
In un grande palazzo avito, verso la fine del XVII
secolo, il nobile signore Gherardo Dasseni, comodamente seduto in una poltrona
vicino al camino della sala, osservava in silenzio la sua unica figlia, Adelasia,
che ricamava accanto a lui.
Era una ragazza ventenne, bionda, graziosa, che il
padre voleva maritare il prima possibile, sperando, ovviamente, in un buon
partito.
Nella sala, piuttosto in penombra, non si udivano altri
rumori oltre al crepitare dei ciocchi accesi, che diffondevano attorno un
piacevole calore.
«È meglio per te se ti levi dalla testa quel mascalzone!»
gridò d’un tratto Gherardo facendo sobbalzare la figlia. «Un uomo senz’arte né
parte dovrebbe sparire dalla faccia della terra.»
«Ma io… io l’amo, padre,» azzardò la ragazza alzando
la testa dal ricamo.
«Tu amare uno sciocco perditempo, un vagabondo, uno
squattrinato?» sbraitò Gherardo schiumante di rabbia. La sua voce risuonò
cupamente nell’alto soffitto della sala. Poi l’uomo parve calmarsi. Con voce
meno aggressiva: «Io credo, figlia mia, che ti abbia dato di volta il cervello…»
«Ma, padre… io… io…»
«Tu niente! Farai ciò che ti dico, se non vuoi essere
diseredata.»
Ma Gherardo Dasseni era sicuro che quella minaccia, da
sola, non sarebbe bastata a indurre Adelasia
a cambiare idea. Era troppo innamorata di quel miserabile Enrico Tomei.
Che fare?
La soluzione più ovvia gli parve quella di toglierlo
di mezzo una volta per sempre. Non di persona, ovviamente. Sarebbe stato troppo
rischioso e compromettente. Bastava assoldare qualche bravaccio che, per un bel
gruzzoletto di denaro, avrebbe volentieri svolto quel lavoro.
Così fu, infatti.
Una notte, il povero Enrico Tomei fu trafitto alla
schiena dalla lama di una spada. Le ultime parole che egli sentì, prima di
morire, furono le seguenti:
«Questo da parte del nobile Dasseni, che spera tu vada
dritto all’Inferno.»
Ma a essere ucciso, poco dopo, fu anche lo stesso Gherardo
il quale, spilorcio com’era, si rifiutò di dare al bravaccio tutta la somma di
denaro che era stata pattuita.
* * *
Il caso volle che le tombe dei due assassinati venissero
a trovarsi l’una vicino all’altra, nel vecchio cimitero del paese.
E avvenne che, nottetempo, mentre intorno regnava il
silenzio più assoluto, dal terreno dov’era sepolto il Tomei venne fuori una
mano, poi l’altra, poi la testa, infine il corpo.
Con un’espressione
crudele sul volto, il cadavere s’inginocchiò
vicino alla tomba di Gherardo Dasseni e si diede, furiosamente, a scavare la
terra con le unghie, finché non raggiunse la bara del nobile signore.
L’aprì e, con morsi furenti, bestiali, fece scempio
del corpo in essa contenuto. Quindi, soddisfatto, se ne tornò nella sua tomba,
deciso ogni notte a uscirne per cibarsi del cadavere del nobile signore, fino a
quando non fossero rimaste che le ossa.
In un'atmosfera secentesca, ritratta con sicure ed efficaci pennellate, prende forma l'elemento horror: una specie di nemesi, il cui protagonista sta a mezza strada tra il fantasma e lo zombie. Direi che il racconto è impressionante proprio per il suo stile asciutto e incisivo, come se fosse una cronaca dell'epoca. L'orrifico, dato quasi per scontato, mette, proprio per questo, i brividi. Racconto riuscito, bello e coinvolgente.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino