Samuel Bosch interruppe
lo zapping con il telecomando per aprirsi una nuova lattina di birra virtuale.
La birra
virtuale, gli venne da pensare, era davvero un'invenzione stupenda: in pratica
non si trattava che di acqua colorata, ma che conteneva in sospensione delle
nanoparticelle che oltre a formare la caratteristica schiuma, facevano sentire
al palato il gusto della birra vera, e se se ne bevevano grandi quantità,
produceva l'effetto euforizzante tipico degli alcolici, ma non c'erano gli
atroci mali di testa del doposbronza, e tanto meno le conseguenze a lungo
termine dell'alcolismo o del consumo abituale di alcool.
Dopo
aver tracannato il contenuto della lattina, la schiacciò e la gettò in un
angolo.
“Prima o
poi dovrò decidermi a fare un po' di pulizia”, pensò.
Prima o
poi. Il fatto era che la sua casa si stava trasformando in un porcile, e a lui
non importava per nulla. Se fosse stata viva la sua povera Clara, pensò,
avrebbe sofferto a vedere la casa ridotta in quelle condizioni, lei aveva la
fissazione per l'ordine e la pulizia, ma ora non cambiava nulla: Clara non
c'era più, e questa era una delle cose a cui Sam si era dovuto abituare con
sofferenza e fatica.
Sam
Bosch era pensionato e vedovo: i figli si ricordavano di lui soltanto
facendogli una telefonata per Natale. Nessuno veniva mai a trovarlo, poteva
tenere la casa in disordine quanto voleva.
Riprese
in mano il telecomando.
L'apparecchio
che aveva di fronte era un televisore, come erano televisori quelli dalla metà
del XX secolo in poi, ma confrontare l'uno con gli altri era come confrontare
un Jumbo Jet con trabiccolo fatto di tela e tubi per bicicletta dei fratelli
Wright.
L'apparecchio
era del tipo a proiezione di realtà virtuale. In condizioni ottimali di messa a
fuoco, si vedeva e si viveva tutto quanto era stato registrato da una
telecamera esattamente come a essere proprio lì sul posto.
Sam
premette il telecomando, e di colpo il salotto di casa si trasformò in una
giungla lussureggiante, una giungla senza fiori ma con felci gigantesche,
quelle strane piante chiamate equiseti, e vari tipi di conifere. Sam comprese
subito di aver trovato uno dei vari sequel di Jurassic Park, il venticinquesimo
o il ventiseiesimo, pensò.
Una
frotta di piccoli sauri gli venne incontro correndo: erano bestie all'incirca
delle dimensioni di un pony. Prodotti con tecniche di clonazione,
probabilmente. I grandi tetrapodi, apatosauri e diplodochi che non era
conveniente clonare, e i carnivori la cui clonazione era proibita, potevano
essere degli animatronics o anche delle simulazioni di computer graphic, ma
quei sauri lì erano con tutta probabilità dei cloni, dei veri organismi viventi
che erano ripetutamente usati nei film della serie.
Sam
provò un moto di orgoglio e quasi di affetto verso quelle creature. Aveva
trascorso la vita nei laboratori di clonazione, la vita lavorativa almeno,
prima di arrivare alla quiescenza; quelle creature erano un po' suoi figli.
Un sauro
che sembrava una lucertola ritta sulle zampe posteriori e delle dimensioni di
un cavallo, si diresse dritto verso Sam e il divano su cui era seduto, ma
all'ultimo momento scartò dirigendosi verso destra.
Questa
era una cosa che si notava facilmente: quei nuovi televisori avevano una certa
capacità interattiva, potevano modificare entro certi limiti la proiezione del
programma, in questo caso in modo da non creare interferenze fra la pellicola e
lo spettatore.
Dietro
il branco di sauri in fuga comparve una bestia di grosse dimensioni e dall'aria
feroce, un tirannosauro. Sam sapeva bene che quello era con tutta probabilità
un animatronic o addirittura un'immagine virtuale generata da un computer e
sovrapposta al filmato, e in ogni caso non era fisicamente lì, ma faceva
impressione lo stesso.
Il sauro
si fermò a due passi da lui e spalancò la bocca enorme emettendo un ruggito.
Questa naturalmente era una ricostruzione di fantasia, perché nessuno sapeva
quali suoni emettessero realmente i dinosauri decine di milioni di anni prima.
Se anche fosse stato un animale vero, gli venne da pensare, era una fortuna che
la realtà virtuale riproducesse le impressioni visive e uditive ma non quelle
tattili od olfattive, perché i grandi carnivori avevano in genere un alito
micidiale a causa dei brandelli di carne delle loro prede che marcivano negli
spazi fra i denti. Questa era in genere un'arma in più nel loro arsenale: se
non ammazzavano la preda con il morso, l'ammazzavano con la setticemia. Alcuni,
come il varano di Komodo, basavano la loro strategia di caccia proprio su
questo.
Il
tirannosauro ruggì di nuovo e avventò le mascelle proprio verso Sam,
richiudendole con uno scatto secco.
Per un
istante Sam fu avvolto da uno sfarfallio luminoso: il programma doveva avere un
difetto. Comunque, si era stufato di quella bagarre preistorica.
