
Ordino alle
mie mani di accendere il portatile. Le costringo a consegnarmi un foglio bianco
su cui scrivere. Le mie mani stesse sono dei fogli bianchi. Ordino al foglio
bianco di riempirsi della mia angoscia, dei miei incubi a occhi aperti. Non
ottengo niente; il foglio resta bianco e tutto ciò che si agita dentro di me
continua a tormentarmi.
So che esiste
un altro sistema. Dovrei razionalizzare ogni argomento del dolore, separarlo
dagli altri, dargli un ordine. Poi dovrei prendere ciascuno di quei foglietti
accartocciati, ognuno dei quali non rappresenta, ma è esso stesso uno dei miei
vuoti, e spiegarlo con attenzione fino a che risulti leggibile. Solo allora
potrei vedere che si tratta solo di scarabocchi incomprensibili.
Allora potrei
provare a tradurli in un linguaggio che tutti possano capire, ma si tratta di
un lavoro lungo e faticoso; varrà la pena? Non ho nient'altro da fare. Non so
se ne valga la pena ma decido di farlo lo stesso; così, per passare il tempo.
* * *
Svolto il
lavoro, osservo con attenzione il risultato. Il risultato è un foglio coperto
di scarabocchi incomprensibili. Lo appallottolo e lo getto nel cestino.
Ho lavorato
per niente. Eppure... potrei essere comunque nel giusto! Forse ho semplicemente
sbagliato il foglio da decifrare, forse prendendone un altro il risultato
potrebbe essere migliore.
Così prendo
un altro foglio accartocciato, lo bagno col sudore che mi cola dalla fronte,
resto sveglio notti e notti nel tentativo di trasformarlo in un’espressione coerente
del mio essere.
Poi prendo il
frutto del mio lavoro, lo appallottolo, lo scaglio con rabbia, nel cestino.
Eppure sono
tanti, quei fogli accartocciati da controllare, sporcare di sudore nel
tentativo di esplicarli. Sarebbe stato un colpo di fortuna trovare quello
giusto appena al primo o al secondo tentativo.
Non mi va di
stare a spulciarli uno per uno. Non mi va di grondare sudore per un risultato
forse possibile, ma tutt'altro che certo. Però non ho niente di più importante
da fare e mi sentirei in colpa ad abbandonare così l'impresa.
Passano
giorni, anni... ora mi trovo in una stanza ricolma dei fogli che,
insoddisfatto, ho preso e gettato alla rinfusa attorno a me. I fogli mi
guardano. Mi giudicano senza emettere nessun verdetto.
Quei fogli
sono la mia vita, i tanti mattoni della mia sofferenza che invece di ridursi si
sono accumulati fino quasi a soffocarmi sotto il loro peso. Quello che ho in
mano potrebbe essere l'ultimo, quello il cui peso potrei non riuscire a
sopportare.
È per questo
motivo che lo soppeso bene prima di gettarlo; se fosse l'ultimo, il suo
significato intrinseco potrebbe dare un senso a tutta questa vita, incomprensibile
per chiunque forse, ma carico di implicazioni a un livello superiore.
Solo allora
un barlume di luce si fa strada nei miei pensieri; forse ho cercato una
soluzione troppo immediata. Forse le cose non sono così semplici. Forse non
devo concentrarmi su ogni singolo punto, ma lavorare per cercare dei
collegamenti che diano un significato a tutto l'insieme.
Mi guardo attorno,
e pensare di fare ordine del caos che mi circonda, sembra impossibile; ci
vorrebbe una vita intera. Ma come al solito non ho altro da fare e pian piano
mi metto all'opera.
Inizio a
catalogare tutto, riponendo in ordine i fogli che mi sembrano importanti,
gettando dalla finestra quelli che invece appaiono irrilevanti oppure ripetono
concetti già espressi altrove.
Dopo un’intera
giornata di lavoro non ho fatto praticamente nulla; una goccia nel mare, un
granello di sabbia. Mi lascio prendere dallo sconforto, crollo disfatto dalla
fatica.
Quando mi sveglio,
mi guardo attorno. La situazione non è cambiata ma devo pur passare il tempo,
in qualche modo. Cerco di farmi forza pensando che dopotutto una spiaggia è
fatta da granelli di sabbia.
La mente è
tanto stanca che mi duole in ogni sua parte, ho delle fitte insopportabili alla
memoria e un dolore cupo e pulsante ai sentimenti, la creatività brucia di un’infiammazione
letale.
Nonostante
tutto cerco di scuotermi per portare a termine ciò che ho iniziato.
Intanto il
tempo continua la sua marcia inarrestabile; non esistono ancora dei calendari
capaci di misurarne la reale essenza.
Io sono
ancora qua, che sistemo i miei fogli e ogni tanto prendo qualche appunto. Il
lavoro è ancora ben lontano dall'essere finito, ma un mucchietto di sabbia fa
bella mostra di sé, proprio al centro della stanza. La mia barba e i miei
capelli sono lunghi e hanno un aspetto candido e selvaggio, la pelle è solcata
di rughe.
Poi un giorno
mi sveglio e sento in me qualcosa di diverso. Mi frugo per capire cosa sia
cambiato e lo trovo subito. Dentro di me si è creato un grosso spazio vuoto,
questo vuoto ha preso il posto che prima era occupato da quell'angoscia
insopportabile. Un senso di libertà mi pervade l'anima.
Dalla
finestra socchiusa filtra un raggio di sole, la spalanco e mi affaccio a
guardare il mondo, dopo tanto tempo. Guardo fuori e cerco il mondo con lo
sguardo, ma non c'è più alcun mondo là fuori, solo un’infinità di fogli
accartocciati, macchiati d'inchiostro e sudore, intrisi di solitudine. La mia
angoscia ha preso la forma di un deserto bianco sporco che si estende a perdita
d'occhio.
Chiudo la
finestra e torno a stendermi nel letto; il lavoro è finito e ormai non ho più
molto da fare.
(Per gentile concessione dell’Autore)
Racconto intensamente psicologico. Ben scritto.
RispondiEliminaUn benvenuto a Sauro.
Bel racconto, scritto molto bene. Interessante è la carica simbolica che coinvolge il protagonista nella sua fatica di scrivere. In quell'atto c'è tutta la carica speculativa di chi vuole cogliere un senso di tutto quanto e del proprio esistere. Una fatica di sisifo che ci interroga oltre il coinvolgimento emotivo.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino
Un grazie, di cuore, a Giuseppe per il suo commento. Fa davvero piacere vedere che un racconto è stato compreso appieno. E grazie a Paolo, per aver accettato di ospitarmi sul suo blog.
RispondiEliminaSauro.
Grazie a te, e un benvenuto anche da parte mia!
EliminaGiuseppe Novellino