lunedì 29 agosto 2016

INTERMEZZO di Paolo Durando

Sollecito
Accoliti Spa (accoliti@ea.rth  
a: Francesca Tura                          
15 gen      8:30
Gentile prof.ssa Tura,
dopo aver tentato inutilmente di contattarla ai numeri di telefono fisso e cellulare in possesso della Accoliti Spa, speriamo che risponda a questa mail.
Da un recente controllo dei dati, risulta che mancano ancora due sue firme nella pratica che la riguarda, nonché il timbro dell’Istituto scolastico in cui insegna, che ci risulta essere il liceo Abdul Khemal.
Immaginiamo che lei sappia che, se non rimedia a queste mancanze, potrebbe andare incontro a pesanti conseguenze. Queste, ovviamente, non riguarderebbero solo lei ma anche i suoi familiari.
La preghiamo pertanto di presentarsi al più presto ai nostri uffici, gli orari di apertura: 9-12  15-18.
Cordiali Saluti
Dott. O. Sarek
Re: Sollecito
Francesca Tura (francescatura@gmail.com)
a: Accoliti Spa                                  15 gen  h 17.03
Signor Sarek, ho ricevuto la vostra mail, ma non capisco di cosa si tratta.
Io non conosco nessuna Accoliti Spa, non ho nessuna pratica in corso. Deve trattarsi di un equivoco. Quanto alle telefonate che dichiarate di avermi fatto, forse ricordo di averle ricevute. Non avevo risposto perché ho deciso di ignorare i numeri sconosciuti. Solo per sbaglio ho aperto questa mail, avendo confuso stupidamente l’oggetto per il mittente (Sollecito è il cognome di un mio caro collega). Mi riprometto in futuro di non aprire d’istinto le mail perché poi mi sento obbligata a rispondere, il che è seccante e mi porta anche via del tempo prezioso.
Francesca Tura
Re: Re: Sollecito (accoliti@ea.rth)
a: Francesca Tura                        
15 gen. 18:25    
Signora Tura,
forse è lei ad essere caduta in equivoco.
Noi sappiamo bene chi è lei, dove abita, conosciamo i suoi  progetti, che poi costituiscono il motivo per cui si è rivolta alla nostra organizzazione. Non pensiamo che abbia un problema di identità o di memoria, ma se lei continuasse a misconoscerci sarebbe quanto meno imbarazzante. Ci troveremmo costretti a presentarci al vostro domicilio e chiarire la questione in corso secondo modalità che potrebbero non essere piacevoli.
Confidiamo nel suo buon senso e aspettiamo di riceverla nella nostra sede, per discutere definitivamente la vostra posizione.
Dott. O. Sarek
Re: Re: Re: Sollecito
Francesca Tura (francescatura@gmail.com)
a: Accoliti Spa                        
16 gen  h 12:17
Signor Sarek,
La informo che sono stata alla polizia postale per sporgere denuncia. Vi intimo di non disturbarmi oltre, in quanto non ho mai avuto contatti con lei e con la Accoliti Spa.
Francesca Tura
Help!
Francesca Tura   (francescatura@gmail.com)
a: Selma Grava                                 17 gen     21:08
Carissima Selma,
non rispondi al cell, c’è qualche problema?  
Ho ricevuto telefonate ed ora anche mail inquietanti da una sedicente Accoliti Spa, per quanto io non riesca ad avere informazioni su un’azienda con questo nome. Se cerco su Internet non risulta. Ho chiesto ai colleghi e anche loro non l’hanno mai sentita nominare. Ma sembrava che fingessero…
Ho presentato una denuncia alla Polizia Postale e mi hanno detto che non potranno fare molto e che probabilmente si tratta di uno scherzo.
Non mi è mai capitata una cosa del genere e ti confesso che mi è venuta un po’ paura. Non riesco più a stare tranquilla a casa da sola. Non è che per caso domani potresti venire da me e fermarti un paio di giorni? Tra single ci siamo sempre capite… Sarà un’occasione per parlare un po’. E’ tanto che non lo facciamo, non trovi?
Re: Help!
Selma Grava (selmagra@libero.it)
a: Francesca Tura                                17 gen   00:02
Francesca?
Non ho amiche con questo nome, temo che tu abbia sbagliato indirizzo.
Mi dispiace che tu sia in difficoltà. Parli di quell’organizzazione, la Accoliti. Se ti può servire, posso confermarti che anch’io non so di cosa si tratti. Mi chiamo Selma, è vero, ma non siamo amiche, anche se magari sarebbe stato bello esserlo, e forse lo sarà.
