sabato 3 maggio 2014

TURNO DI NOTTE di Gianluca Turconi



Una convinzione era radicata in Federico: coloro che non avevano mai guidato in una notte di novembre in Val Padana non conoscevano realmente cosa fossero i banchi di nebbia.
Aveva catalogato quei fenomeni atmosferici in due grandi categorie. La prima comprendeva i banchi di nebbia cittadini. Di solito, gli piombavano addosso mentre se ne tornava a casa dopo una giornata di lavoro, possibilmente di quelle massacranti, quando rimaneva imbottigliato nel traffico dalle due ore in su perché un vigile urbano doveva imparare sulla pelle di ignari guidatori quali fossero i corretti segnali da impartire nel controllo di un incrocio.
Ne usciva indenne sfruttando gli automatismi sviluppati in anni di pratica. Curvava all’angolo dell’edicola anche se non la vedeva, rallentava sotto il balcone dove si affacciava quel gran pezzo di donna della sua vicina e avanzava col muso dell’auto nel giardino di casa finché non tirava sotto Mammolo, il quinto nano dell’orrida serie in gesso con cui sua moglie si ostinava a decorare il prato. Parcheggio perfetto.
A seguire, venivano i banchi di nebbia campagnoli. Un buon tassista, e Federico si considerava tale, non li avrebbe mai nominati in pubblico, poiché erano il corrispondente terrestre degli albatros per i marinai. Annunciavano immancabilmente sciagure e sventura.
Ci si finiva dentro in zone sconosciute, fuori dai centri urbani e, nel novantanove per cento dei casi, in prossimità di acquitrini, paludi e pozze d’acqua il più stagnanti possibili così da colpirlo con miasmi putridi ogni qual volta abbassava il finestrino per capire almeno dove fosse il ciglio della strada.
Quella notte fu inghiottito dal peggiore banco di nebbia campagnolo che si potesse immaginare. Un secondo prima la strada c’era, un secondo dopo non si vedevano neppure le luci dei fari fendinebbia che aveva acceso per percorrere il viale sterrato sul quale ci sarebbe dovuto essere un cliente.
– Centrale, qui è Rambo 66, mi confermate la richiesta delle ventidue e cinquanta? – disse alla radio. L’altoparlante restituì una serie di scariche statiche e nient’altro. – Ma quando si decideranno a sostituire questi affari con qualcosa di decente?
Parlare ad alta voce in auto, sebbene fosse solo, lo aiutava a passare le ore dei turni di notte. Non ricordava quanti ne avesse collezionati in fila e quanti gliene mancassero per decidersi a cambiare lavoro. Aveva una consorte amante dei viaggi esotici, una montagna di cambiali e un sogno nel cassetto: divenire attore. Quella miscela esplosiva l’aveva portato a lavorare come uno schiavo dalle otto di sera alle sei di mattina, raccattando le anime perse nei bagordi notturni della bassa periferia milanese. Gli anni migliori della gioventù erano passati. Ciononostante, era in cerca di una svolta che gli cambiasse l’esistenza.
Pulì con la mano il vetro anteriore. L’impianto di riscaldamento del taxi emetteva calore quanto la caldera dell’Etna, generando una spessa condensa sul parabrezza che, sommata alla nebbia, lo forzò a marciare a venti chilometri all’ora.
Riprovò a collegarsi con la sede: – Centrale, mi sentite?
La voce gracchiante di Annalisa, la centralinista, rispose: – Forte e chiaro, Rambo 66. Problemi?
– Niente di grave – assicurò Federico. – Sono immerso nella nebbia e volevo avere conferma dell’ultima chiamata che mi avete passato. Non si vede a un palmo dal naso e non vorrei aver lasciato a piedi il cliente.
Si sentì il veloce battito delle dita di Annalisa sulla tastiera del terminale, una pausa per la lettura dei dati e la conseguente conferma: – Strada privata dei Tigli, chilometro quattro. Il cliente ha richiamato per sapere che fine avevi fatto.
– Eh... Digli che arrivo appena... – L’inconfondibile borbottio di una gomma forata sulla ghiaia gli strappò di bocca una sequenza interminabile di imprecazioni.
– Che succede? – si preoccupò Annalisa.
– Ho bucato! Aspetta che scendo a controllare.
