altro avviso. Ho buttato nei rifiuti
anche quella busta. Ormai telefono, luce, gas e acqua sono stati staccati. Per
lasciare più spazio possibile ho eliminato anche i vecchi elettrodomestici che
usava mia madre. Per muovermi di notte da una stanza all’altra non ho certo
bisogno di lampadine o di torce elettriche, la casa la conosco in ogni sua
minima parte. In realtà, non è che durante il giorno ci sia molta più luce con
tutte le finestre sigillate. Solo attraverso i fori filtrano lame luminose che
creano strani giochi di chiaroscuro. Mi piace guardarli e parlare con loro.
Una volta alla settimana vado a comperare un po’ di
roba in scatola e qualche bottiglia d’acqua in quell’ipermercato che rimane
aperto anche di notte. È faticoso perché ho dovuto vendere la macchina, ma non
è un grosso problema.
Mi sento sempre più sereno, Fiorenza. Il vivere in
questa oscurità appena trafitta da qualche filo lucente mi dà la sensazione di
viaggiare a ritroso nel tempo, e più torno indietro e mi riavvicino a una nuova
nascita più mi sento sereno.
A mano a mano che le ore e i giorni passano –
l’orologio è l’unico oggetto che mi permette di indicare le date sul diario –
mi ritrovo. Dormo dove e quando voglio, mi denudo se sono spinto a farlo, a
volte mi piace giocare con i miei escrementi. Sento che tutto si concluderà tra
poco, Fiorenza. Le piante stringono la casa in un abbraccio sempre più
affettuoso.
Alfredo
7 giugno
Devo state molto attento perché se qualcosa dovesse
danneggiare le piante sarebbe la fine. Per esempio mi sono accorto che un cane
riusciva a infiltrarsi all’interno del giardino. Ho pensato che avesse scavato
una buca sotto il muretto ma non ne ho trovato traccia.
Ad ogni modo ho studiato attentamente i punti dove il
cane si soffermava e ho preparato una trappola. Ho applicato a una tavoletta di
legno massiccio un sistema di lame trattenute da molle, ventidue lame lunghe
quarantasei centimetri, diciotto sistemate lungo i lati e quattro al centro. Ho
sotterrato la trappola sotto due o tre centimetri di terra, mascherata con
foglie e sassi mescolati a cibo per cani. Poi mi sono appostato a osservare
attraverso i fori. La prima volta non è successo niente, il cane è andato a
ficcanasare altrove. Forse non aveva fame. Ma la volta successiva è passato
sopra la tavoletta e in un attimo il suo corpo si è trasformato in un grumo di
visceri lacerati. Ho aspettato che facesse buio, quindi ho messo tutta quella
roba dentro un sacco di plastica e l’ho buttata sotto la tangenziale.
Mi dispiace aver dovuto uccidere quel cane. D’altra
parte non posso permettere che le piante vengano danneggiate. Ucciderei
chiunque.
Questa notte mi è sembrato di sentire un raschiare
alla porta, poi ho capito che il rumore proveniva dalla parte prospiciente il
giardino. Ho acceso una candela e sono andato a vedere. E finalmente, Fiorenza,
c’è stato il primo segno: un pezzo di intonaco si era staccato e dalla porzione
di muro lasciata scoperta ho visto che i mattoni avevano lasciato passare un
ramo di Darlingtonia. Adesso sono contornato da bisbigliamenti, scricchi e
crepitii, suoni che ho cominciato a sentire quando le piante si apprestavano a
prendere possesso dei muri.
Era stata la mamma a voler chiudere la rientranza nel
muretto, diceva che vi vedeva la faccia di nostro padre. È stata lei a voler
mettere le piante per coprire ogni macchia che potesse ricordarle la sua
faccia. E io, Fiorenza, mio fiore, ho fatto quello che lei desiderava. Lei
diceva che nostro padre era pazzo, ma tu sai che non era così. Lui non riusciva
a vivere nella realtà, e ha sempre cercato di trascinare anche la mamma in quel
suo mondo fatto di giustizia e di sogni, di immaginazione. Ricordi cosa diceva?
Solo la fantasia è vita, e un’esistenza senza fantasia è convivere con la
morte. I nostri nomi, per esempio. Aveva voluto chiamare te Dìkaia e me Jorge
Luis. Appena se ne andò, la mamma ha cominciato subito a chiamarci con i nomi
che avrebbe voluto darci lei, Fiorenza e Alfredo.
La mamma ha fatto molto male a te, sorella cara, a
causa di quella sua morbosa determinazione di isolarti, convinta com’era che
dentro di te potesse germogliare la stessa visione del mondo che aveva nostro
padre, e ha fatto molto male anche a me, il suo Alfredo, Alfreduccio, il suo
Duccio.
Alfredo
16 luglio
L’ultima volta che ho scritto era il 7 giugno. Non mi
rendo conto che sia passato tanto tempo, forse il mio orologio si è rotto. Ma
ormai per me il tempo non ha più significato. Le pareti interne della casa
hanno partorito centinaia di rami e foglie e fiori. La mamma voleva piante che
coprissero il muretto e io ho scelto le specie delle Sarraceniacee. Dalle
pareti sono spuntate decine di ascidie gonfie come piccole anfore, misteriose
come urne, trasformazioni delle foglie di Nepente, di Sarracenia, di
Utricularia, piccole trappole che portano ancora dentro di sé i resti di ciò di
cui si nutrono. Io le osservo e so tutto di loro, indago nel loro sacco
branchiale, nei loro sifoni boccali e cloacali, spio il loro sbocco sessuale.
È venuto il momento del tuo arrivo, Fiorenza, lo
sento, sei vicina, forse domani. Intanto scruto questi fiori che spuntano dalle
pareti dopo aver lottato per infiltrarsi tra pietra e pietra con forza lenta ma
tremenda, facendo gemere la casa. Adesso carezzo i loro sepali, i petali gialli
e rossi, i pistilli muniti di ovario, i loro frutti a capsula, le foglie a
imbuto.
Fiorenza, tra poco sarai anche tu fra questi fiori e
ci riuniremo. Quella sera in cui proprio qui, in questa stessa stanza dove ora
mi trovo a scrivere accanto alla vestaglia di raso – che uso come giaciglio –,
abbiamo trovato insieme la forza di amare, il tuo corpo ha avuto solo un
trasalimento quando la lama ti penetrò. Tutto era pronto, Fiorenza dolcissima,
le piante erano in attesa di essere messe a dimora, e non potevano trovare
dimora migliore se non nelle tue membra divise. Ricordi come pesava la mia
borsa? E il giorno dopo, quando la mamma, uscita dal torpore che le avevi
procurato, scoprì che la rientranza nel muretto era stata coperta dalle piante
e non avrebbe più visto la faccia di nostro padre, disse Duccio caro mi hai
fatta felice.
Alfredo e Fiorenza
18 luglio
Non c’è più ragione di continuare questo diario perché
sei arrivata.
È successo questa mattina, solo poche ora fa. Nel
sacco branchiale di un fiore di Nepente ho trovato un frammento di te. Ho
staccato il fiore e l’ho assunto come comunione con quanto di prezioso esso
conteneva.
Benvenuta Fiorenza.