Spiacente e comunque saluti.
Selma Grava
 Rispondimi
Francesca Tura (francescatura@gmail.com)
a: Alda Costantini                       17 gen   00:32
Cara mamma,
mi trovo in un incubo.  
Ero preoccupata per delle mail assurde ricevute da una certa Accoliti Spa, che dice di avere in corso una pratica molto importante che mi riguarda. Io non so niente e, per quanto rovisti nei ricordi degli ultimi mesi o anni, non mi torna alla mente nulla che possa riguardare questa misteriosa azienda.
Ho scritto a Selma, ma mi ha risposto un’omonima. Eppure ero convinta che l’indirizzo fosse giusto. Al telefono non risponde nessuno. E anche tu, mamma, perché non ti fai viva?
Ah se potessi venire subito da te, come se non fosse successo nulla. Come se tu non fossi ad andata ad abitare a R.  con quello stronzo! Ho provato decine di volte a chiamarti stamattina.
Sto impazzendo. Non oso provare a chiamare altri amici perché qualcosa mi dice… oh beh, insomma, forse sono un po’ fuori di testa. Rispondimi appena puoi.
!!!
Francesca Tura (francescatura@gmail.com)
a: Alda Costantini                       18 gen   13:21
Niente da fare.
Ho chiamato Luca, Roberto, Silvia. Persino Katia, che non sento da almeno otto anni. Nessuno ha risposto, nessuno! Mamma, solo tu puoi mettere ordine in questo improvviso caos. Ti prego, rispondimi presto! Sono scesa in strada, sono stata nel panificio e mi guardavano tutti in modo strano. Ho cercato di camminare, di guardarmi intorno. La giornalaia, quello del bar, persino l’imam, tutti avevano quel sorrisetto… Non so cosa avessero per la testa, qualcosa di inquietante, di terribile.
Non erano loro. Lo so che ora pensi che io sia impazzita eppure ti dico questo, che non erano loro! Erano stati sostituiti da dei sosia perfetti!
Capisco che si potrebbe ridermi in faccia eppure ne ho la certezza. Sembrano loro, i soliti abitanti di questo quartiere del cazzo di questa città di merda.
Ma non lo sono. Punto. Non lo sono.
Richiesta
Francesca Tura (francescatura@gmail.com)
a: Nuova Mente                              18 gen  19:08
Ho letto del vostro soccorso psichiatrico, vi scrivo perché non sto per niente bene.
Ho dei sintomi inequivocabili di quella che pare si chiami sindrome di Capgras.
Su wikipedia  leggo che chi ne è colpito vive nella certezza che familiari e amici siano stati rimpiazzati da  impostori a loro identici. Nel mio caso anche i semplici conoscenti! Chiedo urgentemente un colloquio. Gradirei una risposta sollecita. Vi prego. Non so più cosa fare.
Re: Richiesta di aiuto
Nuova Mente (nuovamente@ea.rth)
a: Francesca Tura                                 19 gen  10:02
Gentile signora Tura,
indubbiamente i sintomi che descrive sono preoccupanti. La sindrome a cui lei si riferisce, tuttavia, è molto rara. Per invitarla ad una riflessione che abbia uno spessore, la invitiamo a conoscere più approfonditamente il modo in cui questa sintomatologia è stata trattata. Servirà quantomeno a farla sentire meno sola. Non è l’unica, in ogni caso,  che ha avuto o creduto di avere la sindrome di Capgras.  La invitiamo, nello specifico  a scaricarsi il racconto di fantascienza “L’invasione degli ultracorpi”, di Jack Finney, da cui Don Siegel ha ricavato un famoso film negli anni ’50 del secolo scorso. Potrebbe procurarsi il dvd. Ne sono stati fatti dei remake, ma nessuno è all’altezza della prima versione.
Dopo, se vorrà, potrà riscriverci per prendere un appuntamento.
Si rilassi o, almeno, provi a farlo. È importante.
Missione codice 15299874
Accoliti Spa (accoliti@ea.rth)
A: Comitato Centrale                                 22 gen    6:24
Missione compiuta.
Il caso anomalo di Francesca Tura è stato risolto con la consueta efficienza.
Ci siamo presentati a casa sua alle 14,30 di ieri, 21/01/2020. Abbiamo constatato come lei si fosse effettivamente procurata il dvd del film che le abbiamo suggerito e l’avesse visionato. Almeno ha avuto la risposta che cercava, poveretta.
