lunedì 6 luglio 2015

IL FUNERALE DEL GRAND’UOMO di Massimo e Fabio Calabrese



Questo breve racconto occupa una posizione affatto particolare nella mia bibliografia e nella mia personale storia di autore. Come avrete probabilmente avuto modo di notare, nell'arco di una carriera ormai più che quarantennale, le collaborazioni, i racconti a quattro mani scritti insieme ad altri autori sono veramente pochi: oltre a questo con mio fratello Massimo, soltanto altri due scritti assieme a Roberto Furlani: Coydog che trovate qui e Inner Space pubblicato dalle Edizioni Scudo  nell'antologia Dentro e fuori di noi.
La storia di questo racconto è strettamente connessa al modo in cui è iniziata la mia carriera letteraria. Ero un adolescente, dovevo avere sui sedici anni e mio fratello Massimo, più giovane di me di un anno e mezzo, doveva avere fra i quattordici e i quindici. Mi capitò di occhieggiare in libreria i Racconti neri di Ambrose Bierce nell'edizione de “il pesanervi” Bompiani, e fui attratto, lo ricordo bene, soprattutto dall'illustrazione di copertina, dove uno scheletro in abito da sposa e con un cappello molto vistoso, campeggia in mezzo a una folla di uomini vestiti di scuro. Lo comprai, e mio fratello e io lo leggemmo d'un fiato – eravamo in un'età in cui si è irresistibilmente attratti dal macabro e dal surreale, o almeno lo erano quelli della nostra generazione, per i ragazzi di oggi dalla fantasia atrofizzata dai videogiochi, non so – e decidemmo di produrci in una sfida, quella di scrivere racconti simili a quelli che avevamo letto nell'antologia bierciana, e vedere chi avrebbe ottenuto il risultato migliore.
Lo dovetti ammettere allora e lo devo riconoscere adesso: i racconti che riuscì a scrivere Massimo erano migliori dei miei, solo che lui si fermò a due, mentre io ci presi gusto e andai avanti, e da allora non mi sono più fermato e poi, poco per volta, ho variato le mie tematiche, includendo la fantascienza, l'horror e la fantasy. In un certo senso, si potrebbe dire che questa sfida adolescenziale è ancora in corso.
In anni successivi (ma non di moltissimo) ho dato vita assieme a Giuseppe Lippi alla (purtroppo breve) avventura de “Il re in giallo” e nel primo numero della pubblicazione triestina, assieme al mio Notte a Rio che anche ripropongo qui, anche considerando che questo primo numero è ormai da molto tempo divenuto un mitico e introvabile oggetto da collezione, pubblicammo il secondo e migliore dei due racconti di mio fratello nella stesura e con il titolo originale, Il generale Marlowe.
In seguito, ho ripreso in mano il racconto di mio fratello rielaborandolo in una stesura più adulta, così come ho fatto per molti miei racconti risalenti agli anni d'esordio. Ed è in questa forma con entrambe le nostre firme che lo ripropongo qui.
Fabio Calabrese

