Non veder, non sentir m’è gran ventura
Michelangelo
Gli abeti, non pochi, erano
però assai spelacchiati, paurosi, come colpiti da qualche virus.
“Non li ricordavo – dissi a mia madre accanto a me in macchina – così
brutti”.
“Cosa?”, chiese lei da sotto le spesse lenti affumicate. Non aveva capito a
cosa mi riferissi.
“Gli abeti, mamma”, precisai, “gli abeti sono spelacchiati”.
“Davvero, Gianna? Non ci avevo mai fatto gran caso...”.
“Forse, mamma, sono sempre stati così”.
“Boh!”, concluse e la vidi addormentarsi in pochi attimi. Russava.
Sette chilometri ancora fino al passo, poi una bella discesa e saremmo
giunte al paese.
E sinceramente continuavo a chiedermi per quale motivo mi fossi offerta di
accompagnare mia madre Alda al paese. Erano ormai svariati anni che mi
rifiutavo di partecipare a quella delirante cerimonia sulla quale nessuno
pareva avere niente da ridire o commentare. Questa volta una molla del cervello
era malauguratamente saltata: di mia sponte, quasi con inspiegabile entusiasmo
– che aveva in qualche misura sorpreso anche una donna semianestetizzata come mia madre - avevo aderito alla paurosa
iniziativa, del tutto inutile nonché demenziale comunque si rigirasse la cosa.
Già vedevo la porta antica che s’avanzava, l’unico rudere decente del nostro
paesello insieme alle vecchie mura. La vettura con figlia e madre la stava
attraversando a velocità assai moderata. Facile figurarsi che quell’arco fosse
soprattutto la porta di un inferno custodito con cura.
Vetrine e vetrinette, le stesse. Io, la stessa. Mia madre, la stessa. Tutto
è lo stesso, malgrado il tempo, tutto è sottratto al tempo. Io, la donna più
brutta del quartiere e forse anche della città intera, o perlomeno fra le più
brutte. Si comincia dalla faccia, che ha l’indubbio monopolio su tutto il
resto, viso malamente scolpito, non finito. O, più in dettaglio: viso da
criceta, forse da topa di fogna o magari topa da esperimento. Con fila di denti
superiori mai coperti dalle troppo sottili labbra, talvolta violacee talvolta
verdi e quasi trasparenti. Dipende da come cade la luce, se è artificiale o
solare. Dipende. Con mento che si salda mollemente al busto, escludendo la
possibilità di collo. Corpo da scricciolo, sottosviluppato, facile da
stritolare. Con esili braccia, che magari ogni tanto si mettono a tremare. Con
mani minuscole. Con unghiette piccole e ben curate, almeno quello. Con capelli
perennemente unti e calanti (ma perché?). Con gobba. Non così pronunziata,
certo, ma comunque un dettaglio, di cui non c’era bisogno, che si somma ad un
quadro generale già spaventoso di suo. Non si può inoltre tacere della voce,
anzi vocina, piccola, minuscola, tutta frequenze alte, altissime, sgraziate,
tanto da muovere al riso l’ascoltatore. Tutto sembra un cartone animato, ma in
realtà sono io, la più sgraziata e disgraziata delle donne, dotata non di voce
ma di disco che si ode dalle viscere di una bambola Furga.
Poi, come accennavo, ho le ossa di zucchero, graziosissime da frantumare.
Forse faranno, ove maciullate, un rumore da scheletro di quaglia d’allevamento,
pigolante e prigioniera nel pugno dello chef boia. Una stretta più forte e
decisa: e io reclinerò il collo in avanti, docile e cadavere. Cosa che
in realtà non mi è tanto facile realizzare da sola nel
mondo degli uomini, un po’ per rabbia mia profonda, un po’ per costrizioni
oggettive. In altri termini: non m’ammazzo perché spero di vendicarmi, di
rifarmi, di avere giustizia. E perché c’è mia madre, l’odiata. “Non puoi darle
anche questo dispiacere”. Tutti i giorni, domenica esclusa, salva la messa
centrale, fuori casa con codesta per la passeggiata di rito, entro la quale si
fa rientrare anche la cerimonia della spesa e dell’irrisione celata - nei miei
confronti - da parte dei negozianti. Alcuni bottegai sono ormai morti: li ho
conosciuti sin da quando ero bambina e già brutta come oggi, e mia madre,
triste sempre, colpevole sempre, mi portava nei fondi bui e impregnati di
spezie, incatramati, ove mi spettava una sottile fettina di mortadella da
assaggio. Guai se la mortadella non ci fosse stata; trattavasi di una sorta di
compensazione. All’inizio perché ero piccola, poi per il mio stato mostruoso.
Dalla bottega fino ai neon di supermercati ove l’esposizione agli sguardi del
pubblico è massima e ove occorre un robusto allenamento psicologico per non
soccombere, sebbene ciò che la gente pensa sia sempre la stessa cosa: guarda
che mostro, giriamoci dall’altra parte. “Guarda che orrore, poveraccia, ma
certo sarà abituata ad essere osservata”. “Come, del resto, si può evitare di
guardarla”. Come, del resto, si può evitare di guardarmi? Vorrebbe dire essere
privi della vista. E poi c’è al solito mia madre, non bella ma neppure un
mostro come me: tollerabile, in fondo. Coi suoi baffi da vecchia, ma questo è
quasi nulla. Mia madre che cammina dietro di me, mai davanti. Una bella
coppietta, dunque, anche se risulta poco chiaro se io sia la guardiana di mia
madre oppure ella la mia tutrice, l’angelo badante, del resto responsabile
della mia venuta al mondo. La quale genitrice, credo io, non si renda
perfettamente conto del tipo di gravame che mi ha consegnato dandomi alla luce.
O meglio: sente, come un animale, di aver fatto un grave sbaglio, percepisce la
colpa su di sé, ma sa anche come ridurre la questione, nel suo intimo, ad un
nulla. Il tutto le viene naturale e insieme le conviene.
(Fine prima parte
di abbozzo di stesura, estate 2016, Roma)