La terra un secondo avanti.
Avevo
battuto la gamba contro una roccia dopo che la trottola mi aveva scagliato da
quelle parti, la faccia sull’erba. Ero intontito per le giravolte da cui era
scaturito l’uncino mentale che mi aveva riallocato. Pur non essendoci più
traccia di piazza Garibaldi, del mio palazzo, riconoscevo qualcosa di familiare
negli odori che mi circondavano, nell’energia dell’aria festante. Persino nella
fattoria che si stagliava nell’azzurro. Qualcosa che mi ricordava di una volta, certe scampagnate fatte con i
miei genitori, l’ossigeno pulito prima dell’avvento delle fabbriche. E della
centrale dell’energia elettrica. Non c’era più nulla di tutto questo, neppure –
mi rendevo conto – il ricordo. Respirai a pieni polmoni e, arrivato zoppicando
alla fattoria, vidi una donna che parlava a una mucca. Mi venne il dubbio atroce
di essere precipitato dentro una pubblicità del Mulino Bianco. In fondo, loro
sarebbero stati capaci di tutto, anche di una cosa di questo genere. Loro,
quanto mai estranei, adesso. Con sollievo, guardandomi intorno, non vidi alcun
Mulino e neppure bambini giubilanti. Mi vennero incontro, però, numerose
persone dal volto conosciuto. Erano gli amici, i parenti, i colleghi che non
avevo mai avuto, che non avrei mai potuto, soprattutto dovuto, conoscere. Mi attorniarono
scherzosi, finsero di insultarmi. “Benvenuto, Pirlone!” Alcune ragazze che
stendevano delle lenzuola e degli abiti, su un‘altura poco distante, si
sbracciarono per salutarmi. Anche loro sapevano chi ero.
Capii subito che ero tornato a casa. Che avrei dovuto presto rimboccarmi le maniche.
Ammiccai alla donna che mi teneva ora aperta la porta dell’ingresso, dopo aver lasciato la mucca a scacciare beata i suoi tafani. Entrando, riconobbi immediatamente il legno, il tavolo, la badia.
L’indomani sarei andato al campo, incontro alla mia fase pastorale. Avrei iniziato, leggero e amorevole, a dissodare i secoli.
Capii subito che ero tornato a casa. Che avrei dovuto presto rimboccarmi le maniche.
Ammiccai alla donna che mi teneva ora aperta la porta dell’ingresso, dopo aver lasciato la mucca a scacciare beata i suoi tafani. Entrando, riconobbi immediatamente il legno, il tavolo, la badia.
L’indomani sarei andato al campo, incontro alla mia fase pastorale. Avrei iniziato, leggero e amorevole, a dissodare i secoli.
La terra x secondi
avanti.
Furono
costruiti i castelli. Sorsero numerosi in valli e picchi quasi inaccessibili,
affacciati su un oceano, circondati da colline. Fu la volta di torri e scale a
chiocciola, di merlature, ponti levatoi, fossati. Delle dame dal cappello a
punta. Dei cavalli lanciati in corsa verso l’ultima festa. E c’erano le lunghe
tavolate la sera, al tramonto, nella condivisione di cibo, danze e conversari.
A volte, un certo giorno e a una certa ora, un cavaliere abbracciato alla sua castellana, o un contadino
levigato dagli inverni, si bloccavano un attimo, un pensiero li coglieva sul
limitare di un bosco o a un davanzale. Era la fantasia su un mondo che avrebbe
potuto essere diverso, più crudele. Un mondo torbido di guerre e tornei, di
giostre, di torture, dove streghe e demoni, bambini sacrificati, donne violate
affidavano ai posteri le loro storie. Era solo un barlume. Un ricordo o una
fantasia. Come se ai bordi delle loro coscienze premessero le vicende di un
altro pianeta, in un altro tempo, con le brutture e le soperchierie che avevano
evitato, ribollente crogiolo di favole tristi. Sorridevano allora al proprio
divenire, rinfrancati per sempre. Intonavano inni a quella pace che impregnava
la luce sotto la sfera del sole, e oltre, fino al Primo Mobile. Abbracciavano
tutta la realtà, ravviandosi i capelli, sbattendo gli occhi. La loro vita li
richiamava all’amore per l’amore, per i figli e i poeti. All’essere loro stessi
nella fioritura degli istanti.
