La Città si blocca
su al bordo del lago, sotto il sole rosso. La sua ombra immensa si
distende su magri bouquet d’acacia e sulla pietraia che le zappe
della tribù avevano appena aggredito.
Nascosto dietro il
ghiaione, spalancavo gli occhi.
Questa città che
sognavo dall’età di dodici anni non l’avevo mai dimenticata. È
ad essa che devo la mia vocazione a girovagare tra le stelle. Ed essa
assilla ancora le mie notti. Sto cercando di ricostruire
quell’iniziale visione, nel mezzo di tutte le biforcazioni, le
metamorfosi, le svolte, i trucchi del sogno.
Era dunque questo,
la Città. Un enorme animale dagli occhi brillanti. Un insetto
gigantesco dagli occhi di brace, col luccicante carapace tra due file
di grandi zampe articolate. La Città si colorava di rosa e di blu.
Poi spiegava due ali immense dai riflessi color malva.
L’avevo vista
arrivare. Sollevava le sue zampe una dopo l’altra per transitare
sopra le rocce, dondolando un po’ e poi ristabilendo il proprio
equilibrio. Le sue zampe erano formate da segmenti che si
incastravano gli uni negli altri facendo così variare la propria
lunghezza, in modo tale, che, malgrado i sobbalzi, il corpo della
Città rimaneva pressappoco orizzontale.
I vecchi della tribù
narravano storie di macchine che nei tempi antichi camminavano sulle
loro zampe in quel modo.
Sì, la mia famiglia
apparteneva a una tribù ancorata a quest’arida terra. Rimaneva sul
limitare del villaggio, una capanna di argilla e di sabbia.
Con
lo sguardo, misuravo la Città. Si estendeva molto più lontano del
nostro povero villaggio.
A sinistra, delle
silhouette si innalzavano su una collina. Tre Anziani vestiti di
cuoio fulvo restavano girati verso la città e attendevano.
Era dunque venuto il
giorno. Il giorno dell’incontro. Per la prima volta, stavo per
assistere. Ogni cinque anni, prima dell’inizio della stagione
secca, la Città si fermava ai bordi del lago. E dunque…
Nel carapace si
apriva un pannello. Ne usciva una curiosa machina che si dirigeva a
destra verso la collina. Si distingueva il conduttore nella cabina a
vetri.
I tre Anziani non si
erano mossi.
Il veicolo si
fermava ai piedi della collina. Il conducente discendeva. Indossava
una sorta di tuta dai riflessi metallici. Fece qualche passo verso
gli Anziani. Il suo passo era lento, i suoi gesti erano un po’rigidi.
Davanti a lui ecco
gli Anziani. Si salutarono con un cenno del capo.
Il conducente torna
alla sua macchina, aziona qualcosa, eietta una scatola che porge agli
Anziani. A ognuno di questi passaggi, la Città forniva agli Anziani,
secondo il patto concluso tra loro, armi per la caccia e utensili per
l’agricoltura.
L’incontro era
terminato. Il veicolo ritornava alla Città. Gli Anziani scomparivano
tra le rocce.
Nuovamente, restavo
assorto nella contemplazione della Città ove danzavano ombre
violacee. Il sole passava dietro al carapace.
Dal
ventre della Città pendeva un tubo che si tuffava nella falda
acquifera. A ognuno dei suoi scali, la Città riempiva i suoi
serbatoi. Era previsto dal patto. La tribù forniva l’acqua in
cambio di armi e strumenti. Molti anziani vedevano di malanimo questo
baratto. Denunciavano il mercimonio. In cambio di oggetti che la
tribù avrebbe comunque potuto fabbricare o fare a meno, essa
sacrificava una risorsa preziosa che il progredire del deserto
rendeva vitale. Col passare degli anni, il livello del lago si era
abbassato. Gli Anziani mostravano il ritiro delle acque sull’argine,
tra i ciuffi di artemisia dove si formava una crosta dai riflessi
biancastri. Quando
avevo la tua età,
diceva mio padre, si
vedeva appena l’altra riva, quella che le dune oggi invadono.