Fuori, pareva di essere in una lavatrice. La nebbia gli si depositò sui vestiti, sui capelli e sulla pelle in microgocce umidicce, fino a inzupparlo. Fece il giro delle quattro ruote e trovò la colpevole. La posteriore destra era più moscia del pisello di un ottantenne a corto di Viagra.
– Mi sono giocato la corsa... – commentò Federico, rattristato. Tornò in auto e ricontattò Annalisa: – Per favore, passa la chiamata a qualcun altro. Ne avrò per una trentina di minuti.
– Ricevuto. Ci sentiamo verso le undici e mezza.
 Iniziata la sostituzione, Federico si rese conto che la mezz’ora preventivata era stata una stima azzardata. Il cric affondava nel terreno molliccio e per alzare l’auto di una spanna gli venne il fiatone.
– Possibile che sia tanto pesante? Ah, ma io sono un osso duro... – Sotto la luce di una torcia elettrica, sputò, smoccolò e si imbrattò di fango quel tanto che bastò a trasformarlo in un’imitazione del mostro della Laguna Nera, il protagonista del suo b-movie horror preferito, ma portò a termine il cambio nel tempo previsto.
Alla fine, guardò soddisfatto la gomma nuova: – Non è ancora nata la foratura che mi metterà in ginocchio!
Si sedette al posto di guida e verificò sull’orologio da polso: undici e ventinove. Un minuto di anticipo, pensò, alla faccia di chi mi chiama vecchietto perché ho passato i quaranta.
La soddisfazione fu interrotta da un risucchio tipo aspirapolvere ostruito e da un ciak! sonoro e inquietante.
Il disorientamento seguente lo portò a ricontrollare l’orario: undici e ventotto.
– Che razza di scherzo è?
Una mano ossuta gli toccò la spalla, proveniente dal sedile posteriore. Federico fece un balzo da record e il suo cuore si mise a battere disperato, alla maniera di un lottatore di sumo lanciato nei centodieci metri a ostacoli.
– Deve perdonarmi. Non era mia intenzione spaventarla – si scusò il tale che sedeva dietro. – Ho visto il taxi fermo e ho pensato di approfittarne.
Federico consentì al cuore di rallentare e si concentrò per tornare lucido. Non aveva visto il cliente salire, ma i clienti erano imprevedibili. Ti si infilavano dentro al minimo accenno di sosta. Una volta, mentre viaggiava vuoto, si era fermato a fare un goccio d’acqua in una viuzza nascosta e si era ritrovato a bordo un turista giapponese che lo guardava dal finestrino mentre si tirava su la zip dei pantaloni. Cose dell’altro mondo...
Come da prassi, gettò un’occhiata nello specchietto retrovisore per valutare l’affidabilità del passeggero. Nei turni di notte, fidarsi era bene, non fidarsi era molto meglio.
Il sedile posteriore del suo taxi ne aveva viste di tutti i colori, tuttavia ciò che si rifletté nel rettangolo dello specchio in quella notte nebbiosa batté alla grande ogni precedente esperienza.
Il cliente era il sosia sputato di Humphrey Bogart nella scena dell’aeroporto in Casablanca. Non un tizio simile o notevolmente somigliante, ma proprio lui. Stesso cappello portato sulle ventitré, stesso impermeabile sgualcito col bavero alzato appena dietro il collo, stessa espressione da uomo disincantato. Prestando maggiore attenzione, alcune differenze marginali risaltarono a un occhio esperto da cineamatore quale il suo.
Per esempio, la testa a palla, la pelle color grigio fumo di Londra e gli occhi neri senza pupilla in stile alieno di Roswell stonavano decisamente sotto il cappello da gangster. Federico si voltò per dare al suo cervello una chance di ritrattare la visione che gli aveva trasmesso.
Bogart sedeva con le gambe accavallate e la faccia normale da attore di successo. Il tassista ruotò il capo con uno scrocchiare di vertebre per un’ultima verifica.
Riflesso nello specchietto: testa a palla con occhi senza pupilla. Sguardo diretto sul sedile posteriore: Bogie l’Inimitabile.
Ragazzo mio, devi rallentare i ritmi di lavoro..., si suggerì Federico.
– Le dispiace partire? Ho una certa fretta. – Bogart era pure impaziente.
Per deformazione professionale, il tassista chiese: – Destinazione?
– L’obitorio civico di Milano. Sa dov’è?