La Terra y secondi
avanti.
E
arrivò la maturità dell’io cogitans. La possanza dell’io sono. Nacque Leonardo
da Vinci, nacque Raffaello Sanzio. Ed erano dei santi. Anche Leon Battista Alberti
lo era, così come Paracelso. Pitture, statue, enucleazioni furono avamposti di
un solare paradiso. Le città d’arte crebbero su se stesse, visioni minuziose e
magmatiche ribollivano nelle menti in connessione, nelle corti si discuteva
senza mettere in forse la centralità dell’uomo. I carri varcavano le porte delle città carichi di frutta e
gioielli, abiti preziosi, gatti e cani promossi allo spirito. Le botteghe
rigurgitavano di merci, i mercati di cibo. Le donne si affacciavano alle
finestre e apparivano agli usci delle case con un sorriso privo di sospetto.
Gli uomini tornavano stanchi, si toglievano i calzari, davano una carezza al
bimbo, dedicavano un sorriso ai vecchi. Tolte le forcine ai capelli, mogli e
sorelle esibivano flussi di biondo antico. L’armonia era perseguibile oltre il
tappeto, le cassapanche, verso la fuga dei campi coltivati. E Luca Pacioli era
un santo, e lo era Thomas Müntzer. Tutti lo dicevano nelle chiese, nelle
cappelle, lungo le vie dei pellegrinaggi. Come si era arrivati a quel mondo di
ascensioni? Solo alcuni non vi si riconoscevano e capitava che, quando meno se
lo aspettavano, sparissero nelle pieghe della realtà. Ci furono un filosofo di
Arles, una poetessa di Wittenberg che molti cercarono invano. Avevano amato
l’ombra, la debolezza dell’insania, le illusioni voraci. Si raccontò che
avevano raggiunto un luogo dove non c’erano santi e si predicava l’inferno, un
mondo di sopraffazione e di sangue. Di fiero, avventuroso orgoglio. Il loro
mondo, che una legge di affinità e di compensazione aveva richiamato a sé,
senza rimpianti perché senza memoria.
La terra z secondi
avanti.
E
il Vecchio Mondo acquisì, dal suo punto di vista, il Nuovo Mondo. Avvenne
l’incontro con popoli con altre mitologie e visioni, che non avevano inventato
la ruota ma la cui astronomia aveva portato alla consapevolezza cosmica. Uomini
piumati e donne in lana d’alpaca ritenevano che il rispetto per ogni forma di
vita fosse fondamentale. Furono lasciati alla loro storia di redenzione, tanto
simile a quella dell’altra sponda dell’oceano. Da una parte e dall’altra ci si arrese alla verità che l’uomo era fatto
per amare, che la realtà di ognuno e di tutti fosse il rigoglio dell’empatia.
Per secoli gli scrittori avevano immaginato la crudeltà di re e principi sullo
sfondo di plebi vessate, nonché divinità compiaciute del sangue versato,
innamorate del dolore. Avevano inventato universi alternativi dove il male
prevaleva sul bene. Fantasticherie che erano servite per rafforzare
ulteriormente l’idillio terrestre. Se ne rise a lungo, nel Vecchio e nel Nuovo
Mondo. Come avevano potuto, quei visionari, arrivare a tanto? E comunque, onore
a tutti loro, agli artisti in genere! La capacità di immaginare realtà
parallele, di individuare e mimare il male e farne il protagonista di
vicissitudini aliene, era preziosa. Senza quelle opere, chissà, il rischio di
far prevalere tentazioni malsane sarebbe stato più concreto. Perché questa è la
forza dell’arte in ogni epoca: trattenere gli esseri al di qua del loro buio.
La Terra j secondi
avanti.
