Il
giorno che la nonna scomparve, pensai che se ne fosse andata via assieme alle
sue pitture che svanivano da un giorno all’altro.
Seppi
poi che non era così. Invece, era morta e avevano seppellito il suo corpo nel
cimitero del paese in mezzo ai carrubi, anche se allora pensavo che il suo
spirito vagabondasse nella vecchia dimora, consigliandoci all’orecchio,
sorridendoci con bontà e facendoci scoprire i segreti più nascosti.
Dopo
la notizia, arrivammo un pomeriggio a quella casona dove avevamo trascorso
tante domeniche felici in mezzo al trambusto dei cugini e ai rimproveri della
vecchia Ignazia, nera come il carbone che usava per cucinare nella scura cucina
macchiata di grasso, dietro al pollaio. Neanche il gallo cantava e tutto
intorno c’era tristezza per la scomparsa dell’anziana. Gli zii erano taciturni,
le zie vestivano in nero e nella fattoria non regnava più quell’allegria né
quella complicità fra i cugini che trasformavano le domeniche in casa della
nonna in giorni di cospirazione, confabulazione e intrighi.
Trovai
i tubetti delle pitture a olio e i pennelli di peli di martora logori per l’uso
dentro una scatola di legno. C’era pure la tavoletta per mescolare i colori. Fu
quello stesso pomeriggio che arrivammo per distribuire fra noi qualche oggetto
di ricordo appartenuto alla nonna. Scoprii la scatola di pitture dietro
l’enorme vasca di metallo smaltato con piedi di leone dove mi nascondevo da
piccola. Era la stessa che ci sembrava una piscina, quando facevamo il bagno
dentro, e che si trovava nella sala da bagno con ceramiche bianche e blu. La
scatola era proprio li, avvolta in una tela sotto la vasca.
Ricordavo
che quell’astuccio fu portato in regalo da un forestiero che si sedette con noi
a tavola una domenica nella soleggiata dimora della nonna. Rammentavo quella
mattina calda mentre svolazzava nell’aria il penetrante odore del gelsomino che
fioriva in un angolo del cortile.
Si
metteva a un lato del tavolo un posto per il forestiero, tutte le domeniche,
perché passava da quelle parti gente sconosciuta che suonava alla porta e non
lasciavamo mai andare via nessuno senza servirgli un piatto di riso e fagioli
assieme a qualche salciccia fatta in casa.
Quella
mattina fu speciale perché a un certo momento incominciò l’eclissi che oscurò i
dintorni come se fosse arrivata la sera e la pallida luce che riflettevano i
vetri colorati delle porte finestre dava un tono spettrale all’ambiente.
La
nonna fece sedere al tavolo il forestiero, anche se arrivò coperto con un
cappuccio. Noi nipoti stavamo tutte zitte giacché l’eclissi ci aveva messo in
ansia, in attesa della risposta alle nostre domande, come: uscirà ancora il
sole? Avremo sempre la nebbia intorno? Forse l’oscurità schiaccerà col suo
silenzio le nostre vite?
L’incappucciato
mangiò i fagioli senza scoprirsi e non potevamo guardarlo in faccia. Eravamo
insolitamente immobili vedendo le candele accese nei candelabri. Soltanto il
minore di tutti noi osservava irrequieto, con la coda dell’occhio, cercando di
smascherarlo, ma riuscì a vedere soltanto la sua mano con quelle dita
incredibilmente lunghe. Allora, la forchetta gli tremava in mano per la paura
nascosta e i suoi occhi si riempivano di lacrime e il naso di candelotti, che
si puliva con il rovescio della mano.
Io,
invece, ero sorpresa che la nonna non gli chiedesse di togliersi il cappuccio,
in quanto non era un’abitudine sedersi al tavolo con la testa coperta né di
cappelli, né di scialli né di mantelline. Lei, invece, gli parlò con molta
considerazione e simpatia raccontando dei suoi molti nipotini, dei figli che
lavoravano in campagna coltivando l’uva e il cotone; del vino che si produceva
nelle cantine così come pure dell’acquavite o pisco fabbricato con
un’antica ricetta. Non mostrò fastidio per il cappuccio con il quale il
forestiero intransigente continuò a coprirsi la faccia mentre mangiava.
Poi,
quando ci alzammo da tavola, era finita l’eclissi e tutto era tornato normale,
come prima. Da sotto il suo manto talare, l’ospite sconosciuto trasse un astuccio
di legno che dette alla nonna, come ringraziamento. Conteneva i tubi di pitture
a olio e i pennelli. Vidi la nonna dipingere molte volte sulla tela che c’era
nel salotto, ma non vidi mai i suoi quadri finiti.
‒ Questo è
in regalo perché non ti manchi niente ‒ disse l’incappucciato
prima di tornare nel deserto. Non era, quindi, una cattiva persona. Era
affabile, riconoscente anche se misterioso. Poi, facemmo commenti sul suo
colore incerto e la forma delle mani; la nonna ci rimproverò e ci obbligò a mantenere
quei ricordi nello sgabuzzino della memoria.