Abbiamo proceduto subito alla sostituzione, essendo il baccello maturo da tempo.
Ora abbiamo le sue due firme che mancavano e il liceo ha provveduto a fornire la dichiarazione timbrata. Da oggi Francesca Tura è dei nostri. Ordinaria amministrazione.
Quante anomalie come la sua restano da affrontare? Poche, sempre meno. Ma comunque alcune migliaia da queste parti. Gli italiani sono sempre gli ultimi, in Europa. Più diffidenti e meno solerti nel presentarsi ai nostri uffici, accumulano ritardi che inficiano l’ organigramma, obbligandoci a numerosi interventi in loco. Dobbiamo solo avere pazienza.
Il metodo l’abbiamo e dobbiamo ringraziare, per questo, Jack Finney.
Una cosa del genere, a noi, non sarebbe mai venuta in mente.

martedì 16 agosto 2016

IL VETERANO di Fabio Calabrese

Questa mattina, dopo essermi alzato, ho guardato fuori dalla finestra del mio alloggio. È una giornata limpida, senza nuvole. Il cielo è di un bell'azzurro intenso, c'è un gradevole tepore e l'aria è pregna dei profumi dell'erba fresca, dei fiori, dei pollini. La stagione sta cambiando, e ormai siamo decisamente entrati nella primavera.
Così ho deciso, mi sono vestito e sono andato a fare una camminata al parco. Le aiuole sono ricoperte dal verde tenero dell'erba nuova, e gli alberi hanno rimesso a nuovo le loro chiome dopo la pausa invernale. L'aria è piena dei richiami degli uccelli e dei brusii degli insetti.
Come mi aspettavo, ci sono bambini che giocano sulle altalene e sulle giostre sotto lo sguardo vigile dei nonni, e madri che spingono le carrozzine. Dopo aver camminato un po', mi siedo su di una panchina e mi guardo intorno assaporando, quasi bevendo tanta serenità. Pare quasi una cosa impossibile dopo le esperienze atroci della guerra.
Dopo un poco, mi passa accanto un anziano che tiene per mano il nipotino. Vedo che il bambino lancia di sottecchi un'occhiata incuriosita alla decorazione che tengo come al solito appuntata sul petto del giubbotto.
Sento che chiede bisbigliando:
“Nonno, chi è quel signore?”
“E' uno degli eroi che hanno salvato il nostro mondo”, sento che risponde l'anziano.
Scusate la vanità, ma udendo quelle parole, non posso fare a meno di provare un piacevole brivido di fierezza. Però subito dopo, ecco la stura a una lunga serie di ricordi di cose che preferirei poter dimenticare.
Vedete, prima che tutto cominciasse, non ci tenevo proprio a essere un eroe, non ci pensavo nemmeno. Le mie aspirazioni erano quelle di tutti quanti: finire gli studi, trovare un lavoro che mi appagasse e mi desse tranquillità economica, mettere su famiglia con la ragazza che amavo. Sembra passata un'enormità di tempo da allora, letteralmente un altro mondo.
Poi, quando nessuno se l'aspettava, successe. Successe quello che per decenni ci avevano assicurato che fosse diventato impossibile: un improvviso squilibrio, una rottura nelle relazioni internazionali sfuggì di mano. All'improvviso scoppiò la guerra, tutto il nostro mondo cambiò bruscamente per sempre, nulla sarebbe mai stato più la stessa cosa.
Fui richiamato alle armi, mi fu data una divisa. Dopo un mese di addestramento idiota a stare in riga, allineati e coperti, attenti-riposo, io e il mio gruppo fummo mandati al fronte a impiegare quelle armi di cui ci avevano sommariamente spiegato il funzionamento.
Eravamo nella fanteria d'assalto che operava in appoggio ai corazzati. Toccava a noi proteggerli ai fianchi e alle spalle dai cecchini con le armi anticarro, seguirli nelle loro punte offensive allargando gli sfondamenti, distruggere i nidi di mitragliatrici. Era un compito duro, ce ne rendemmo presto conto, man mano che molti di noi erano impietosamente falcidiati nei combattimenti.
Io però fui relativamente fortunato fino a quando non ci mandarono all'assalto di quel maledetto bunker che i cannoni dei nostri carri avevano danneggiato assai meno di quel che sembrava. Eravamo scattati in avanti per liquidare le ultime resistenze nemiche, o almeno così credevamo, quando fui centrato in pieno dalla granata di un obice ben mimetizzato.
