In città girano molte
voci sulla babysitter dei Cardisi. C’è chi la descrive colpevole e chi ne fa
una vittima; chi ne parla come se fosse una leggenda metropolitana. Tutti sono
concordi nel giudicare la sua una storia orrenda. Ma cos’è accaduto davvero, lo
sanno solo tre persone. Una di queste sono io.
Era un mercoledì
pomeriggio di fine ottobre, quando mi trovai per la prima volta davanti a villa
Cardisi, nell’area residenziale che s’inerpicava su per la collina. Si trattava
della zona dei “nuovi ricchi”, persone che avevano fatto fortuna partendo dal
niente, e ci tenevano a rimarcare il proprio status costruendosi la casa dei sogni appena fuori città. I Cardisi
avevano un’azienda a conduzione familiare, specializzata in attrezzature
sportive. La loro villa era l’ultima, la più recente, circondata da una
cancellata di vernice lucida che delimitava un prato curato all’inglese,
intervallato con armonia da cespugli bassi, declinati nelle calde tonalità
autunnali. Sullo sfondo il bosco, intricato e selvaggio, riprendeva il suo
dominio sul territorio. Un vento arrabbiato lo faceva ondeggiare e gemere come
una creatura viva, che sembrava cingere la villa in un abbraccio inquieto. Il
cielo illividito minacciava pioggia.
– Chi è? – gracchiò una
voce femminile dal citofono.
– Sono Carmen Lago, la
babysitter.
La serratura del cancello
scattò e una donna apparve sull’ingresso di casa. Alta, sottile, rigida nella
posa e nell’espressione. Osservò il mio incedere ballonzolante senza nascondere
un certo disgusto, ma quando le porsi la mano, stirò le labbra in un sorriso e
si presentò: – Benvenuta. Io sono Simona Cardisi, abbiamo parlato al telefono.
Grazie per aver accettato con così poco preavviso; la ragazza a cui ci
rivolgiamo di solito ha avuto un contrattempo.
Varcai la soglia e mi
trovai in un corridoio luminoso. La vegetazione proseguiva anche all’interno,
con piante lunghe e sottili, alloggiate in vasi decorativi. Grandi fotografie
in bianco e nero ornavano le pareti. La signora mi guidò in soggiorno, dove il
bambino a cui dovevo badare giocava insieme al padre. L’uomo sgranò gli occhi
su di me, poi venne a stringermi la mano.
– Gianni – si presentò.
Fece un cenno al figlio, che gli corse accanto. – E questo giovanotto è Luca.
Il piccolo mi fissò a
bocca aperta e diede voce a quello che senza dubbio anche i genitori avevano
pensato: – Come sei grassa!
– Luca! – lo ammonì la
madre, mal reprimendo un sorriso. E a me: – Perdonalo, sai come sono i bambini.
– Sinceri – risposi. E
piegandomi su Luca recitai con enfasi: – Quando i bambini che guardo fanno i
monelli… – feci il gesto di afferrarlo – me li mangio!
Luca sussultò. Sorrisi e
gli strizzai l’occhio e lui scoppiò a ridere.
Si capiva che Luca era
abituato a stare con babysitter. Quando i Cardisi uscirono, dopo saluti e
raccomandazioni di rito, sembrò quasi che fosse lui a dover badare a me. Da
piccolo padrone di casa, me ne mostrò ogni angolo, soffermandosi sulle cose a
lui più care, come le fotografie in corridoio.
– Qua ci sono io appena
nato con mamma e papà, questi sono i miei nonni nella casa al mare e questo
sono io con la zia Laura, che è la mia zia preferitissima.
– Somiglia molto alla tua
mamma.
– Sì, sono sorelle. Ti
faccio vedere la mia cameretta?
– Va bene.
Lo feci giocare fino
all’ora di merenda, poi ci spostammo in cucina, dove preparai a Luca una fetta
di pane e nutella che divorò a grandi morsi, sporcandosi di cioccolata il naso
e le guance.