Ci mancava l’obitorio! Mannaggia a me e alla mia linguaccia! Federico se la morse a punizione dell’imprudenza e rispose, rassegnato: – Sì, in via Ponzio all’uno.
Invertì la marcia, con l’intenzione di riprendere la statale che portava a Milano. Gli tremavano le mani sul volante ed era convinto che se avesse rimesso gli occhi sul passeggero, avrebbe incontrato qualche altra stramberia. Non che ce ne fosse bisogno. Infatti, le stranezze lo seguivano col banco di nebbia.
La massa lattiginosa era incollata al suo taxi. Lo precedeva nei movimenti, indirizzata da un telecomando invisibile. E il suo orologio non si voleva schiodare dalle undici e ventotto. Lo aveva agitato insieme al polso per controllare che entrambi battessero ed effettivamente funzionavano. L’orologio era a carica meccanica e non lo aveva mai tradito. Eppure la lancetta dei secondi avanzava di una tacca per tornare immediatamente indietro alla posizione precedente, impedendo lo scatto del minuto successivo.
Bogart iniziò una discussione che toccò il tasto giusto: – Le interessa il cinema?
Federico non credette alle proprie orecchie: – Tutto! Dai fratelli Lumières, passando per Cecil B. DeMille e Fellini fino a Lucas, Spielberg e Tarantino. Naturalmente, lei è...
Bogart si sporse in avanti, interessato: – Io sono?
Il tassista avrebbe voluto confessare che Bogie era il suo attore preferito, sempre che il cliente fosse lui. La prominenza della testa a palla riflessa lo convinse a desistere dalla rivelazione: – Niente...
– Per quale ragione ama il cinema? – insistette l’altro.
– È un’arte diretta. Trasmette allo spettatore una visione specifica del mondo. Non è come un libro, in cui si può leggere di un “esperto marinaio” e il lettore se lo immagina come il vecchio di Hemingway o lo riduce alla macchietta di Braccio di Ferro. Nei film, ciò che appare è sempre ciò che è. Mi capisce?
– Credo. – Il cliente si levò per un istante il cappello e si passò una mano sulla testa pelata, quindi dirottò la discussione su un binario inaspettato: – Cosa mi risponderebbe se le offrissi una parte da protagonista nella più importante produzione che la storia umana abbia conosciuto?
Per Federico le offerte strampalate erano all’ordine del giorno e la proposta di divenire attore messa sul tavolo da un alieno con le sembianze di Humphrey Bogart era sopra la media delle stravaganze, ma non di molto. Faceva il paio con la richiesta di sesso sfrenato in taxi avanzata un mese prima da una famosa modella. Lui aveva persino rifiutato prima di accorgersi che la donna diceva sul serio!
Tastò il terreno per non lasciarsi sfuggire l’occasione della vita: – Non mi sta prendendo in giro?
– Il mio senso dell’umorismo si è atrofizzato molto tempo fa – rispose Bogart.
– Esattamente, quale sarebbe il suo ruolo in questa produzione? – Federico voleva valutare l’importanza del personaggio con cui parlava. Pensò al regista, alla star principale, a un pazzo scappato da un manicomio su qualche sperduta roccia della galassia... Invece, Bogart lo stupì.
– Sono un soldato.
La sorpresa gli fece perdere il controllo del taxi che sbandò sulla carreggiata e andò vicino tanto così a finire capovolto nel canale di scolo di un’azienda di mangimi. Riconquistato il controllo del mezzo, il tassista si schiarì la voce con dei colpi di tosse imbarazzati.
Federico sbirciò il passeggero: – Un soldato?
– Esatto.
– Nel senso che sulla scena vestirà i panni di un militare?
– No – affermò Bogart. – Sono veramente un soldato.
Ciao, ciao, ultimo neurone sano del mio cervello! Federico salutò con una punta di dispiacere i presunti segni di demenza precoce che lo stavano affliggendo. Fu l’assoluta risolutezza di Bogie a convincerlo che non era andato fuori di testa.
– Mi faccia capire bene. Lei, un soldato, mi sta offrendo una parte in una produzione cinematografica?
– Non ho mai detto che l’offerta fosse legata alla cinematografia – specificò Bogart.
Il tassista si perse completamente nel ragionamento. Tentò di raccapezzarsi: – Entrando nei dettagli, che dovrei fare?
– Lo saprà quando saremo arrivati all’obitorio.