Era la sola distesa d’acqua di questa importanza nel paese.
Risalendo verso nord, le carovane impiegavano giorni e giorni per
raggiungere un simile bacino. Quando questa si vuoterà, la tribù
sarà condannata a morte. Quando era terminata la stagione delle
piogge ed il livello del lago era risalito, la Città veniva a
pompare ciò che le era dovuto. Le donne anziane cantavano la canzone
dell’acqua, la canzone della vita, e poi si lamentavano. E quando
avevano bevuto i vino di palma, discutevano con gli uomini della
tribù: i
vostri bambini morranno di sete. Che su di voi cada la vergogna!
Ma gli uomini della
Città erano troppo potenti. Si gli si fosse rifiutata l’acqua,
l’avrebbero presa con la forza. Dicevano i più anziani tra gli
Anziani.
Quanto tempo
dureranno le operazioni di pompaggio?
Già, a poco a poco
diminuiva la luce, virava al bruno, al grigio. Sapevo che al cadere
della notte i miei mi avrebbero cercato, però rimanevo lì, come
stregato.
Di colpo, la Città
accese i suoi fuochi. Si sarebbero dette tante stelle, o, piuttosto,
gli occhi innumerevoli della bestia che sfavillavano attraverso il
crepuscolo. Poi essa ripiegò le sue ali.
La notte era caduta.
Sotto un crescendo lunare, la Città si bagnava nel suo bagliore
rosastro.
Lasciai il mio
nascondiglio, feci qualche passo allo scoperto, in direzione della
Città.
Mi fermai, avendo
l’impressione che le luci si ravvivassero. Una messa in guardia o
un invito?
Sì, si sarebbe
detto che i fuochi ammiccassero.
Ho ripreso la mi
avanzata. Ora, ascoltavo la Città. Ronzava.
Così rischiarato,
il carapace lasciava intravedere l’interno che sembrava diviso in
compartimenti sovrapposto in dodici piani separati da dei corridoi.
Più mi avvicinavo,
più si amplificava il rumore. Infatti, la Città ronzava, grande
animale sdraiato nell’allineamento triangolare delle sue zampe.
Mi accostai molto
vicino al carapace, fino a toccarlo. Percepivo confusamente delle
forme che si muovevano all’interno. E delle luci di intensità
variabile. Eccetto che nei corridoi che rimanevano di un grigio
traslucido.
Ben presto,
costeggiavo il carapace. Ogni cento passi, c’era una porta. Mi
fermai davanti a una di esse. Si aprì.
Senza esitare,
penetrai nella Città attraverso uno dei passaggi semitrasparenti.
Non si vedeva la fine del corridoio. Forse esso andava da una parte
all’altra della Città.
Un soffio mi fece
rizzare i capelli, si infilò nelle maniche della mia blusa,
gonfiando i miei vestiti. Fui avvolto da un odore acidulo. Starnutii,
tossii. L’odore divenne piacevole. Il soffio si acquietò.
Non c’era nessuno.
Le Città non meritano questo nome, dicevano certi Anziani, se esse
non sono abitate da macchine che si spostano sulle loro gambe e che
si riproducono autonomamente. Secondo loro, il conducente
dell’ordigno che veniva all’incontro non era un vero uomo ma una
sorta di apparato. Essendo un ragazzo non avevo capito bene cosa
intendessero. Era vero che il conducente non somigliava affatto agli
uomini della tribù, ma non aveva certo l’aria di una macchina, in
ogni caso di quelle che fino allora avevo visto. D’altronde, mio
padre non condivideva il parere di quegli Anziani. Credeva che degli
uomini, differenti da quelli della tribù, sicuramente, abitassero la
Città ma che non li si vedeva perché non ne usciva che uno solo,
per gli incontri. Tutti gli altri nascevano, lavoravano e morivano
all’interno della Città senza mai conoscere il vero colore del
cielo.
Che fossero
mercanti? Non lo si sapeva. Forse era meglio restare lontani in caso
si fosse incontrato un abitante diverso dal conducente. Ma nella
tribù nessuno be aveva mai incontrati.