– Fila a lavarti faccia e
denti – lo esortai quando ebbe finito.
Accompagnata da un tuono,
la serpentina di un fulmine si disegnò in quel blocco di ardesia che era il
cielo. Mi affacciai alla finestra. Aveva iniziato a piovere da pochi minuti, ma
sull’asfalto davanti a casa si era già formato un ruscello, che trascinava a
valle rametti, foglie e qualunque altra cosa incontrasse nel tragitto. Mentre
ne seguivo assorta il percorso lungo la strada deserta, suonò il citofono. Per
la sorpresa feci uno scatto e rovesciai il bicchiere che tenevo in mano. Il
succo d’arancia si sparse sul davanzale e colò sul pavimento.
– Oh Signore, che
disastro – esclamai.
Il citofono insisteva e
dovetti dargli precedenza.
– Chi è? – domandai.
– Laura.
Aprii il portone
d’ingresso. La zia “preferitissima” di Luca era al cancello e si riparava dalla
pioggia con il bordo della giacca sollevato sulla testa. Feci scattare la
serratura e lei con una corsetta si rifugiò in casa.
– Sono la babysitter – le
spiegai. – I signori Cardisi sono usciti.
– Lo so, sono andati a un
funerale.
A parte la giacca, non
era molto bagnata per essere stata sotto la pioggia. E non c’era nessuna
automobile, oltre la mia, parcheggiata nelle vicinanze. D’altronde, dalla
finestra l’avrei vista passare. Come diavolo era arrivata?
Il grido di esultanza di
Luca mi distolse dai pensieri. Il bimbo si buttò tra le braccia della zia, poi
la tirò per una mano. – Vieni in cameretta a giocare? Dai…
Laura fece un sorriso e
si lasciò trascinare.
– Vi raggiungo tra un
momento – dissi.
Tornai in cucina a pulire
le tracce del succo d’arancia. Poi, già che c’ero, lavai un paio di piatti che
la padrona di casa aveva lasciato nel lavello. Mi stavo asciugando le mani,
quando sentii la chiave girare nella porta d’ingresso. Arrivai in corridoio
giusto mentre i Cardisi chiudevano l’ombrello ed entravano in casa.
– Tutto bene? – mi chiese
Simona.
– Tutto perfetto, Luca è
stato un angelo. Adesso è in camera sua con la zia Laura.
Alla donna sfuggì la
borsa di mano. Mi chinai per raccoglierla, ma il marito mi arpionò la spalla,
costringendomi a sollevare lo sguardo. Le sue dita stringevano da farmi male. –
Che cosa hai detto? – domandò.
– La sorella di sua
moglie è arrivata poco fa. È in camera con il bambino.
– Se è uno scherzo è di
cattivo gusto – intervenne Simona. – Torniamo adesso dal funerale di mia
sorella. A Luca non abbiamo ancora detto che è morta, le era molto affezionato.
Deglutii, incapace di
reagire. I Cardisi mi guardavano con un misto di furia e di timore.
– La persona che è
entrata in casa è identica a quella donna – balbettai indicando la foto, – lei
stessa ha detto di essere Laura e il bambino l’ha riconosciuta.
Gianni Cardisi mi spostò
da parte con un braccio e corse ad aprire la porta della stanza di Luca. Simona
e io lo seguimmo.
La scena che ci apparve
non me la toglierò mai dalla mente.
Il bambino, disteso,
fluttuava a mezz’aria, con la testa reclinata, e una Laura dalla pelle
traslucida e un’espressione demoniaca dipinta in volto, gli teneva una mano
appoggiata sul petto.
Simona lanciò un urlo e
cadde in ginocchio. – Che cosa gli hai fatto? – gridò.
La voce di Laura si
propagò nella stanza come un’eco: – Quello che voi avete fatto a me. Lo so che
è così, confessate!
Mentre la moglie
piangeva, Gianni ammise a mezza voce. – Sì, abbiamo manomesso noi i freni della
tua auto, non è stato un incidente. Quando hai detto a Simona che ci avresti
denunciato per frode… Ma lascia stare Luca, ti prego, lui non ha colpa.