Quella
stessa scatola, regalo del forestiero che si era seduto con noi al tavolo
domenicale, fu quella che io trovai sotto la vasca con i piedi di leone nella
sala da bagno della nonna, mesi dopo la sua morte. Gli zii mi lasciarono tenere
l’astuccio, come ricordo, così come una tela in bianco per dipingere.
Assieme
ai colori e ai pennelli, trovai una serie di piccoli fiaschi, alcuni con
liquidi e altri con polvere macinata. Decisi di provare i colori della nonna.
Finalmente finii il mio primo quadro ed ero molto orgogliosa. Avevo creato un
vaso con rose, gigli e lillà.
Il
giorno dopo, la tela del quadro era bianca e un vaso di fiori si trovava sul
tavolo vicino. Fui terribilmente sorpresa e sbigottita.
Non
erano fiori vivi, ma di un materiale che sembrava plastica brillante. Quelle
pitture magiche facevano staccare le immagini dal quadro in tutte le loro
dimensioni e io tenevo in mano un vaso con dei fiori che avevo dipinto sulla
tela il giorno prima. Accomodai le foglie, passai le dita lungo i fusti e i
petali, e mi accertai che anche le spine fossero morbide.
Fui
così meravigliata che quel pomeriggio mi affrettai a riempire la tela con un
altro dipinto. Disegnai una farfalla che coprii con i colori più svariati. Era
così bella che sembrava fosse vera e stesse per volare fuori della sua
prigione.
Invece,
il giorno dopo trovai la farfalla vicina al quadro con gli stessi colori. La
portai fuori all’aperto. Vidi che era fatta di una stoffa delicata e diafana e
che volava con la brezza. Ma non era viva. Non potevo dipingere la vita. Gli
oggetti saltavano fuori del quadro, ma non respiravano. Erano cose e non esseri
viventi.
Molto
intrigata per quel mistero, continuai dipingendo sulla tela con le pitture
della nonna e apparirono in casa una quantità di cose che si staccavano e
potevano agitarsi come la farfalla, ed erano oggetti come casette in miniatura,
barchette, alberelli, tutti in materiali colorati, brillanti e leggeri.
Allora
ricordai che la nonna ci faceva giocare con bambolotti assai originali e che
non si trovavano da nessun’altra parte. Probabilmente erano tutti prodotti
dalla sua fantasia e dalle pitture magiche del forestiero. Pupazzi che
saltavano fuori del quadro durante la notte e che apparivano accanto come
oggetti, il giorno dopo.
Decisamente,
non erano di questo mondo. Io ebbi così la certezza che anche quel forestiero
arrivato il giorno dell’eclissi era un extraterrestre, come molti altri ospiti
di passaggio che si sedettero al tavolo nella casa antica. Capii che la nonna
lo aveva sempre saputo.
Siccome
continuai a dipingere, cominciarono a finire i tubi di pittura e la casa fu
riempita d’oggetti brillanti e colorati. Con le ultime pennellate volli
realizzare un quadro da ricordare e dipinsi la nonna in piedi con il canarino
celeste in mano, come si vedeva in una fotografia appesa accanto alla scala
dell’entrata. Usai le polverine e mescolai le pitture con i liquidi che
rimanevano nei fiaschi. Finito il tutto, sparsi sul quadro la sabbia granulosa
che diede alla pittura una patina antica e sobria.
Quasi
svenni dalla meraviglia il giorno seguente, svegliandomi, quando trovai mia
nonna a gironzolare per la casa, con il canarino celeste pigolante sulla mano,
uguale al dipinto che avevo fatto sulla tela. Era più piccola di quel che
ricordassi, o forse era così che era scesa dal quadro, e vedendomi sorrise.
‒ Grazie ‒ mi disse ‒ per avere liberato il
mio spirito. Hai fatto bene ad adoperare quelle magiche polverine. Adesso so
dove devo andare. ‒ Con passo lieve uscì da
casa e si diresse verso il deserto fino a che la sabbia si alzò con il vento e
non potei più distinguere la sua sagoma lontana. Svanì in mezzo alle dune.
Non
seppi mai se fu soltanto un sogno o se era successo veramente che la nonna
fosse uscita dal quadro camminando e se ne fosse andata fuori di casa. Avvolsi,
dopo quel giorno, quanto rimaneva della scatola delle pitture, assieme alle
polverine e ai liquidi, e li seppellii sotto il gelsomino in fiore che cresce
su per i muri, il cui odore penetrante continua a insinuarsi intorno ai
corridoi di travi scricchiolanti. Non seppi mai più niente sul visitatore
incappucciato che arrivò quel giorno dell’eclissi, anche se, in ricordo della
nonna, pure in casa mia, sul tavolo della domenica, c’è il piatto del
forestiero che aspetta.
Forse
un giorno tornerà a rivelare antichi misteri.