Agguantò
il telecomando e premette un pulsante cambiando canale a caso. Stavolta si
trovò proiettato in uno studio televisivo.
Riconobbe
la persona intervistata: era l'attore Silver Stallion che sapeva, proprio in
quel periodo era impegnato nelle riprese di Rambo XXVIII.
“I miei
legali”, stava dicendo l'attore, “Hanno raggiunto un accordo con quelli di
Selvie Stahl. A me rimane il personaggio di Rambo, a lui quello di Rocky”.
A Sam
venne da sorridere. La clonazione di personaggi dello spettacolo era una
faccenda delicata, e lui era orgoglioso di averci lavorato. Ricordava quando la
sua azienda aveva cercato di clonare Marilyn Monroe. Dopo un certo tempo si
erano accorti con sbigottimento che l'embrione era maschio. Un più attento
controllo aveva rivelato che il materiale genetico etichettato come “Marilyn”
proveniva da un uomo, un certo Manson.
“Mi
scusi”, chiese l'intervistatore all'attore, “Ma lei non pensa che se oggi le
produzioni cinematografiche e televisive, tra sequel, prequel e remake,
presentano una grande ripetitività e scarsa creatività originale, soprattutto
sequel di sequel di sequel, questo non sia anche dovuto al fatto che la maggior
parte degli attori sono cloni di divi del passato”.
“Capisco
cosa vuol dire”, rispose Silver Stallion, “Ma tenga presente che una volta la
maggior parte degli attori erano figli d'arte e per un nome nuovo inserirsi non
era più facile di adesso. Noi cloni abbiamo rispetto ai figli naturali il
vantaggio di una garanzia in più di aver conservato le qualità dei nostri
originali”.
L'attore
prese poi a parlare della nuova pellicola: nel cast ci sarebbero stati George
Clone e Colin Seventh.
Sam
cambiò di nuovo canale. Questa volta era uno spettacolo musicale, c'era un duo
che si stava esibendo, due cantanti italiani, Romano e Albina, erano anche loro
due, ovviamente, dei cloni. In realtà Albina non era proprio italiana. A Sam
pareva di ricordare che il suo originale era stata un'americana, figlia di un
attore hollywoodiano un tempo famoso, gli sembrava che si chiamasse Tower.
Non aveva
voglia di sentire musica, fece di nuovo zapping. Questa volta capitò su di una
serie di spot pubblicitari ma non cambiò canale. Ignorando le dimostrazioni di
efficienza di una cucina robot e di un'automobile che si guidava da sé che si
svolgevano intorno a lui, Sam si abbandonò ai propri pensieri. Provava una
certa fierezza per aver lavorato nel campo della clonazione, che al presente
era uno dei settori produttivi più dinamici. Essa, era ovvio, aveva
applicazioni non soltanto nel mondo dello spettacolo.
La
clonazione era spesso usata a fini medici: partendo da una coltura di cellule
prelevate a un paziente, era possibile far crescere organi per sostituire
quelli difettosi: cuore, polmoni, fegato, reni intestino, pelle, muscoli,
scheletro, praticamente ogni parte del corpo umano poteva essere sostituita,
c'era solo un inconveniente: i costi elevati e la tempistica lunga per far
crescere gli organi in vitro. I ricchi vi avevano accesso facilmente,
garantendosi di fatto una sorta d'immortalità, sostituendo uno per volta gli
organi che si rivelavano difettosi, ma chi non aveva i loro mezzi doveva
accontentarsi di soluzioni di ripiego.
Samuel
Bosch ad esempio aveva scoperto anni prima di avere un tumore ai polmoni,
regalo di una vita di fumatore eccessivo, e il trapianto di polmoni era fuori
dalla sua portata economica. Glieli avevano sostituiti con un paio uscito da
una stampante 3 D.
Funzionavano
abbastanza bene, a parte qualche volta in cui gli mancava il respiro, se non
faceva sforzi eccessivi, e lui di sforzi non ne faceva proprio, né eccessivi né
moderati.
La prima
volta dopo l'operazione che aveva avuto un attacco di tosse, si era spaventato.
Espettorare muco nerastro non è la cosa più bella del mondo, ma si a
l'abitudine a tutto.
“E'
semplicemente carbonio”, gli aveva spiegato il dottore, “ibra di carbonio che
costituisce il materiale con cui sono stampati i suoi polmoni. E' chiaro che
con il tempo andranno incontro a un certo deterioramento”.
“Dottore”,
aveva chiesto, “Cosa significa col tempo?”
“Dai quattro
ai dieci anni, con una media di sei-sette prima di morire per insufficienza
respiratoria. Questo è il tempo che le rimane da vivere”.
Era
stato...era stato, si fermò un attimo a pensarci, cinque anni prima.
L'idea
di morire non lo spaventava, era un'alternativa preferibile a un'esistenza
vuota di pensionato solitario.
Prese
un'altra lattina di birra virtuale.
“Quando
sarò morto”, pensò, “Troveranno il mio corpo e vedranno che ho lasciato questa
casa veramente uno schifo”.
Ma in
realtà si rendeva conto che non gliene importava nulla.