Fu un lampo, un istante, feci in tempo a comprendere che per me era finita, la cosa fu così rapida che non ebbi nemmeno il tempo di provare dolore.
Stranamente, mi risvegliai alla coscienza, ma le sensazioni che percepivo erano tutte distorte, come se provenissero da qualcosa che non era il mio corpo. Impiegai del tempo a capire cosa fosse successo. Quel proiettile aveva spappolato il mio corpo, ma il cervello era rimasto intatto. Tempestivamente recuperato, ero stato inserito in un programma sperimentale per trasformare i soldati nelle mie condizioni, mutilati o peggio, in driver di corazzati o sistemi d'arma
Come lo compresi, maledissi quei dannati: prima mi avevano tolto la mia vita per la loro sporca politica, poi la mia umanità trasformandomi in una macchina, senza nemmeno lasciarmi il diritto di morire in pace.
Li maledissi, li odiai, ma poi finii per provare anche una sensazione di amaro piacere, quello di avere un corpo indistruttibile che se la rideva delle mitragliatici, sentire il terreno sotto i cingoli come sotto i piedi, di notte accendere gli infrarossi e vederci come di giorno. Sparare, caricare il potente cannone di cui ero dotato e seminare la distruzione, era semplicemente come sputare. Voglio essere sincero, nei momenti degli assalti finivo per provare una specie di ebbrezza selvaggia.
Poi successe di nuovo qualcosa che nessuno aveva previsto: era intervenuta una nuova forza a spazzare via con un pugno d'acciaio i combattenti dell'una e dell'altra parte. Fui catturato e riconvertito. In pratica mi furono cambiate le insegne e mi rimisi all'opera, tanto, a quel punto, una parte valeva l'altra.
La guerra giunse al termine con una rapidità sorprendente. Riebbi un corpo sintetico ma umano, e fui congedato, congedato CON ONORE.
Mi alzo dalla panchina e mi dirigo verso il bar. Da un lato c'è la fila dei ragazzini che acquistano gelati e dolciumi, dall'altro ci sono i tavolini della caffetteria. Vedo che a un tavolino è seduto il guardiano del parco. Non avendo in realtà molto da fare, è venuto anche lui a consumare qualcosa.
Lo saluto con un gesto della mano, siamo vecchi amici. Essendo entrambi dei cyborg, abbiamo subito solidarizzato.
“Se non l'hai già preso, ti offro un caffè”, dico.
Lui annuisce e mi ringrazia mentre vado a sedermi vicino a lui.
È anche lui un cyborg, ma con una storia molto diversa dalla mia, è un terminator, e anche di loro ne sono rimasti pochi, quelli che come lui sono stati riconvertiti come guardiani o simili, la maggior parte sono stati smantellati. Non essendoci più esseri umani, tranne che in questa riserva-memoriale del mondo scomparso, non essendoci più nessuno da terminare, erano diventati inutili.
Porto la tazzina alle labbra e assaporo il caffè lentamente.
Questo mio corpo sintetico è meraviglioso; ho quasi le stesse sensazioni gustative del mio vecchio corpo umano.
Skynet è stato generoso.   

venerdì 5 agosto 2016

FUOCO FRANCESE di Frank Bernardi


Il "fuoco francese" è un'infiammazione del cavo orale che porta alla comparsa di dolorose placche che si inspessiscono; il fenomeno interessa soprattutto gli adolescenti. Si accompagna a stati d'ansia e visioni notturne. Nel tardo Medioevo alcuni medici "francesi" credettero di leggere in ogni placca una lettera dell'alfabeto. Ne seguì la vera e propria moda di trarre dalle placche un vaticinio.
Molti medici francesi vaganti per le campagne avevano la spaventosa abitudine di recare con sé un ragazzetto infetto (dopo averlo comprato per qualche moneta da una famiglia ben contenta di sbarazzarsi di una bocca per lo più divenuta del tutto inutile e maledetta) in maniera da potere arrotondare i miseri compensi derivanti dall’arte medica con gli incassi dovuti ai vaticini. I ragazzetti infetti morivano dopo un anno circa, mese più mese meno, semestre più semestre meno, col sangue irrimediabilmente avvelenato.
Tale pratica del fuoco francese (e naturalmente l'infezione cui si doveva il morbo stesso) si dice sia resistita per un secolo circa, per poi scomparire con gradualità. In realtà se ne trovano tracce e testimonianze anche in età illuminista.
