Durante la notte si era
scatenato maltempo, uno di quei temporali estivi che quando ci si mettono sono
peggio delle bufere invernali. Era piovuto a scroscio, e il vento aveva portato
le raffiche di pioggia a battere con rabbia contro i vetri delle finestre. Al
mattino la temperatura era scesa di diversi gradi. Per fortuna, io e Daniela ci
eravamo portati dietro i giubbotti.
Eravamo, tutto il nostro
gruppo, nell'ufficio di fianco al pontile d'imbarco dei traghetti.
L'impiegata dell'agenzia
scosse il capo.
“No”, tornò a dire, “non
è possibile, le escursioni all'Isola della Forcella sono sospese. Il traghetto
non può prendere il mare, oggi il mare è troppo grosso. Domani, l'escursione è
spostata a domani”.
Le facemmo presente che
quello era l'ultimo giorno della nostra permanenza che l'indomani la nostra
comitiva sarebbe stata già sulla via del ritorno.
“Quando è così”, disse
lei in tono sconsolato, “non posso fare altro che rimborsarvi i biglietti”.
Ci rivolgemmo verso la
nostra guida.
“E adesso che si fa?”,
chiesero più voci.
Andare in spiaggia era
escluso. Il temporale era passato ma c'era appena uno spicchio di sole pallido
fra le nubi, la sabbia dell'arenile era umida, e la temperatura era piuttosto
scesa.
“Sentite”, disse lui,
“Se vi va, potremmo fare una gita nell'entroterra, potremmo andare fino a Colle
Amaro”.
“Cosa c'è di interessante da quelle parti?”,
chiedemmo.
“E' un borgo
abbandonato”, rispose l'uomo, “con delle rovine medioevali di un certo
interesse archeologico”.
Si accese una
discussione. A qualcuno la cosa interessava, ad altri no.
“Non c'è problema”,
disse la guida, “chi non è interessato, può rimanere in albergo”.
A me non andava di
passare l'ultimo giorno di vacanza tappato in albergo, ma Daniela era di parere
opposto al mio. Immaginavo che per lei l'idea di una scarpinata con pranzo al
sacco fosse molto meno allettante di una partita a bridge con le altre ospiti
dell'albergo, e di un giretto alla boutique.
“Ma non ti preoccupare,
Roberto”, mi disse, “vai pure, ci vediamo quando tornate”.
La nostra comitiva si
divise. Il gruppo che salì sul torpedone, fra cui io, era decisamente meno
della metà, e in netta maggioranza uomini, c'era solo una ragazza, quella tipa
biondina che mi parve avesse una simpatia particolare per la nostra
guida-autista.
Mentre filavamo, vidi
che la campagna attorno aveva un'aria selvatica e arruffata.
“Colle amaro, che strano
nome!”, commentò qualcuno.
“E' stato chiamato
così”, rispose la guida, “dopo che il villaggio medioevale è stato distrutto.
Prima pare che si chiamasse Colle Ridente”.
All'improvviso fu come
se un colpo di fucile echeggiasse alle mie orecchie, mi sembrò che quel nome
evocasse una serie di ricordi dentro di me, ricordi che non riuscivo ad
afferrare, eppure a tratti stranamente vividi.
Guardai la campagna
attorno, mi parve di ricordare che ai miei tempi non era così selvatica e
invasa dai rovi, molta più gente di adesso viveva nelle campagne, e ogni zolla
era coltivata per trarne sostentamento, ma non riuscivo a capire quali fossero
“i miei tempi”.
“E com'è successo?”,
domandò ancora qualcuno al nostro mentore.
“Non si sa di preciso”,
rispose l'uomo senza staccare gli occhi dalla strada e le mani dal volante, “ma
a quanto pare fu una disputa confinaria con quelli di Borgo Alto, di quelle che
oggi si risolvono con perizie del catasto e carte bollate, e a quei tempi si
risolvevano a lancia e spada. Il signore Ariberto che comandava gli uomini di
Colle Ridente fu sgozzato da una freccia nella battaglia del Sasso Grigio, un'altra
località qua vicino, e la sua truppa fu disfatta, poi gli uomini di Borgo Alto
andarono a saccheggiare il paese e il maniero di Ariberto, di cui vedremo i
ruderi”.
Non so perché, ma
istintivamente portai la mano alla gola; il collo è sempre stato la mia zona
delicata, facilmente soffro di laringiti.
L'asfalto finì lasciando
il posto a una strada bianca sterrata, dopo una curva della quale Colle Amaro
fu davanti a noi.
Del villaggio non era
rimasto quasi nulla, solo pochi antichi spezzoni di muro che emergevano tra
l'erba e i rovi. Del castello, la cinta muraria esterna era del tutto
scomparsa, rimaneva un troncone smozzicato del mastio. Inspiegabilmente, provai
una specie di fitta al cuore.
Forse per compensare i
gitanti del fatto che le rovine non apparivano particolarmente suggestive,
l'autista-cicerone, una volta parcheggiato il mezzo era diventato molto
loquace.
“C'è una leggenda molto
poetica riguardo a questa vicenda”, disse, “Amalia, la vedova di Ariberto era
una donna bellissima, e il signore di Borgo Alto era segretamente innamorato di
lei. Mandò a informarla che se avesse acconsentito a sposarlo, non avrebbe
fatto alcun male agli abitanti di Colle Ridente, i due borghi sarebbero
divenuti un unico feudo, e la pace sarebbe stata ristabilita. Amalia gli fece
sapere che mai, a nessun patto avrebbe sposato l'assassino di suo marito,
allora lui fece incendiare il paese e il castello e passare a fil di spada gli
abitanti. Da allora la località ha cambiato nome. Colle Ridente è diventato
Colle Amaro”.
