lunedì 8 dicembre 2014

AVE CAESAR di Pierre Jean Brouillaud



Un gallo cantava. Uscendo da un sonno denso di incubi, Cesare si svegliò. Da mesi aveva messo l'assedio ad Alesia dove ottantamila Galli si erano rinchiusi. Li aveva presi a loro volta in trappola chiudendo l'oppidum in una rete di trincee e di fortificazioni quale non si era mai vista. Aveva sventato tutti i loro tentativi di rompere il cerchio. Condannati alla fame, spossati, i Galli si dovevano arrendere. Oppure le legioni avrebbero dato l'assalto finale. Il nemico aveva perduto la partita quando arrivò l'armata di soccorso. Moltitudini venute da tutti gli angoli del territorio. Ottomila cavalieri, duecentoquarantamila fantaccini, feroci guerrieri che avevano sommerso gli uomini di Cesare.
Un ricordo bruciava più di tutti gli altri, quello del momento in cui lui stesso, Cesare, dopo aver lottato di persona fino a quando la sua spada era rimasta in mano al nemico, era stato fatto prigioniero da questo tizio, Vercingetorige. Non avendo potuto trovare una morte da soldato, aveva dovuto gettare ai piedi dell'arverno il suo mantello rosso e il suo bastone di comando. E i Galli inalberavano ora in uno dei loro templi come trofeo le sue insegne di comandante.
Il gallo aveva smesso di cantare.
In qualche giorno o in qualche ora, Cesare avrebbe subito la sorte dei vinti. Quelli erano ansiosi di finirla con il comandante in capo dei Romani. L'avrebbero senza dubbio trascinato per le vie di Gergovia, lercio borgo dove sarebbe stato messo a morte da dei barbari che non erano capaci di organizzare un trionfo in bella e dovuta maniera. A meno che non applicassero l'usanza romana di legarlo a un palo, di batterlo con le verghe e poi decapitarlo.
Il prigioniero alzò gli occhi verso lo stretto rettangolo che alla sommità del nero buco ruscellante d'acqua dove l'avevano gettato, si distingueva male dal muro, gli sembrava tuttavia di percepire oltre le rozze assi, il lucore della luna.
Il gallo era in anticipo, il giorno non sembrava sul punto di levarsi, senza dubbio non era che la quarta vigilia. Con uno sforzo sovrumano che esigevano le sue membra indolenzite dalla prigionia, Cesare si sollevò fino all'apertura. Si, la luna brillava nel cielo dove passava qualche nube. Essa rischiarava il tratto delle mura di Gergovia antistante la prigione con la sua struttura di pietra che lasciava vedere l'armatura di travi, e anche il viottolo che serpeggiava tra le case di legno e di argilla coperte di stoppie.
Sul muro di fronte, delle mani maldestre avevano tracciato dei segni enigmatici, ma anche delle scritte. Non riusciva a decifrare alcune di esse, anche se erano scritte in caratteri greci, che i druidi utilizzavano per trascrivere la loro lingua. Certe, dovute a un popolo che non conosceva l'uso corrente della scrittura, restavano incomprensibili. Altre erano redatte in un latino approssimativo e piene di errori di ortografia e grammatica. Ma ce n'erano altre ancora affatto corrette. La prima diceva: VAE VICTIS. Quel richiamo di un passato doloroso, il sacco di Roma da parte dei Galli, gli confermava che era preso di mira. La seconda l'incuriosiva molto, diceva: ALEA IACTA EST: la sorte è decisa, la sorte di chi? La sua, beninteso.
Cesare si lasciò ricadere sui talloni. La ronda si avvicinava. Cesare che durante i suoi anni di presenza da questo lato delle Alpi aveva imparato abbastanza gallico per comprenderlo, capì la parola d'ordine: FUORI I ROMANI!
Di nuovo il silenzio, turbato talvolta dai latrati di un botolo.
All'improvviso, Cesare che si stava assopendo per la stanchezza, sentì un tramestio nel corridoio che portava alla sua cella, poi dei passi. Si drizzò con tutto il corpo teso, le orecchie aguzze. Venivano a prendere il prigioniero per il supplizio.
“Ave Caesar!”
Il generale aveva davanti un uomo giovane, dall'alta statura che era ancora ingrandita da un elmo di bronzo ornato di corna, di un alto cimiero e di un pennacchio. L'identificò subito sotto il mantello bruno che ricopriva la cotta di maglia. Il capo delle tribù galliche che, dimenticando per un istante i loro incessanti conflitti, si erano alleate per fare a pezzi i romani, Vercingetorige!
Per non perdere un pollice della sua taglia, Cesare allunga il collo, poi incrocia le braccia, e con lo sguardo sfida il suo visitatore.
“Cesare”, disse il capo gallico che parlava un latino rozzo ma perfettamente corretto, “La fortuna ha cambiato campo, lei che ti è sempre stata favorevole. Lei ti amava perché riconosceva i tuoi meriti. Lo so meglio di chiunque altro. Tu sei un grande capo militare. Senza le tue lezioni, non saremmo probabilmente riusciti a vincervi”.
“Voi avete imparato a imitarci”, replica il romano.
Vercingetorige non rileva la provocazione e prosegue:
“Cesare, mi dispiace che noi ci ritroviamo qui in circostanze che né tu né io avremmo previsto quando eravamo amici”.