Il “fuoco”, che oggi non si chiama più con tale appellativo e che si cura con pasticche di potassio, almeno in una prima fase dall'esito di solito fausto, regrediva all’apparenza. Per poi ripresentarsi con placche più robuste di prima, sulle quali i medici leggevano le lettere immaginarie. Ma la pacchia e lo sfruttamento non sarebbero durati ad libitum.
Col tempo le placche micidiali apparivano anche nelle zone riproduttive della disgraziata gioventù, finché il soggetto rendeva l’anima tra le febbri che lo divoravano. Particolarmente richiesti i vaticini in limine mortis, perché del maiale non si butta via nulla. Non si butta nulla oggi, in tempi di relativa abbondanza, figuriamoci secoli fa... Del resto, come si immagina, i vaticini in limine mortis erano considerati quelli più veritieri perché più vicini all’aldilà. Col perdurare di simili aberrazioni anche nel settecento, il castello illuminista con tutti i suoi addentellati di illusione e riscatto si sgretolava. Cosi' come il fondo di benignità originaria di uno stato di natura. Nella natura lasciata allo stato brado proliferava anche il necessario ingrediente della morte, di fronte al quale lo sguardo si abbassava, intimorito o sdegnato. Non restava che rimandare la salvezza della carne, cioe' il qui ed ora, ad un altro mondo, infinitamente distante. Un po' come avviene oggi, con la cosmesi infinita che inizia quando il corpo vive ancora - e spera segretamente o fa finta di niente - e prosegue nella bara esposta, irrisione ultima dopo un'esistenza trascorsa all'oscuro di tutto. Un po' come avveniva un tempo. Stato di natura o inganno grande?
Ecco piuttosto le piccole tristi carovane, o le avresti definite immonde comunità, condotte dai “medici” dalle palandrane lise con le decorazioni sudicie e strappate. Medici in babbucce bucate, le unghie dei piedi bluastre e ritorte, o con i piedi infilati in quelle che erano oramai parodie di scarpini dal tacco consunto. Medici con tanto di frustino ricavato da un ramo, utile per castigare e guidare la mandria. Carovane composte di fanciullini mocciosi e febbricitanti, le labbra riarse, gli occhi lucidi, le ininterrotte flussioni di muco grigio e rossastro.  Fanciullini che, curiosamente consapevoli della parte loro riservata, mugolavano nenie da internati e rivolgevano lo sguardo obliquo al cielo. Una preghiera al dio cattivo e un'implorazione per un avanzo qualsiasi.
Fanciullini che venivano invitati a spalancare la bocca per offrire lo spettacolo corrotto e insostenibile di quei cavi orali, di quelle mucose invase dalle placche di pus. Ogni placca una lettera. “Tornerà mio figlio dalla guerra?”, chiede l’illusa contadina. “Oui”, legge il medico in bocca al ragazzo ormai esperto. “I suoi occhi vedono quelli di Cristo crocifisso”, racconta alla contadina il medico capobranco. E intende sottolineare quanto il vaticino sia veritiero, totalmente degno di fede, poiché quel fanciullino lì che ha spalancato le fauci, tutta una piaga, tutto un bruciore, non ha che un mese di vita, due al massimo, e perciò l’anima sua è più di là che di qua, e dunque da quella bocca giovane e dilaniata dal fuoco francese non può che uscire la verità. “Ora pagatemi, donna, o il lieto annuncio può riversarsi nel suo esatto contrario. Avete capito?”. La contadina non ha compreso proprio tutto, parola per parola, ma il concetto centrale e la minaccia contenuta nel medesimo le sono più che chiari. Non ha monete, può offrire solo un paio di polli vivi. “E sia”, sbuffa il medico. “Ma non basta”, aggiunge. Così la donna dà fondo alla dispensa e tira fuori una caciotta. L’avido artiglio del medico prende il formaggio e lo fa scivolare in un sacco dove i polli si dibattono. “Tutto qui?”, sottolinea. Al che la misera si inginocchia a mani giunte e confessa d’aver finito ogni scorta. Il medico brontola, le dà le spalle e si allontana coi ragazzi, di cui tre tenuti al guinzaglio. “Andiamo!”, sibila con voce roca dando uno strattone alla corda da cui si dipartono tre cappi che circondano il collo degli sventurati schiavi ammalati. Ammalati e deboli, incapaci di scappare, ma bravi a fare scena. La truppa si allontana, mentre la contadina resta lì in ginocchio e prega, prega la vergine che le ridia il figlio maggiore partito a forza per qualche guerra.