Forse gli uomini
della tribù non avevano neanche tentato. Forse la porta non si era
mai aperta davanti a coloro che ci avevano provato. Forse non si
apriva che per i bambini.
Il corridoio era un
budello senza alcuna apertura. Passavo la mano sulla parete. Secondo
gli Anziani, era così che si aprivano le porte nelle case delle
città. Non succedeva niente.
Ma più lontano, e
senza che io dovessi fare il minimo gesto, un quadro si disegno sulla
parete che si dischiuse. Nel vano così prodottosi, mi inoltrai.
Mi trovai
all’interno di uno scomparto. Sul fondo scintillava un’immagine.
Quella della Città vista dall’esterno.
«Sii il benvenuto,»
disse una voce molto dolce, una voce femminile che somigliava a
quella di mia madre.
Su
una tavoletta erano disposti del cibo e una bevanda. Alimenti mai
visti da un piccolo selvaggio. Improvvisamente risvegliato, il mio
stomaco denunciò la sua fame. La mano si tese, poi si ritrasse. Mi
pareva di sentire la voce di mio padre: non
si tocca il cibo sconosciuto!
Fiutai
quello che sembrava una gelatina. Sprigionava un odore dolciastro,
totalmente estraneo ma parecchio intrigante.
Assaggiai. Era allo
stesso tempo insipido e profumato.
Avevo appena buttato
giù la prima sorsata di bevanda fresca e zuccherata che, sulla
parete, l’immagine si mise a muoversi mentre la voce riprendeva:
«Sto per
raccontarti la storia della Città. Molto tempo fa gli uomini
abitavano delle case che somigliavano alle caverne del deserto e che
non si muovevano. L’uomo era ancorato al suo luogo di lavoro. Era
lui che si muoveva all’interno e all’esterno delle città per
trovare sostentamento e per vivere la propria vita.»
La parete mostrava
delle città antiche costruite ai piedi delle montagne, in riva ai
fiumi e di quelle immense distese d’acqua in movimento che gli
Anziani chiamavano mare.
Di tutto questo
avevo sentito parlare. Avevo visto delle immagini nei libri che erano
appartenuti agli antenati della tribù e che essa conservava in un
baule di legno dagli sportelli decorati con segni misteriosi. Quei
libri che solo gli Anziani sapevano leggere. E che avrei imparato a
leggere se fossi divenuto Anziano a mia volta.
«Un giorno,» disse
la voce, «gli abitanti delle città non trovarono più sostentamento
sul posto. E per trovarlo, andarono di città in città o ne
costruirono di nuove in altri luoghi. Ma il deserto avanzava. Risorse
e lavoro si facevano sempre più rari. Quindi gli uomini decisero di
partire con la loro città alla ricerca di sostentamento. Gli uomini
non cambiarono più città. Era la loro città che si muoveva.»
Io non comprendevo
tutto ciò che la voce diceva. Però gli antichi raccontavano cose
simili.
A destra si
materializzò un pannello sul quale si disegnò una figura, quella di
un uomo simile al conducente. Indossava la stessa tenuta
metallizzata. Il suo viso era pallido sotto a delle sopracciglia
nere. I suoi occhi avevano gli stessi riflessi argentei del suo
vestito.
«Mi chiamo Chram,»
dice l’uomo. «E tu?»
«Maen.»
Sì, me ne ricordo.
Nel mio sogno, mi chiamavo Maen. Un nome che avevo forse letto in uno
di quei romanzi di fantascienza di cui mi nutrivo.
Ho chiesto:
«Sei tu che
incontri gli uomini della mia tribù?»
«Sì. Io sono il
collegamento con i tuoi simili. Quindi mi occuperò di te. Sei
coraggioso, Maen. Non hai avuto paura quando la macchina ti ha
soffiato addosso?»
«Cosa voleva?»
«Maen, il mondo
dove vivi conosce malattie alle quali il nostro organismo non può
resistere. Bisogna dunque ripulire ogni essere e ogni oggetto che
viene dall’esterno per uccidere i germi mortali di cui sarebbe
portatore. Questo si chiama decontaminare. È il lavoro del
soffiatore.»