“Cesare ha subito uno scacco”, risponde il prigioniero, “Ma Roma non ha perso la partita. Vincerà, nessuno a lungo termine può resistere alla sua potenza. Tu hai sentito parlare di Cartagine. Questa città dominava il mare e i territori sul mare. Roma l'ha distrutta, non ne è restata pietra su pietra. Quanto pesa la Gallia con le sue tribù litigiose rispetto a Cartagine? Tu credi che tutta la Gallia ti segua o ti seguirà. Hai un bel praticare la terra bruciata, distruggere i raccolti, incendiare i granai per affamarci. Che speranza ha Vercingetorige quando Annibale ha fallito? Cartagine non esiste più, Roma sarà la padrona del mondo. La sua marcia verso l'imperium mundi è irresistibile”.
“Cesare, tu e io ci conosciamo troppo bene per mentirci. Tu non sei soltanto un grande capo militare, tu hai un destino politico. Roma e il mondo conoscono la tua eloquenza. Tu hai seguito l'insegnamento dei retori, tu hai il senso della formula, ma in quest'arte anche i Galli si difendono”.
“Te lo riconosco, sono dotati per la retorica, e tu hai frequentato la scuola dei druidi”.
“Si, Cesare, ma qui sono io, il Gallo, che parla il linguaggio della realtà, quello della tua disfatta”.
“Insomma, Gallo, cosa vuoi da me?”
“Che tu riconosca i fatti. Tu sei stato già sconfitto davanti a Gergovia, sei stato sconfitto davanti ad Alesia. Sono già passati più di sette anni dal tuo arrivo in Gallia. Sono più di sette anni che ti sforzi di combatterci. Nel frattempo, la situazione è profondamente cambiata. Unita, la nazione gallica fa indietreggiare Roma, non sarà sottomessa dall'ascia dei littori, ritroverà il suo onore e la sua libertà”.
“La nazione gallica? Che significa? Io non vedo che una fragile coalizione di tribù disparate, antagoniste, riunite al solo scopo di opporsi a Roma. Non basta riunirsi presso i Carnuti e pronunciare dei giuramenti solenni attorno a dei trofei di cinghiale. Il successo della vostra insurrezione sarà senza domani. Quando il pericolo vi sembrerà scomparso, voi ritornerete alle vostre discordie.
Le città si staccheranno dal tuo potere, diffidano di te come diffidano di tutti i nobili che aspirano all'autorità suprema”.
Cesare ebbe l'impressione di aver segnato un punto, il suo avversario si era di colpo irrigidito.
“Non devi nascondertelo, sospettose e ribelli ti abbandoneranno, e quando la sorte non ti sarà più favorevole, ti consegneranno al vincitore, ai Germani che per i vostri sbagli si fanno spazio in Gallia e che se voi persistete nell'errore, un giorno vi domineranno. Solo Roma vi può difendere da questo pericolo. Vi assicurerà i benefici della sua pace, e voi parteciperete alla sua gloria”.
“Perdonami Cesare, ma non siamo nel foro. Tu non metti in gioco la tua carriera di tribuno ma la tua vita”.
“Essa è al servizio di Roma”.
“Che oratoria! Ascoltami! Cesare, dopo Alesia la mia autorità non è più contestata. Io ho tutti i poteri, compreso quello di liberarti...Aspetta prima di protestare. Oggi come ieri sei promesso a un destino eccezionale. Tu sai meglio di chiunque altro raddrizzare una situazione. Tu sei abile. Questa eccezionale eloquenza che ho sottolineato ti permetterà all'istante di volgere l'opinione in tuo favore. Tu riporterai altre vittorie che faranno dimenticare Alesia. Tu disponi a Roma di numerose amicizie e di una clientela. Ti appoggerai sul popolo che non chiede che di ascoltarti”.
Cesare non ebbe un fremito.
Vercingetorige proseguì:
“Per liberarti, non metto che una condizione, tu rientrerai a Roma e dirai al Senato: “Io vengo perché ho visto e ne sono convinto. La nazione gallica ormai esiste. Qual'è il nostro interesse? Cosa abbiamo da guadagnare a volerla asservire? E' più saggio e più profittevole riconoscerla e concludere con essa trattati di amicizia secondo termini che rispetteranno il suo onore e la sua indipendenza. Così ci risparmieremo una guerra...”. Ti ascolteranno, non lo dubito. Queste sono le mie condizioni, Cesare, non chiedo di più”.
“Gallo, tu mi insulti se credi per un istante che Caio Giulio Cesare passerà sotto le tue forche caudine”.
“Io ti propongo un'alleanza, Cesare, alla pari”.
Cesare non fa una piega.
“Pensaci bene, poco fa hai parlato dei Germani. E' vero che abbiamo lo stesso nemico. Anche per voi costituiscono una minaccia. Un giorno che non è forse così lontano, sommergeranno le vostre frontiere e metteranno di nuovo Roma a sacco. Voi avete conservato un brutto ricordo del passaggio dei nostri fratelli e del riscatto di mille libbre d'oro che gli avete dovuto versare. Tu conosci la ferocia dei Germani, la loro occupazione sarà infinitamente più crudele. Contro questo pericolo la nostra alleanza vi proteggerà. L'avvenire è nelle tue mani, Cesare, io ti lascio un giorno per riflettere. Domani verrò a prendere il tuo responso”.
“Sarà lo stesso di oggi”.
“A domani, Cesare!”
Il romano salutò con un cenno del capo il guerriero che si avvolgeva nel mantello prima di lasciare la cella.