Già, l’obitorio... Se n’era scordato. Fortunatamente, il taxi correva nella direzione giusta sulla statale, sempre che il cartello con le indicazioni sorpassato nella nebbia non lo avesse ingannato.
– Sia chiaro però che la sua dedizione alla causa deve essere totale – soggiunse Bogart.
– Ehi, non è che adesso mi tira fuori un foglio d’arruolamento da sotto l’impermeabile? Io non firmo niente... – Federico distinse nello specchietto una risata muta disegnarsi sulla faccia grigia di Bogie.
– Gli esseri umani sono il sale dell’universo. Sanno scherzare su tutto. Se non ci fossero, li dovremmo inventare – gli disse l’attore, rinfoderando il sorriso.
Il fatto che Bogart avesse parlato escludendosi dal genere umano instillò nel tassista il desiderio impellente di porre la domanda che si macerava in un angolino della sua testa dall’inizio della corsa. L’ebbe sulla punta della lingua nella forma di Scusi, lei per caso è un extraterrestre? La ributtò a forconate da dove era venuta. Sarebbe stato come chiedere alla Madonna se era vergine.
Sorpassarono il cartello di delimitazione del comune di Milano.
Non vi erano dubbi che il suo passeggero, il banco di nebbia telecomandato, la corsa in taxi lunga meno di un minuto e via discorrendo fossero eventi straordinari, ma Viale Monza e la zona della Città degli Studi di notte, senza un’auto di passaggio o una prostituta, trascendevano l’immaginabile. Era un vero miracolo.
Quando Federico frenò davanti all’obitorio, la nebbia parve essere stata presa in contropiede. Avanzò di un metro per poi ritornare ad avvolgere il taxi. Il discorso sul mestiere di Bogart prese una consistenza alquanto concreta nel momento in cui il tassista intravide i primi marò del reggimento San Marco che montavano la guardia all’entrata.
Erano una ventina di giovani che avevano passato la maggiore età da poco. Vestivano orgogliosamente l’uniforme, imbracciando il fucile con perizia. Sarebbero stati un deterrente efficace a qualunque azione se non fossero apparsi fissi e immobili, paralizzati in una singola frazione temporale da una mano invisibile.
– Devo avere il suo consenso per farla entrare. – Bogie si era acceso una sigaretta che gli pendeva dall’angolo della bocca.
– Non ho nessuna intenzione di entrare! – obiettò Federico.
– Voleva una parte da protagonista? Gliela sto dando.
– Per farne che? Per entrare in un obitorio presidiato dalle forze armate? Se lo può scordare! Non c’erano tanti soldati nemmeno alla parata della festa della Repubblica...
– Può rinunciare e tornare alla vita di sempre. Mi arrangerò in qualche modo.
Passarono innanzi agli occhi di Federico le notti monotone trascorse a guidare in strade malfamate, trasportando sconosciuti da luoghi ignoti a destinazioni ignote. Nella decisione ebbe un peso preponderante sua moglie e le sue insopportabili pretese: una casa migliore, la scuola privata per i figli, un viaggio alle Seychelles... Pretendeva, pretendeva e pretendeva!
– Mi dica qual è il mio compito e lo porterò a termine – disse infine a Bogart.
– Stenda la mano.
Il tassista tese il braccio senza paura. Aveva notato le dita scheletrite di Bogie dal principio. Erano ossa rivestite di pelle, niente carne nel mezzo. Le passò sul palmo rovesciato di Federico e la nebbia scomparve.
A dire il vero, la Terra stessa subì una metamorfosi kafkiana. L’aria si inspessì, degradando in un giallognolo rivoltante. I marò, statuari nelle loro pose, persero il vigore giovanile per decadere in una vecchiaia incipiente. Non dipendeva dagli uomini, ma dagli Altri.
– Dio del Cielo e dell’Universo! – Federico rimase a bocca aperta. – Chi sono quegli esseri?
Alcune creature erano immobilizzate davanti ai soldati. Il tassista guardò meglio.
No, rettificò, sono mimetizzate tra i soldati.
Ricordava il ragazzo che era in piedi sul primo scalino dell’obitorio. Aveva il fucile a tracolla e si stava allacciando la stringa di uno stivale. Non era cambiato di una virgola rispetto a prima, a esclusione dei due tentacoli bitorzoluti con cui legava la stringa e della testa che aveva quattro coppie di occhi segmentati, da insetto.