“E questa me la chiama
una storia poetica?”, chiese un mio compagno di gita, “a me sembra una storia
orribile”.
“No”, replicò la guida,
“lei deve capire il contesto. A quei tempi i matrimoni erano perlopiù decisi
dalle famiglie degli sposi, erano una questione di alleanze di potere, di
affari. Ariberto e Amalia invece si amavano appassionatamente. Pare che i
cantastorie e i menestrelli locali abbiano cantato per lungo tempo il loro
amore infelice e il sacrificio di lei”:
D'un tratto ricordavo,
si, mi ricordavo di Amalia come se l'avessi avuta davanti, non facevo fatica a
visualizzare il suo viso dai lineamenti delicati e l'ovale perfetto, la dolce
curva del suo seno, i lunghi capelli biondi che le scendevano morbidi sulle
spalle. Era Daniela che non riuscivo a ricordare, i suoi lineamenti si erano
fatti indistinti nella mia mente, come la reminiscenza di qualcuno conosciuto
in un'altra vita.
Il racconto di
quell'antica vicenda mi aveva stranamente trasmesso un senso di amarezza, come
se fosse stata una cosa che mi riguardasse personalmente, tuttavia provavo una
singolare soddisfazione all'idea che Amalia era stata fedele, Mi era stata
fedele fino all'ultimo.
Scesi dal torpedone, ci
eravamo sparpagliati all'intorno, e vidi che molti, secondo l'abitudine oggi in
voga, scattavano foto con gli apparecchi fotografici o con i cellulari. Io,
preso da un impulso incontenibile, e ignorando un vistoso cartello di divieto
che avvisava anche “struttura pericolante”, raggiunsi il mozzicone del mastio e
inforcai l'entrata che era lì ad aspettarmi, e mi parve che fosse una specie di
orbita vuota, ormai priva del globo oculare ma ancora misteriosamente dotata di
un qualche potere di visione.
Dentro era pieno di
pietrame caduto, rovi, muschio, sporcizia di ogni tipo. Me l'ero aspettato ma
provai un'altra fitta al cuore.
Gli altri del nostro
gruppo, pensai, mi avrebbero aspettato, beh, di certo non se ne sarebbero
andati senza il buon Roberto. Roberto? Roberto? D'un tratto ebbi la percezione
confusa che nel mio nome, nel nome che avevo portato per tutta la vita, ci
fosse qualcosa di sbagliato.
I miei me l'avevano
raccontato non so quante volte. Poco prima che nascessi avevano avuto un'accesa
discussione sul nome da darmi, poi all'improvviso si erano trovati d'accordo su
Roberto senza sapere come, come se qualche misteriosa entità glielo avesse
improvvisamente sussurrato all'orecchio, Roberto o un nome simile... Ariberto
ecco, mi suonava meglio.
In un angolo c'erano
alcuni gradini intagliati nella roccia che scendevano fino a una sorta di cella
interrata non più di un paio di metri sotto il suolo. Mi diressi là, io non
sapevo dove stavo andando ma i miei piedi sembravano saperlo benissimo.
Al termine dei gradini
mi trovai in uno spazio rettangolare tra pareti di terra, vagamente simile al
pozzo di un ascensore.
Sapevo che una di quelle
pareti era falsa: un pannello di vimini ricoperto di terriccio che si poteva
rimuovere con facilità, celava un condotto sotterraneo che in caso di necessità
permetteva la fuga dal castello passando sotto le mura.
Le mie dita si mossero
veloci, era singolare che dopo tanti secoli tutto fosse rimasto esattamente
come lo ricordavo.
Rimossi il pannello e mi
addentrai nell'apertura buia, mosso da una volontà che non era la mia.
Ricordavo un lungo
tunnel buio che con un percorso tortuoso portava oltre quelle che un tempo
erano state le mura del castello, sbucando al riparo di una discreta macchia di
alberi, invece dopo pochi passi mi ritrovai all'aperto in pieno sole, con la
luce che mi abbagliava.
Alzando gli occhi, vidi
profilarsi contro il cielo la familiare sagoma del Masso Grigio, quella grossa
rupe scabra che segnava il confine fra i domini di Colle Ridente e quelli di
Borgo Alto.
La seconda cosa di cui
mi accorsi fu il senso di peso. I miei abiti erano cambiati, e sotto una
sopravveste colorata indossavo una maglia di anelli metallici.
Quella cosa attorno a
cui le mie mani si stringevano convulse, era l'elsa di una spada.
A pochi passi da me
c'era Ottavio, il mio gastaldo: era un uomo ormai anziano, e con una vita
trascorsa perlopiù in occupazioni pacifiche. Per l'ennesima volta non potei
fare a meno di constatare che l'armatura non faceva altro che evidenziare gli
strati di adipe che con gli anni gli si erano depositati sui fianchi e
sull'addome, dandogli un aspetto più grottesco che guerriero.
Accanto a Ottavio c'era
un giovane guerriero la cui figura formava un singolare contrasto con quella
rotondeggiante e poco militaresca del gastaldo. Per un istante, faticai a
riconoscerlo, era Iacopo, il mio scudiero, un giovane alto e magro dai
lineamenti spigolosi, Iacopo degli Alberico, una famiglia amica che me l'aveva
affidato perché mi servisse come scudiero e imparasse da me le regole del
cavalierato. Reggeva il grosso scudo rotondo che era il suo emblema familiare,
che recava due serpenti che si guardavano affrontati con aria minacciosa e che
erano, come ci teneva a precisare, un simbolo familiare ereditato dai tempi
delle crociate, due marassi dell'Asia.
“Si ripari, signore”, mi
gridò, “quelli di Borgo Alto stanno tirando le frecce!”
Fu l'ultima cosa che
udii prima di percepire un dolore improvviso e violento alla gola.