Chram ebbe una sorta
di sorriso:
«Bene, volevi
vedere la Città. La vedrai. Ma prima devo condurti presso i
consiglieri.»
«Cosa sono?»
«Un po’ come gli
anziani della tribù.»
Situata,
sembrerebbe, al centro della Città, la sala dai muri traslucidi
formava una rotonda. In mezzo, una tavola a semicerchio dietro la
quale avevano preso posto tre personaggi che indossavano la stessa
tenuta di Chram.
«Fratelli,» disse
Chram, «questo bambino, uno dei figli della tribù, si chiama Maen.
Ha avuto il coraggio di superare la porta e desidera vedere la
Città.»
«È stato
decontaminato?»
«Sì, fratello.»
«Ha udito la Voce?»
«Sì,» dissi con
decisione. «Essa mi ha raccontato la storia della Città.»
«E vuoi saperne di
più?»
«Sì.»
«Non hai avuto
paura di questo mondo sconosciuto?»
Ho scosso la testa.
«All’esterno si
dicono molte cose sulla Città. Per esempio, si ipotizza che la Città
sia un mondo chiuso, dall’entrata proibita. Hai visto che è
inesatto. Sei libero di spostarti. Chram sarà la tua guida. Abbi
fiducia in lui. Ti mostrerà quello che desideri vedere.»
E con un gesto
ampio, molto lento, i personaggio fece capire che il colloquio era
terminato.
«Come si sposta la
Città?» ho domandato allora.
«Sto per mostrarti
l’Unità rossa,» rispose Chram.
Ci addentrammo in
una sala bassa occupata da rettangoli molto luminosi dove si erano
appena disegnate curiose figure, che si muovevano, si trasformavano,
si fondevano le une nelle altre.
In seguito credetti
di riconoscere, davanti alle scatole scintillanti, delle macchine
dalle braccia articolate e con una sorta di ingranaggi.
«Sì, Maen, sono
proprio delle macchine. Non sono più grandi della tua mano. Guarda,
questa trasforma i raggi solari l’irraggiamento solare captati
dalle due vele sopra di noi.
«Le ali?»
«Sì, se vuoi. In
un certo senso, esse ci servono soprattutto per muoverci. Hai notato
che le dispieghiamo soprattutto durante il giorno. Per molto tempo,
gli uomini non sono stati in grado di immagazzinare grandi quantità
di energia. Noi siamo stati i primi a poter disporre di una sorgente
inesauribile.»
Chram puntò un
lungo indice verso destra:
«Guarda
quest’altra istallazione. Lo sai che tutto ciò che esiste è
formato da elementi così piccoli che, per distinguerli, occorre
impiegare strumenti molto potenti? Ha sentito parlare degli atomi?
«Sì, dagli
Anziani.»
«Questi atomi, noi
possiamo spostarli e ricomporli in modo da creare nuovi corpi. Gli
diamo forma e dimensione che vogliamo. Così, sintetizziamo dei nuovi
materiali. Hai osservato il guscio della Città?»
«Sì. Cambiava
continuamente colore.»
«Per effetto della
luce. È fatto di un materiale ottenuto mescolando vetro e metallo…
Ma andiamo all’Unità verde.»
In questo luogo, un
compagno di Chram – che gli somigliava come un fratello –
occupava uno stretto locale e sembrava sorvegliare un quadro su cui
lampeggiavano delle luci multicolori.
Chram mi presentò
al controllore che mi salutò con un cenno del capo.
Più lontano, tubi e
recipienti si aggrovigliavano sotto gli stessi rettangoli
scintillanti.
«In questo luogo,»
riprese Chram, «produciamo a volontà alimenti simili a quelli che
ti sono stati offerti quando sei entrato nella Città. Ma noi non li
consumiamo.»
«E di cosa vi
nutrite?»
«Lo vedrai molto
presto.»
«Per chi producete
del cibo che voi non mangiate?»
«Per i nostri
visitatori, dato che ne abbiamo. Tu ne sei la prova.»
«E ne avete così
tanti da dover produrre tutto questo cibo?»
«No. Noi ne
scambiamo la maggior parte in cambio dell’acqua di cui abbiamo
bisogno.»
Riflettevo sugli
sforzi che metteva in atto la mia tribù per ricavare un magro
raccolto da un suolo ingrato:
«In cambio
dell’acqua che prendete da noi, potreste fornire alla mia tribù
gli alimenti che non vi servono.»
«La tua tribù è
troppo numerosa. Noi facciamo scambi con comunità più piccole della
vostra e più povere, quelle il cui suolo è sterile e l’acqua,
salmastra al punto che dobbiamo dissalarla.
Arrivammo in una
terza sala, chiamata Unità bianca.
«Qui, non facciamo
produrre dei minuscoli organismi. Come l’uomo antico aveva
addomesticato il cane, il cavallo, il bue, noi abbiamo addomesticato
l’infinitamente piccolo. Questi organismi viventi trasformano i
Sali minerali, i metalli. Formano, essi stessi, dei nuovi corpi a
partire da diversi elementi. In questo modo, li obblighiamo a
produrre delle sostanze che nutrono gli uomini della Città, che li
curano e che li guariscono.»
In seguito, Chram mi
fece visitare una vasta sala dove, in un leggero ticchettio, si
attivavano forme più voluminose. Chram richiamava robot. Essi
fabbricavano diversi strumenti.
Vidi assemblare le
zappe che gli uomini e le donne della tribù utilizzavano per
raschiare un suolo infertile. Gli arnesi per i quali sacrificavano la
propria acqua.
Quando
sarò divenuto un Anziano,
pensavo, cambierò
tutto questo. Troverò un altro modo per procurarci gli attrezzi. Non
lasceremo che l’acqua del lago si esaurisca. La utilizzeremo meglio
per produrre il nostro nutrimento.
«Non ci sono
bambini nella vostra Città?» domandai.
«Ma certo. Ora li
conoscerai.»
Mi
condusse in uno spazio di cui non distinguevo bene i contorni. Le
pareti sembravano indefinite, trasparenti, senza che si potesse
vedere ciò che c’era dietro. E, soprattutto, davano anch’esse
l’impressione di cambiare senza posa di volume, di forma e di
colore.
In questo spazio
facevano evoluzioni una ventina di bambini vestiti con tutine
bianche.
«Sono quasi della
mia altezza,» dissi. «Quanti anni hanno?»
«Se tu consideri il
loro sviluppo fisico e mentale, in effetti hanno evidentemente la tua
età: da dodici a quattordici anni. Ma noi non li calcoliamo in
questo modo.»
I gesti dei bambini
erano lenti, misurati. All’inizio, non prestarono attenzione ai due
personaggi che erano appena entrati.
Poi Chram li
radunò :
«Ecco Maen.»
Essi guardarono
attentamente lo straniero, senza che il loro viso, di un bianco
olivastro, esprimesse la minima curiosità.
«Viene
dall’esterno,» aggiunse Chram.
Questa notazione
parve suscitare un aumento di interesse.
«Sono figlio della
Tribù,» lanciai io, come per sfida.
Apparentemente,
questo non disse loro gran che.
Ma, presto, diedero
il benvenuto al nuovo arrivato, con un tono così serio da lasciarmi
sorpreso.
«Nel tuo paese, dai
la caccia all’uomo?» mi chiesero.
«No,» risposi con
una punta di irritazione. «Noi cacciamo il cane delle steppe e il
dromedario selvaggio.
Credevo che stessero
per ridere. Invece no. Si dispersero per riprendere le loro attività.
«Come vedi,»
spiegò Chram, «la caccia all’uomo è il loro gioco preferito.
Questo spazio dove si divertono non esiste. È solo un’immagine
ottenuta con un gioco di luci. Rappresenta un pianeta sconosciuto e,
al momento, deserto. Ma sta per popolarsi. Le apparecchiature
proiettano immagini di creature differenti tra loro e da ogni essere
conosciuto.»