Bogie uscì dal taxi, si sbarazzò del mozzicone e si diresse all’obitorio. – Sono gli Altri. Non li tocchi o retrocederanno dalla stasi. Andiamo, abbiamo poco tempo per agire.
Federico gli trotterellò dietro più per la paura di rimanere solo con quella compagnia che per un’effettiva volontà di partecipare all’avventura. Bogart seguì ogni corridoio e aprì ogni porta con conoscenza perfetta del percorso.
– Se ci sono altre sorprese, la prego di informarmi – brontolò il tassista. – Dove ci troviamo? – Quell’ambiente non poteva essere la stessa Milano che conosceva bene.
– Immagini la Terra a cui è abituato come il set di uno studio cinematografico. Il regista, la mia razza, le mostra quotidianamente una visione specifica del mondo, diciamo un film documentaristico: tanta vita normale, qualche guerra, una spruzzatina di felicità. Se gli attori non ne fossero informati, continuerebbero a recitare, persi beatamente nella loro performance. Ma poniamo che dietro alla cinepresa si vogliano sedere dei registi diversi, gli Altri, che abbiano delle idee tutte loro su come organizzare le riprese e che non si facciano scrupoli a eliminare gli attori che non li soddisfano appieno. Noi siamo su questo secondo set. È la stessa realtà vista da angolazioni differenti. Può immaginare lo scontro che ne nascerebbe tra i registi... Ci vuole un buon servizio di sicurezza per garantire la pace. – Bogart gli strizzò l’occhio. Lavorava per quel servizio di sicurezza.
– Mi vuole dare a bere che io sono già un attore? ‒ Federico scosse la testa, incredulo. – Che l’intera umanità sta recitando la propria esistenza? A che scopo?
– Affinché gli esseri umani divengano un giorno registi, aprano un proprio studio altrove e insegnino ad attori inesperti ciò che hanno imparato, impedendo agli Altri di rovinare lo spettacolo con la loro invadenza.
Bogie spinse una pesante porta in acciaio ed entrarono nella camera mortuaria: due file di cadaveri con cartellini di riconoscimento agli alluci di fronte a celle di refrigerazione piene; nel centro, un’équipe medica bloccata nell’esecuzione di una duplice autopsia. Il patologo era rimasto col bisturi sospeso a un centimetro dalla pelle candida di una ragazzina. Sul secondo tavolo era sdraiato, morto stecchito e con un tentacolo in meno, un Altro.
– Prendiamo entrambi i cadaveri – ordinò Bogart.
– Perché?
L’attore si prestò a una spiegazione enigmatica: – Non siete ancora pronti per conoscere la verità. – Poggiò delicatamente la mano sulla fronte della ragazza. – Io mi occupo di lei. Intanto, pensi all’Altro. Se lo carichi in spalla, lo dobbiamo portare al taxi.
Il tassista si infilò tra il patologo e il tavolo operatorio, osservando di passaggio i lineamenti della giovane morta. Gli si straziò il cuore. Era la Judy Garland del Mago di Oz, con le lunghe trecce annodate da allegri nastrini, portate sul davanti a nascondere il seno prematuramente rigoglioso. Era stata la sua prima cotta giovanile. Se ne era innamorato vedendo il film a dieci o undici anni, non rammentava con precisione. Gli era durata a lungo,  fin quando non era stato irretito dalle curve di Raquel Welch. Una lacrima di tristezza gli rigò il viso.
Nella lama lucida del bisturi vide che la Garland aveva la medesima testa a palla del suo accompagnatore, più aggraziata e impreziosita da occhi gentili. Lo strumento chirurgico gli rivelò anche il pianto di Bogart. Gli stavano distruggendo un mito! Bogie non poteva piangere, non a quel modo!
– La conosceva?
– Era mia moglie – gli confidò l’alieno. La sua sofferenza era profonda.
– Le sono vicino nel dolore...
– Chi sceglie il nostro lavoro di sorveglianza, sa che la morte è dietro l’angolo. – Ecco Bogie il duro che riemergeva!
Però Bogart sposato con l’adolescente Garland..., Federico rabbrividì al pensiero di un incontro amoroso della coppia.
– Siamo stati noi a farle del male? – Per “noi” intendeva gli esseri umani.