Era stato un uomo importante, non una persona qualsiasi, ma un uomo autorevole, ricco, famoso, potente, uno di quelli di cui i giornali parlano quasi ogni giorno, aveva un'importante carica pubblica, anzi, aveva avuto molte importanti cariche pubbliche nel corso della sua carriera. I suoi nemici lo  temevano e i suoi amici facevano rapide carriere e ottimi affari. Tutti lo temevano e lo rispettavano, alcuni lo ammiravano.
Aveva una grande e bellissima villa, una bella moglie, dei figli che avevano fatto rapide carriere politiche aiutati dagli amici del padre, un conto in banca che sembrava il bilancio di una piccola nazione, più una mezza dozzina di conti in banche estere di cui il fisco non sapeva nulla, uno yacht di lusso delle dimensioni di un cacciatorpediniere, un aereo privato, uno stuolo di segretari e domestici, e dozzine di guardie del corpo a vigilare su di lui e le sue proprietà, ma neppure le guardie del corpo possono tenere lontana la morte quando l'ora di un uomo è venuta, e così un giorno il grand'uomo morì all'improvviso stroncato da un infarto.
Appena la notizia si seppe, fece grandissima impressione in tutta la nazione, e gli furono decretati solenni funerali di stato.
La cerimonia funebre, a cui parteciparono le massime autorità dello stato, fu tenuta nella cattedrale della capitale, officiata dal vescovo, poi il feretro, portato a braccia da sei uomini politici e seguito da una folla enorme, si avviò verso il carro che l'avrebbe portato alla tomba monumentale preparata nel cimitero cittadino e che il grand'uomo, metodico e preveggente anche in questo, si era fatto erigere da gran tempo.
Molti allora notarono una cosa che li lasciò stranamente impressionati. Giusto fuori dal sagrato della chiesa c'era un ometto vestito di scuro che zoppicava in maniera molto evidente e portava un'alta tuba vistosamente calcata in testa. Si muoveva con fare nervoso davanti al sagrato, come se fosse in impaziente attesa di qualcosa, e il suo andirivieni era piuttosto strano: tutte le volte che si avvicinava al sagrato si arrestava esattamente sul bordo del terreno consacrato come se si trovasse di fronte a un ostacolo fisico.
Spiccava isolato tra la folla delle persone che si assiepavano fuori dalla cattedrale in attesa del corteo funebre, perché – stranamente – sembrava che nessuno avesse voglia di stargli troppo vicino.
L'anziano e solenne uomo politico, un vecchio compagno di partito del defunto, che aveva tenuto una lunga ed assai apprezzata orazione funebre magnificando le virtù, la bontà, l'onestà, la generosità, la dedizione al pubblico bene di colui che non era più, uscì di chiesa per primo alla testa del corteo, subito seguito dal feretro e da due ali di folla commossa.
L'ometto zoppicante si diresse con disinvoltura verso di lui, come se i poliziotti in servizio che tenevano a bada le due ali di folla e i numerosi agenti di sicurezza in borghese infiltrati tra la gente comune non esistessero nemmeno, e in effetti, a quanto pareva, nessuno pensò minimamente di ostacolarlo, sebbene l'uomo politico impallidisse di colpo e sul suo volto fosse possibile leggere uno sguardo terrorizzato.
“Signor presidente” (e in effetti l'uomo politico era presidente di una dozzina di enti e altre cose), disse l'ometto con una voce stranamente rauca e chioccia, “stia tranquillo, questa volta non sono qua per lei”.
Mentre sul volto dell'anziano uomo politico si dipingeva un subitaneo sollievo, l'ometto proseguì:
“Anzi, a essere sincero, sono mortificato di dover mancare di rispetto al defunto e di dover mancare di rispetto a questo illustre consesso, ma si tratta di una grave ed urgente questione d'onore che devo risolvere al più presto”.
L'atteggiamento dell'ometto era così compunto e signorile che nessuno osò intervenire.
“Tutti quanti voi”, aggiunse ancora costui, “siete uomini d'onore e capite cosa intendo dire. In effetti, tra il defunto e me c'era un accordo, un patto per essere più precisi, e per pura distrazione, per dabbenaggine, lo ammetto, da parte mia, non sono riuscito a onorare la mia parte prendendo ciò che mi compete. Se lor signori me lo consentono, sarà questione di un minuto, dopo di che potrete proseguire con la cerimonia”.
Così dicendo, si avvicinò al feretro del defunto che era scoperto, mostrandone in bella vista i lineamenti nobili e sereni.
Allora accadde una cosa che lasciò tutti i presenti di sasso: la carne del defunto parve arricciare, contrarsi come se fosse dotata ancora di una scintilla di vita, come se cercasse di ritrarsi dal tocco dell'ometto.
I lineamenti del morto fino a quel momento sereni, si contassero in una maschera di sofferenza e di paura indicibili. La mascella del defunto si aprì, e dalla sua bocca si vide uscire qualcosa, qualcosa di indefinibile, come uno sbuffo di nebbia od uno straccio sporco e lurido al punto da fare disgusto a guardarlo.
L'ometto afferrò al volo quella cosa indistinta ma disgustosa, che sembrava contorcersi nel tentativo di sfuggire alla sua stretta.
“Scusate tanto”, disse alla folla ammutolita, “ho finito. Per ora tolgo il disturbo, ma ci rivedremo presto”.
Quest'ultima frase era palesemente diretta alle autorità presenti.
Si piegò in un profondo inchino, togliendosi la tuba e mostrando due piccole corna sulla fronte.
Subito dopo scomparve, lasciandosi dietro uno sgradevole odore di zolfo.

2 commenti:

  1. Un cordiale benvenuto, sulle pagine di Pegasus, a Massimo. Molto bello il racconto, particolarmente avvincente e suggestivo.

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  2. Il tema del diavolo che reclama ciò che gli è dovuto è classico, seppe suggestivo quando lo si ripropone, come in questo racconto serrato e avvincente, che ha il sapore della parabola. Avendo poi come protagonisti i grandi uomini di finanza e potere, mi sembra anche di attualità. Si medita, pur cogliendo nella narrazione un certo sottile umorismo.

    Giuseppe Novellino

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