«Ma non si vede
niente! I giocatori hanno gli occhi fissi sul… vuoto.»
«Per distinguere le
immagini prodotte dai fasci di luce, bisogna essere equipaggiati del
dispositivo che essi recano tra gli occhi, sotto pelle, e che si
chiama impianto.»
«Questo gioco, a
cosa serve?»
«Consiste nel
individuare, tra tutte le creature immaginarie, quella che sarà
l’uomo di domani. Un essere superiore che, sicuramente, sarà di
carne e sangue ma che avrà tutte le possibilità di sopravvivere a
l’uomo di oggi. Si vede, te ne rendi conto, sfilare un bel po’ di
mostri.»
«E quando i
giocatori sanno di aver trovato ciò che cercano?»
«Non l’hanno
ancora trovato. Ma si stanno avvicinando. E un giorno ci arriveranno.
L’uomo nuovo s’imporrà, come un’evidenza. E questo vuol dire,
Maen, che presto lo si riconoscerà.»
«Perché affidate
questa ricerca ai vostri bambini? Non sembrano neanche sapere quel
che succede fuori della Città.»
«Senza dubbio, ma
sono come te. Hanno uno spirito aperto, una ricca immaginazione,
quasi senza limite. Non sono, come me, prigionieri delle limitazioni
tecniche.»
«Potrei entrare nel
gioco se avessi un…»
«Impianto? Non
subito. Ci vuole un lungo tirocinio prima che la vista e gli altri
sensi possano percepire ciò che non esiste. Ma ti piacerebbe?»
«Oh! A che serve
cacciare ciò che non esiste? È più divertente correre dietro i
cani selvaggi. E gli uomini della mia tribù sono ben in vita. A
questo proposito, mi hai promesso di mostrarmi come nascono quelli
della Città.»
Vidi assemblare dei
corpi. Una testa dallo sguardo fisso venne a posarsi su un collo, Due
occhi senza espressione. Sembravano quelli degli animali impagliati,
di specie scomparse, che la tribù conservava nella casa della
Memoria. Solamente, questi occhi erano umidi e brillanti.
Si misero a vivere.
Girarono dolcemente nelle loro orbite.
«Molto presto, ci
vedranno,» disse Chram.
Ecco ciò che erano
gli uomini macchina. Degli aneroidi. Adesso, mi ricordavo della
parole che veniva usata dagli Anziani.
Così era nato
Chram.
«Ora,» mi disse
lui, «conosci il segreto della Città.»
«Voi siete delle…
macchine?»
«No, noi non siamo
ciò che voi chiamate così, lo sai bene. Noi in questo momento siamo
ciò la più nobile creazione dell’uomo, gli Eredi.
(Eredi,
non sono più certo che questa sia la parola che lui aveva usato, ma
è certo ciò che voleva dire.)
«Noi siamo i soli
capaci di trattare con lui da pari a pari,» ha proseguito. «e senza
dubbio i soli capaci di assicurare la sua sopravvivenza.»
«Come
i suoi eredi?»
«Noi abbiamo come
compito quello di aiutarlo a mutare, a divenire un altro.»
Dopo
aver assemblato le differenti parti del corpo, il robot sollevò il
nuovo an droide che cominciò ad azionare le sue membra.
E il nuovo nato
parlò. O piuttosto emise una serie di suoni che variavano da grave
ad acuto. Metteva alla prova la sua voce. Infine, pronunciò qualche
parola monocorde:
«Mi chiamo
Ulex.»
E ripeté come per
meglio imprimerselo nella memoria:
«Ulex.»
«I nomi sono scelti
da una combinazione di lettere dell’alfabeto,» bisbigliò Chram.
«Sono
nato il dodicesimo giorno del sesto mese dell’anno 47 dopo la
fondazione della Città,»
riprese l’androide. «Io
sono un
erede. La
mia missione è di servire al Città e di perpetuare la specie.»
«Ti
saluto, Ulex,» disse Chram che gli domandò a quale unità era
destinato.
«Unità 15.»