Quando
le credenze, i miti, si unificarono, nacque un’unica fede nella luce dello
spirito. Non per nulla gli storici successivi avrebbero parlato di
“Illuminismo”. In tutto i mondo si ricevettero le stesse rivelazioni. La
conoscenza della realtà dilagò, si espanse. La luce inondò le chiese romaniche
intatte, le facciate gotiche italiane, scorrendo negli anfratti del tempo,
rigenerando i giorni, le ore. Si diramò, si frantumò. Indusse allegri cosmopolitismi nei circumnavigatori, per cui si ballò molto
sulle navi. Ci si divertì nelle molteplici Versailles dei popoli, nel Vecchio e
nel Nuovo Mondo, sulle giostre di Ginevra e nei ristoranti sommersi di Recife.
Si degustarono granite lungo i sentieri dell’Atlante e ci si baciò alle pendici
dell’Everest. Monili, scodelle e dentature scintillavano senza bisogno del sole
e della luna. Tutta questa luce che si srotolava nelle savane, nelle città
delle zone temperate, che velava di aspirazioni le facciate dei palazzi,
penetrò così profondamente dentro ciascuno, nervi e arterie, che si pensò di
aver raggiunto l’apice dell’evoluzione. Non era così. Mancava ancora molto
progresso materiale e, soprattutto, l’imprescindibile disamoramento dell’io. E
questa consapevolezza, comunicata, bisbigliata da una casa all’altra, da un
paese all’altro, nutrì di nuove prospettive i bambini che dovevano crescere,
che capirono di dover lavorare e uccidere l’orgoglio, ma non a scapito della
forza. E questo fu il massimo.
La Terra n secondi
avanti.
La
Città si estendeva su un terzo del globo. La creatività architettonica si
sbizzarriva in ogni zona in accordo con la peculiare natura del clima e del
terreno. Grattacieli-fungo, cresciuti come benefici tumori, si alternavano in
varie altezze, rendendo lo skyline della Città quanto mai mutevole. I quartieri
continuavano ad autocoltivarsi, non per aggiungere abitazioni, ma per
perfezionarsi, guarire e dirimere. La Città restava per secoli entro il medesimo perimetro. C’era chi per diporto partiva dal
centro per raggiungere le spiagge e le foreste e, spesso, si concedeva alcune
settimane di sospensione. Per spostarsi c’erano treni levitanti silenziosi, che
traevano la loro energia dall'azoto e dall'ossigeno. La popolazione terrestre,
viveva, letteralmente, d’aria. Di quanto, da essa estratto e concentrato,
avrebbe potuto, di per sé, muovere un altro intero mondo. E gli organismi umani
erano altrettanto evoluti. Sottili, leggeri, avevano bisogno di poco cibo. Gli
arti snodati favorivano le danze e le attività sportive. Nelle grandi piazze
della Città, durante le manifestazioni collettive, si potevano ammirare i corpi
slanciati nei loro intrecci, nel loro azzardo e fulgore. Gli abiti aderenti
come una seconda pelle, confezionati da algoritmi generati dalle
caratteristiche di ognuno, proponevano felici combinazioni di colore e di
forme. I musei erano colmi di bellezze del passato, ma, in fondo, non c’era
passato, essendo la Città adagiata in uno stabile presente. Era nata con l’uomo
e si sarebbe disgregata con esso. C’era chi diceva che, prima che il sole
avesse esaurito le sue scorte, l’umanità avrebbe potuto migrare altrove e
avere, su qualche mondo intatto, di nuovo la Città. O forse questo era già
avvenuto, sosteneva qualcuno, e non si trovavano più sulla stessa Terra in cui
la Città era stata costruita. Uno studioso di fama sostenne di avere le prove
di ciò e lo ripeté in conferenze molto seguite. In ogni caso, questo non
influiva in alcun modo sulla vita quotidiana degli abitanti. Che ci fosse o no
già stato il tempo dell’emigrazione, a loro non importava, perché restavano
cittadini della Città ma, prima di tutto, dell’universo.