– No! – negò prontamente Bogart. – Il colpevole è morto e lo può vedere là. – L’Altro che avrebbe dovuto trasportare il tassista fu accusato e condannato con un gesto della mano.
– Uccidono anche gli uomini? – volle sapere Federico. – Sa, com’è... Non mi ispirano una grande fiducia.
– Vogliono infiltrarsi e sostituire la nostra regia. Se un uomo intralcia i loro piani ha poche speranze di cavarsela. – Il tassista si era aspettato quella risposta e, in tutta sincerità, il desiderio di dare una svolta alla propria vita era scomparso alla vista del monotentacolo. – Non perdiamo tempo in chiacchiere. La strada è lunga. – Bogart sollevò il corpo della moglie con religioso rispetto, aspettando che Federico facesse altrettanto col cadavere di sua spettanza.
– Ma cosa si è mangiato questo? Palle da bowling? – si lagnò lui nel caricarsi l’Altro. Il peso era l’elemento meno opprimente. Puzzava come una latrina da campo intasata. ‒ Da morti non hanno un buon profumo.
– Da vivi è peggio – disse Bogie.
Il percorso d’uscita dall’obitorio fu una via crucis, con parecchie fermate per riprendere fiato e qualche caduta sulle ginocchia. Federico avrebbe accettato volentieri il cambio con una croce piuttosto che continuare a portarsi in spalla l’alieno. Una sostanza appiccicosa gli impregnò i vestiti, trasferendo la puzza dal cadavere a lui: – Questa schifezza non sarà quel che penso?
– È il loro sangue.
– Cosa l’ho chiesto a fare...
Bogart adagiò la moglie sul sedile posteriore del taxi. Federico, invece, dovette spezzare qualche cartilagine e ossa varie in modo che l’Altro si infilasse nel portabagagli.
– Torniamo al luogo dove ci siamo incontrati – gli comunicò l’attore.
Fu facile esaudire la richiesta seguendo la nebbia. Il banco si era rimaterializzato un secondo dopo aver chiuso la portiera dell’auto e sembrò ansioso di portare a termine la missione. Se non fosse stato assurdo, il tassista avrebbe giurato che la nebbia fosse un essere senziente.
Assurdo? C’è qualcosa di più assurdo rispetto a stanotte?
Tuttavia persistevano delle incongruenze e volle assolutamente dissolverle.
– Posso porle una domanda? – sollecitò il cliente, mentre nel contempo girava la chiave dell’accensione e partiva a una velocità che, in condizioni normali, gli sarebbe costata il ritiro della patente.
– Non fa altro da quando ci siamo conosciuti. – Percepì una traccia di insofferenza nella risposta di Bogie, ma ci passò sopra.
– Perché ha chiesto il mio permesso all’obitorio? Poteva tirarmici per le orecchie se avesse voluto.
– Ci siamo dati delle regole e se le infrangessimo per primi, lo scontro che stiamo sostenendo sarebbe inutile. Lei ha accettato volontariamente di aiutarmi e se ne è assunto i rischi.
– A proposito di rischi... In questa faccenda, non ha accennato ai vantaggi che avrei ottenuto dandole una mano.
Bogart aprì gli occhi senza pupilla in due cerchi perfetti. Era sbalordito. – Vantaggi? D’ora in poi avrà gli Altri alle calcagna per il resto dei suoi giorni! – Federico fu irritato dalla rivelazione.
– Come sarebbe a dire? Pensavo che mi avrebbe parlato di una mia gloria imperitura presso le future generazioni della Terra! – Sulla personale bilancia del tassista, solo quel peso avrebbe pareggiato l’avere sulla testa una taglia aliena.
– Oh, quella... –  Bogart non l’aveva considerata. – Sicuramente, quando la sua razza raggiungerà il secondo stadio di evoluzione, riveleremo il suo importante contribuito alla sopravvivenza del genere umano.
– Quando dovrebbe accadere? – Si immaginò i titoli sui giornali, le interviste televisive e la possibilità di levarsi dalla vita ordinaria che gli andava stretta.
– Le previsioni statistiche prospettano che avverrà tra circa trentamila anni, sempre che gli Altri non ci mettano lo zampino.
– Andiamo bene... – Federico si accorse che in definitiva stava trafugando due cadaveri alieni per nulla.