Chram si avvicinò a
Ulex e si presentò. Si abbracciarono, non senza impaccio. Poi Chram
mi indicò:
«Questo bambino è
il nostro ospite.» E quello ripeté:
«Nostro ospite.»
Dopo pochi secondi,
una luce attraversò lo sguardo di Ulex. Aveva capito il discorso di
Chram.
«Allora, nascono
adulti?» affermai.
«Sì, pronti a
servire la Città.»
«Ma allora, quei
bambini che giocavano? Nascono già pronti, con la loro grandezza e
il loro cervello di dodici anni?»
«Li creiamo così.
Non diventano mai grandi. Non essendo specializzati, mantengono una
propensione al gioco e all’invenzione.
«Restano
eternamente bambini?»
«Li manteniamo fino
a quando l’immaginazione si indebolisce, fino a quando i loro
circuiti si sclerosano. Quindi, li ricicliamo.»
Credetti di capire
ciò che aveva voluto dire. Poi gli feci notare.
«I bambini, i
consiglieri, un controllore e tu, Chram, non ho visto nessun altro, a
parte il nuovo nato.»
«Siamo abbastanza
numerosi per fare funzionare la Città. Ma uno dei consiglieri è in
età avanzata. Presto dovrà lasciare il posto, come succede di tanto
in tanto. È per questo che creiamo dei sostituti.»
«Che succede ai
consiglieri troppo vecchi? Muoiono?»
«Nella Città, non
si muore. I consulenti troppo vecchi vengono riciclati, come i
bambini.»
«Il nuovo, anche
lui, è stato prodotto in questo modo?»
«Sì, Maen.»
«La Città è
sempre stata popolata di quelli che tu chiami Eredi?»
«No. Ricorda quello
che hai sentito al tuo arrivo. Sono gli uomini che hanno inventato la
Città. A lungo, essa gli è servita per spostarsi attraverso il
mondo. Poi si sono stancati di vivere in così ristetti limiti. Non
siamo noi che succederemo all’uomo. Semplicemente, prepariamo colui
che verrà.»
«Vuoi dire che
tutti gli uomini, anche quelli della mia tribù, scompariranno?»
«Sì, i loro giorni
sono contati. Anche noi, scompariremo perché siamo una specie
transitoria creata per preparare visione del nuovo uomo.»
«Altri
bambini stranieri sono venuti prima di me? Non sono il primo a cui la
voce si indirizza, il primo essere, come dite? decontaminato.»
«Sì, ne sono
venuti altri. Undici. Altri sono stati tentati. Non ce l’hanno
fatta. Ma nessuno aveva la tua volontà e la tua vivezza di spirito.»
«Allora sono
diverso?»
«Forse sarai la
nostra fortuna. La consulta ritiene che il numero dodici soddisferà
tutte le condizioni. Se i loro calcoli sono giusti, tu diverrai
l’uomo nuovo. Quello atteso dai giocatori.
Scossi la testa:
«Non sembravano
essersene accorti.»
«Nulla
è stabilito. C’è solo un mezzo di sapere se tu sei colui che noi
attendiamo, è che tu resti fra noi. Qui, troverai il tuo posto. E
percorrerai il mondo. La tua tribù ha più bambini di quelli che è
in grado di nutrire. Non si è preoccupata per la tua scomparsa.
Resta. Diremo ai tuoi genitori che hai scelto la Città.
Comprenderanno.»
«Mi insegnerai a
condurre il mezzo ?»
«Sì. E molte altre
cose ancora.»
«Imparerò a
cacciare l’uomo?»
«Certo, se già non
sei colui che stiamo cercando. Ma tu lo sarai. Divenuto un uomo della
Città, vedrai luoghi ben differenti da un paese seppellito sotto le
sabbie, un lago il cui livello si abbassa inesorabilmente. Il deserto
avanza. La Città, sola, gli può sfuggire, andare alla ricerca
dell’acqua, la dove essa sussiste. E forse un giorno gli abitanti
della Città, compagni dell’uomo nuovo, lasceranno questo mondo che
muore per andare a cercare tra le stelle un’altra terra più
accogliente. Alla tua età, ai la speranza di partecipare al viaggio.