– Non lo meritate. Starà
meglio con me.
– Bugiarda! Mostro! –
urlò Simona. – Lascia stare mio figlio!
– È troppo tardi.
Tutti gli oggetti della
stanza iniziarono a tremare. Laura sollevò la mano e il corpo di Luca cadde
scomposto sul letto, la bocca aperta, gli occhi sbarrati, privi di espressione.
Tutti e tre urlammo. Il fantasma di Laura scomparve in un istante.
La paura mi aveva legato
le gambe; appena riuscii a riprenderne il controllo corsi via, salii in auto e
mi allontanai da quell’incubo.
Una mezz’ora dopo la
polizia venne a cercarmi: i Cardisi mi avevano denunciato per l’omicidio del
figlio. Le prove contro di me erano schiaccianti. Sul corpo di Luca, oltre a
quelle dei genitori, c’erano solo le mie impronte. E loro avevano un alibi: più
di un testimone li aveva visti al funerale di Laura. L’ora del decesso era di
poco precedente al loro rientro. E le orme della mia fuga precipitosa erano ben
marcate nel giardino umido di pioggia. Alla centrale restai in silenzio, senza
sapere come difendermi.
Durante il processo, i
Cardisi sedevano composti al banco dell’accusa. Persi la testa. Li accusai di
voler rovinare la vita a un’innocente solo per coprire i loro loschi traffici.
Li accusai di frode e dell’omicidio di Laura. Raccontai del fantasma, di
com’era si era voluto vendicare uccidendo il bambino. Implorai il giudice di
riaprire il caso di Laura, di riaprirne la tomba, di aprire i libri contabili
dell’azienda. I Cardisi si mostrarono freddi, appena turbati dai miei
vaneggiamenti. Dio, come potevano farmi questo? Avevo solo vent’anni. Non
avevano coscienza.
Meno mi veniva dato
credito e più mi infervoravo a sostenere la mia versione dei fatti, agitandomi,
urlando, denunciando, sbraitando…
Fui condannata a
trent’anni, da scontare in manicomio criminale. Mi rinchiusero in una stanza
sporca e maleodorante con altre cinque donne, fui imbottita di medicine e
sottoposta a terapie; affrontai interrogatori estenuanti e arrivai a confessare
un delitto che non avevo commesso.
Il corpo di Luca che si
tendeva a mezz’aria mi tormentava in
sogno ogni notte.
***
È ottobre e sono di nuovo
davanti a villa Cardisi. Suono il citofono.
– Chi è?
– Ho avuto un guasto alla
macchina, mi può aiutare?
Simona apre la porta di
casa e per un attimo torno indietro di trent’anni: la stessa pettinatura, la
stessa silhouette, la stessa posa ingessata. Sono i suoi occhi che mi riportano
avanti nel tempo: lo sguardo stanco, le palpebre che si stringono per mettermi
a fuoco, rendendo evidenti anche a distanza le rughe che le solcano il viso. I
fili grigi mescolati all’oro dei capelli.
Lei non mi riconosce. Ho
perso trentacinque chili e il mio viso ha cambiato lineamenti. La mia pelle è
tirata e opaca e dimostro molti più anni di quelli che ho.
– Buone sera, scusi il
disturbo – le dico. – Ho avuto un guasto alla macchina e non ho con me il
cellulare. Posso entrare a telefonare?
Mi guarda con il
disprezzo del primo giorno, poi fa scattare la serratura.
L’ingresso è come lo
ricordo, solo la foto di Laura è stata sostituita da quella di Luca seienne. Lo
stomaco mi si contrae. Simona mi accompagna in soggiorno, dove il marito è
seduto a guardare la televisione. Nemmeno lui mi riconosce. Si alza per venirmi
incontro, sono entrambi davanti a me.
Faccio scivolare la mano
sotto il cappotto, fino alla tasca dei pantaloni, dove nascondo la rivoltella.
Niente di soprannaturale
questa volta.