Si fermò nella strada privata dei Tigli alla posizione esatta in cui aveva sostituito la ruota. Nel terreno erano rimaste le impronte dei battistrada e del cric. Un boschetto di discrete dimensioni iniziava a un centinaio di metri dalla via. Non lo aveva visto la prima volta a causa della nebbia, ma ora un corridoio perfettamente sgombro partiva dal taxi e finiva nella boscaglia.
Bogart scese, portandosi appresso la moglie. Comandò: – Apra il portabagagli!
In presenza dell’Altro, impose una mano su di esso. Il cadavere si gonfiò, la sua pelle si riempì di bolle di grandezza variabile ed esplose come un palloncino sotto pressione, imbrattando il portabagagli con pezzi del corpo.
– Ma no! – protestò Federico. – Così dovrò raschiare i resti dalla moquette fino all’età della pensione!
– Dovevo eliminare le prove – dichiarò Bogie. – I brandelli si scioglieranno nel volgere di qualche ora.
– Poteva sbarazzarsene all’obitorio!
– Qui era più sicuro.
L’incontro ravvicinato del terzo tipo giunse al termine. Non era stato un rapimento con tutti i crismi, ma neppure una passeggiata nel parco. Bogart si diresse al bosco.
– Un momento! – lo richiamò il tassista. – Non conosco il suo nome.
– Diamoci del tu – propose Bogie. – Mi puoi chiamare Humphrey...
Federico ebbe il sospetto che lo stesse prendendo per i fondelli, anche se gli aveva detto che il suo senso dell’umorismo si era atrofizzato. L’alieno aveva sofferto per la perdita della moglie e sapeva dire una battuta col giusto tempismo. Non era malaccio, dopo tutto.
– Stavo pensando, Humphrey...
– Sì?
– Potrei venire con te. La tua razza mi proteggerebbe dagli Altri.
Bogart si sistemò il cappello, estraendo dal suo repertorio un’espressione drammatica: – Se lo facessi, un giorno saresti preso dal rimorso. Non oggi, forse nemmeno domani, ma presto o tardi, e per tutta la vita. –  Si perse nella nebbia che si richiuse alle sue spalle. Cinque minuti più tardi, un globo di luce si sparò nel cielo partendo dal bosco.
Federico fu davvero deluso. L’essere congedato con una citazione da Casablanca gli aveva lasciato l’amaro in bocca. La lancetta dei secondi riprese a camminare, superando le undici e ventinove, diretta alla mezza.
Salì sul taxi con un diavolo per capello: – Alieni, attori famosi, fama... Tutte stronzate! Giocano alla guerra tra mondi sul nostro pianeta dimenticandosi di dircelo, non danno uno straccio di spiegazione sul perché o il come e non si degnano di pagarmi la corsa! La mia vita non cambierà mai. – Premette il piede sull’acceleratore. Il taxi non si mosse a causa dello slittamento delle ruote sulla ghiaia. – Mi sono anche impantanato. Lo sapevo che i banchi di nebbia portavano iella...
Aprì la portiera e incocciò in una bambina sui sei anni. Aveva i capelli biondi acconciati in stupendi boccoli. Indubbiamente, aveva di fronte la Shirley Temple degli anni trenta. Era carina e indifesa.
– Ti sei persa, bella bambina? – Federico ebbe l’irresistibile impulso di dare un pizzicotto amorevole sulle sue guanciotte rosee.
– No – ribatté lei con timbro baritonale. – Ti cercavo.
Due tentacoli gli avvolsero il braccio e lo trascinarono nella nebbia. Il suo urlo finale fu presto sostituito dal solo ticchettare alternato dei segnalatori di posizione accesi.

5 commenti:

  1. Un cordiale benvenuto a Gianluca sulle pagine di Pegasus. Molto bello e ben scritto questo suo TURNO DI NOTTE, suggestivo racconto fantascientifico. Spero che Gianluca sia presente su Pegasus con altri suoi scritti.

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  2. E' molto bello il racconto di Gianluca Turconi. L'ho tradotto allo spagnolo tempo fa. Un saluto cordiale a Paolo e a Gianluca. Adriana

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  3. Una storia originale e avvincente. Le parti drammatiche sono sapientemente intrecciate a quelle ironiche e il finale è ben piazzato. Molto bello.
    Danilo

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  4. Davvero un bel racconto.
    G.S.

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  5. Ottima narrativa. Si legge con interesse e piacere.

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