Vieni, ti morsero il segretissimo laboratorio dove mettiamo a punto
un motore di potenza ineguagliata. Questo motore ci lancerà sulle
tracce di coloro che, molto prima di noi, si staccarono dalla Terra,
ci condurrà più lontano del sole, ci lancerà tra le stelle dove
l’uomo nuovo recherà la sua impronta e si stabilirà per i secoli
a venire… Hai visto le nostre ali. Ma lo sai che, già ora, la
Città può volare? Non lo facciamo molto spesso, per risparmiare
energia. Ma un giorno molto vicino, noi decolleremo.
Sul
morbido letto che sostituiva la mia povera stuoia di giunchi, non
trovavo requie. Mi veniva in mente ciò che diceva l’Anziano:
Diffidate
della Città. Vi si entra uomo, e vi si muore macchina.
Dovevo
accettare l’offerta di Chram, diventare il solo uomo tra gli
aneroidi? Diventare l’uomo nuovo? Che voleva dire, di preciso?
Sarei divenuto sapiente. Avrei conosciuto i segreti degli Eredi tanto
quanto quelli degli uomini. Avrei insegnato ai miei fratelli a
produrre, con le tecniche della Città, gli alimenti, gli strumenti,
tutti gli oggetti di cui avrebbero avuto bisogno per vivere come gli
uomini dell’antichità, degli uomini veri. Forse potevo anche
aiutare i miei fratelli della tribù, aprir loro la via per una vita
migliore. E, soprattutto, salvare il lago dalla morte. Cos’, essi
avrebbero sostituito gli androidi. I quali, ua volta divenuti
inutili, sarebbero scomparsi. Ma era una buona cosa diventare un
nuovo uomo?
Mi
appisolai, mi svegliai da un incubo. La testa di Ulex mi guardava con
i suoi occhi brillanti ma vuoti. Tutt’intorno danzavano i piccoli
aneroidi, con i loro impianti che rilucevano nella penombra. I
bambini cantavano: Abbiamo
trovato l’uomo nuovo.
E sentivo che sul
mio viso colava la maschera di Ulex.
Nel mezzo della
notte, infine caddi in un sonno profondo.
Appena svegliato, mi
sollevai fino al finestrino.
Sul deserto di
pietraia, si levava il giorno, in un altro tono di rosso.
Delle ombre
passarono sulle rocce molo velocemente. Gli uccelli!
Si inseguivano,
girando velocissimi, risalivano dritti nel cielo che facevano
echeggiare delle loro grida. Ma, dietro il carapace, non li si
sentiva. Nella Città, no c’erano uccelli.
Il sole faceva
sfavillare i ciottoli che, al di là del ghiaione, si estendevano a
perdita d’occhio. A quell’ora, gli uomini della tribù tornavano
dalla caccia. Con un po’ di fortuna, avrebbero recato il loro
bottino, qualche cane della steppa. Una carne immangiabile, dicevano
le femmine. Ma di cui utilizzavamo le pelli. E c’erano anche delle
antilopi.
Col viso stampato
sul vetro, percepivo una figura eretta contro i cielo. Quella di mio
padre che mi aspettava ma che rifiutava di entrare.
Volli fargli un
segno. Ma, ovviamente, mio padre non poteva vedermi.
Risalii
il passaggio. Quando arrivai davanti alla porta, si aprì.
Mio
padre vide suo figlio uscire dalla Città, ma non si mosse.
Lo raggiunsi e,
senza scambiare una parola, ci siamo allontanati tra le rocce.
La Città aveva
aperto le sue ali al levare del giorno.
Chram
aveva ragione. La
Città stava per decollare. Stava per volar via.
Ma ecco che ripiegò
le sue ali.
Spense le sue luci,
ad eccezione dei suoi fuochi anteriori e posteriori.. Quelli che
proiettavano dei fasci rossi e verdi i cui riflessi correvano sulla
ceramica.
La Città illividì.
Poi, sulle sue lunghe zampe, si avviò.
E mi sono svegliato.
(Traduzione
dal francese di Giorgio Sangiorgi)