Un'altra notte trascorse senza che Cesare trovasse il sonno. Di mattina presto il gallo cantò di nuovo, per due volte. Presto Vercingetorige sarebbe tornato. Invano. Come poteva credere che Cesare si sarebbe umiliato per salvarsi la pelle? Domandare grazia? Follemente orgoglioso, questo Gallo. Il successo di Alesia gli aveva montato la testa. Si attribuiva a Vercingetorige l'ambizione di invadere la Narbonese, romanizzata da sessant'anni, di allearsi con quei Germani che pretendeva di denunciare per invadere l'Italia, bisognava fare di tutto per evitare questo disastro.
Cesare conosceva bene Vercingetorige, figlio di Celtillos, un capo arverno giustiziato dai suoi venti anni prima perché aspirava alla regalità. Ieri il giovane nobile aveva accusato il colpo quando Cesare aveva fatto allusione a quella morte. Il giovane manifestava una grande maturità, un coraggio, un'intelligenza politica, un'arte militare eccezionale. Se gli fosse stato lasciato campo libero, avrebbe finito per accordarsi con certi senatori romani il cui opportunismo non aveva bisogno di dimostrazioni. Fortunatamente l'intransigenza di Cesare e il suo sacrificio avrebbero impedito ogni compromesso. Roma sarebbe stata protetta, Cesare avrebbe avuto un posto eminente nel pantheon dei martiri, e la Gallia sarebbe stata sottomessa.
Da qualche parte, delle oche si misero a starnazzare, curioso a quell'ora della notte. Cesare si ricordò del Campidoglio che quei volatili avevano salvato un tempo, al momento dell'attacco gallico.
Un rumore echeggiò nella strada che si rischiarò all'improvviso di un luccicare di torce.
Di nuovo dei passi nel corridoio, Vercingetorige non aveva atteso il giorno.
Uno squillo di trombe lacera la notte.
La porta della cella si apre su un personaggio in tenuta da campagna che solleva il braccio e saluta alla romana.
“Ave Cesare. Lucio Caio Pandano della terza legione. Generale, sei libero. Tito Labieno e i suoi uomini stanno per raggiungerci. Abbiamo attaccato il punto debole di Gergovia”.
“Il retro della collina”.
“Si, generale, abbiamo penetrato le difese ed eccoci. Vercingetorige ha trovato la morte in combattimento. Avendo perduto il loro capo, i barbari si sono demoralizzati, si sono dispersi. Alesia doveva cancellare Gergovia. Ora Gergovia cancella Alesia.
Cesare apprezza la formula.
“Se tutto va come previsto”, riprende l'ufficiale,  “Fra qualche giorno attraverserai il Rubicone da vincitore”.
Cesare si disse all'improvviso che avrebbe potuto scrivere quel De Bello Gallico che aveva a cuore. Certo, aveva tolto l'assedio ad Alesia di fronte alla schiacciante superiorità numerica del nemico, ma questa abile manovra aveva permesso la vittoria di Gergovia. Da vincitore generoso, avrebbe reso omaggio al valore di Vercingetorige morto con la spada in mano. Nell'attesa del Rubicone di lì a tre giorni. Perché no?
Che cosa c'era scritto su quel muro?
Ah si!
ALEA IACTA EST.
Cesare se ne sarebbe ricordato.
 (Traduzione dal francese di Fabio Calabrese)

2 commenti:

  1. Da grande ammiratore della narrativa di Pierre Jean non posso che sottolineare la grande bellezza di questo scritto, reso magificamente in italiano dall'ottima traduzione di Fabio.

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  2. Bellissimo racconto di Pierre Jean, con il suo sfondo storico e
    grandi personaggi. Un maestro della narrativa.

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